Copyright © 2019 Sorbonne Université, agissant pour le Laboratoire d’Excellence « Observatoire de la vie littéraire » (ci-après dénommé OBVIL).
Cette ressource électronique protégée par le code de la propriété intellectuelle sur les bases de données (L341-1) est mise à disposition de la communauté scientifique internationale par l’OBVIL, selon les termes de la licence Creative Commons : « Attribution - Pas d’Utilisation Commerciale - Pas de Modification 3.0 France (CCBY-NC-ND 3.0 FR) ».
Attribution : afin de référencer la source, toute utilisation ou publication dérivée de cette ressource électroniques comportera le nom de l’OBVIL et surtout l’adresse Internet de la ressource.
Pas d’Utilisation Commerciale : dans l’intérêt de la communauté scientifique, toute utilisation commerciale est interdite.
Pas de Modification : l’OBVIL s’engage à améliorer et à corriger cette ressource électronique, notamment en intégrant toutes les contributions extérieures, la diffusion de versions modifiées de cette ressource n’est pas souhaitable.
Molte sono le opere che trattano della Mitologia, e dotte, e
voluminose ; ma poche sono le elementari, e che servir possano utilmente alla
gioventù d’introduzione a questo studio non meno interessante che ameno, e
necessario sopratutto all’intelligenza de’ Classici antichi, e moderni. Il
ristretto che ora vien presentato al Pubblico per uso dei Reali Collegj, è stato
ricavato con sobrietà e giudizio dai migliori mitologi tanto Italiani, che
oltramontani, e si è pensato di escluderne non solo quanto riguardar poteva la
parte più sublime di questa Scienza, e non ancora a portata de’ principianti, ma
benanche tutte le superflue dilucidazioni della favola, e tutte l’espressioni
che avessero potuto, benchè in minima guisa, ledere le caste orecchie, e la più
pura morale de’ giovani studiosi. Re
Ferdinando primo.
La MitologiaMythos fabula,
e logos discorso : quindi Mitografi,
e Mitologi per dinotare gli scrittori, o gl’inventori
delle favole. La Mitologia degli antichi comincia
dall’unione di Urano, o del Cielo
con la Terra, e termina per lo ritorno di Ulisse ad Itaca. Tutto questo periodo si chiama κυκλος μυθικος
il cerchio mitico, o il corso di tutta la
favola.discorso sulla favola.
La serie numerosa delle avventure, che andando innanzi osserveremo, non sono in sostanza per noi che semplici favole : noi le consideriamo come piacevoli invenzioni, o tratti di spirito destinati talvolta a spiegare, o piuttosto a gentilmente nascondere varj precetti della morale.
Gli Egiziani, presso de’ quali ebbero la loro origine, i Greci che le
accolsero, ed i Romani, che parimente le adottarono, riguardavano questi
immaginarj racconti, come gerghi misteriosi da non doversene punto dubitare,
e non vedevano nel tutto, che il sistema di religione dagl’Iddj ad essi
presentato, e che i Poeti, ed i Savj colle cure più sollecite avevano
custoditofavelle contenenti
istoriche verità ne’ tempi dell’antica Grecia.
I dotti si sono a maggior segno affaticati per rintracciare la sorgente di
tali invenzioni : essi hanno azzardato le più plausibili congetture con
fabbricare altresì de’ sistemi, che potessero appagare almeno la fantasia :
ma non mai loro è riuscito di poter dire : ecco la verità.
Taluni hanno rinvenuto nelle favole l’abbozzo di varj effetti naturali
Ma tali sistemi, ed interpetrazioni sarebbero all’intutto fuori di proposito
in un’ opera fatta per darci le idee precise della favola, e lo sarebbero
sempre più, senz’aver prima formato un quadro delle idee suddette. Se le
abbiamo noi accennate, ciò è stato per fare intendere alla gioventù
studiosa, che le favole non sono puerili invenzioni a capriccio immaginate.
Le favole delle antiche nazioni le più illuminate appartenenti alla
religione, formavano un oggetto assai rispettabile qual’era l’istruzione, e
la pubblica felicità, come chiaramente rilevasi dalle opere di Omero, e di
Esiodo
Ma diranno i nostri giovani lettori, se Giove, Giunone, e tanti altri non
sono più Dei per noi : se la scienza della favola si è perduta, o almeno
è incerta, qual vantaggio ricaveremo noi dallo studio della Mitologia ?
Ecco la risposta. In rapporto alla morale, il frutto non può essere che
scarsissimo : ma per l’opposto ci fornirà di grandi vantaggi per bene
intendere le opere degli antichi, per la lettura de’ poeti, e per
l’intelligenza di tanti lavori dell’ultima perfezione usciti dallo
scarpello, o dal pennello de’ più valenti artisti. La Mitologia se più
non ha rapporti colla Religione, ha però un tempio nel Regno delle belle
arti : le sue antiche bizzarrìe sono tuttogiorno in moda fra noi, ed
hanno un incantesimo tanto lusinghiero da farci ravvisare sempre in esse
delle « Ivi tutto è
illusione. Tutto ha corpo, anima, spirito, sembianza. Ogni virtù
diventa una Divinità. Minerva è il simbolo della prudenza, Venere
della bellezza. Lo scroscio del tuono non è l’effetto dei vapori, è
Giove armato per ispaventare i mortali. Sorge una tempesta, che
sgomenta il Nocchiero, è Nettuno sdegnato, che mette le onde in
sconquasso. L’eco non è più un suono che rimbomba nell’acre, è una
Ninfa, che si duole, o piange la morte di Narciso. Così il poeta
nella nobile combinazione di tante finzioni aleggia nella sua
fantasia : adorna, innalza, abbellisce, ingigantisce le sue
invenzioni, e si aprono i fiori sotto la sua mano in ogni stagione.
Avendo assai spesso i poeti cangiato le favole a lor talento, non è facile di tenere un metodo esatto delle loro vantate invenzioni. Omero non è sempre di accordo con Esiodo : e Ovidio, che visse molto dopo, ha sovente opinioni diverse dagli altri. Questa circostanza ci avverte, che gli antichi scrittori si assumevano il dritto di far parlare, ed agire a lor talento gli Dei : e talvolta abusavano pur troppo di un tal privilegio.
Se non è agevole cosa il conciliare tra loro i Mitografi, difficile è pur
anche il far la diceria
Noi faremo immediatamente la numerazione degli Dei, che riscuotevano un
culto più esteso, e perciò detti L’immaginazione de’ poeti faceva nascere nel mondo
allora bambino i Dei all’occasione di qualche umana necessità, o
utilità. Quindi l’origine degli Dei maggiori e cet.Dii magni, Dii Consentes, quasi consentientes. Venti se ne
contano : fra’ quali dodici soltanto erano ammessi nel consiglio
celeste, cioè Giove, Giunone, Nettuno, Cerere, Mercurio, Minerva, Vesta,
Apollo, Diana, Venere, Marte, Vulcano. I
rimanenti otto numi di prim’ordine erano il Destino,
Saturno, Genio, Plutone, Bacco, Amore, Cibele, e ProserpinaRudes initio homines Deos appellarunt, sive
ob miraculum virtutis, sive ob beneficia, quibus erant
ad humanitatem compositi.
Vedremo in seguito le Divinità di secondo ordine, che preseggono ai campi, ai fiori, agli arbori, in guisa che Pane, Pomona, Vertunno, e tanti altri sono allegati da Ovidio tra ’l basso popolo degli Dei.
La terza classe sarà composta de’ Semidei così detti,
per esser nati da un Dio, ed una mortale, o da un Uomo, ed una Dea, come
Ercole, Castore, e Polluce, e tanti altri. Parleremo in seguito degli Eroi, quali erano i Re, e gl’illustri guerrieri,
soggetto del canto de’ poeti. Tra questi Agamennone,
Ulisse, ec. ec.
Vi ha altresì una moltitudine di favole accoppiate alla storia degli Dei,
ma che per altro non forma una parte del sistema religioso. Tali erano
le favole di Bauci, e Filemone, di
Piramo, e Tisbe, ed altre
consimili.
Finalmente gli Uomini fermi nel principio di un’idea sublime, e
consolante, che la Divinità regnasse sovranamente da pertutto,
assegnarono un posto nel Cielo alle Le favole talvolta furono inventate per ridurre
all’ubbidienza il popolo, o per ispirare agli altri i nostri
sentimenti, come Fedro c’insegna in uno de’ prologhi.Virtù, alle Passioni, ed alle Miserie puranche
dell’uman genere. Quindi furono innalzati i templi alla Concordia, alla Fedeltà, alla Prudenza, alla Povertà, alla Morte, alla Febbre, ec. ec. ma noi
riguardiamo tali Divinità come semplici figure allegoriche
Non perchè abbiamo situato in primo luogo il Era indivisibilmente la Necessità
accoppiata al Fato, o sia Destino. Alla Necessità lo stesso
Giove, al dire di Filemone, fu soggetto. Vien ella descritta
da Orazio :Destino, dobbiamoper questo noi considerarlo come il più
degno fra gli Dei, e nel dritto di riscuotere gli omaggi de’
mortali : che anzi a lui non si faceva offerta di veruna sorta,
poichè niente poteva sperarsi dal medesimo. I suoi decreti erano
immutabili, e la sua volontà inflessibile. Gli Dei istessi a lui
erano soggettiSarpedone, E lo stesso tuttochè voglia
salvar Patroclo, pure perchè ne ignora il fato
prende la bilancia ; e perchè il lato, che decide della morte di
quest’eroe, trabocca, è obbligato di abbandonarlo al
destino.Destino era figlio della Notte : vien dipinto con una benda avanti gli
occhi. Egli è, a dire il vero, un Nume cieco, e ’l suo governo
Giulio Cesare.Destino con quello
di Legge immutabile, privandolo della
Divinità.
Il Caos
Si dà ancora il nome di Caos alla mole indigesta,
che formavano gli elementi prima che fossero segregati.
Ecco il sublime tratto di Ovidio tradotto dall’Anguillara, nel quale troviamo descritto cotesto scioglimento.
Pria che il Ciel fosse, il mar, la terra, e ’l fuoco : Era il foco, la terra, il Cielo, e ’l mare : Ma il mar rendea il Ciel, la terra, e ’l foco Deforme, il foco il Ciel, la terra, e ’l mare ; Che ivi era terra, e Cielo, e mare, e foco Dov’era, e Cielo, e terra, e foco, e mare : La terra, il foco, e ’l mare era nel Cielo, Nel mar, nel foco, e nella terra il Cielo. ……………………………… Non v’era chi portasse il nuovo giorno Col maggior lume in Oriente acceso, Nè rinnovava mai la luna il corno, Nè l’altre stelle avean lor corso preso ; Nè pendeva la terra intorno intorno Librata in aere dal suo proprio peso. Nè il mar avea col suo perpetuo grido Fatto intorno alla terra il vario Lido. ……………………………… Quindi nascea, che stando in un composto Confuso il Ciel, e gli elementi insieme, Faceano un corpo informe, e mal disposto Per donar, forma al mal locato seme : Anzi era l’un contrario all’altro opposto Per le parti di mezzo, e per l’estremo : Fea guerra il lieve al grave, il molle al saldo : Contro il secco l’umor, col freddo il caldo. ……………………………… Ma quel che ha cura di tutte le cose, La natura migliore, e ’l vero Dio, Tutti quei corpi al suo luogo dispose, Secondo il proprio lor primo desio. D’intorno il Cielo, e nel suo centro pose La terra, indi dal mar la dispartìo ; E il passo aperto, onde esalasse il foco, Se ne volò nel più sublime loco. ………………………………
Abbiamo quì rapportato un picciolo squarcio di questo celebre pezzo di Ovidio, per far conoscere l’idea, che avevano gli antichi della Creazione : credevano essi, che la materia fosse eterna, e che l’alta potenza del Creatore l’avesse posta in moto per formarne l’universo. Il dippiù si potrà leggere nel testo di Ovidio, e presso il suo anzidetto traduttore.
Urano (parola che significa il Cielo) è il più antico degli Dei. Egli
era il figlio del Giorno, e sposò sua sorella Gè, o Titèa, eioè la Terra.
Ebbero molti figli, che da Titèa furon detti Titani, o figli della Terra. I principali furono Titano, l’Oceano, Iperione, Giapeto,
Tia, Saturno, Rea, ossia Cibele, Terni,
Mnemosine, Teti, Bronte, Sterope, Argèo, Briarèo, Gige. La
terra altresì concepì dal Tartaro il gigante Tifeo, che molto si
distinse nella guerra degli Dei.
Urano, che temeva per parte de’ figli, li rinchiuse secondo che
nacquero in un abisso, ove il giorno non penetrava. Tale precauzione
a lui fu fatale : imperciocchè giunti quelli ad una certa età, si
rivoltarono contro lo stesso loro padre, ad eccezione di Oceano. Ma Urano ebbe il di
sopra, e li condannò ad essere eternamente legati : il solo Saturno andò esente da tal pena per cura di Titea per essere il prediletto. Questi animato
dallo spirito di vendetta spezzò le catene de’ suoi fratelli, e
s’impossessò dell’Empireo : ed aggiungendo all’usurpazione il
parricidio, mutilò suo padre con una falce di ferro, che sua madre
gli avea dato. Dal sangue di Urano, che si sparse
sulla terra nacquero i Giganti, e le tre Furie : quella parte,
che si mischiò colla schiuma del mare produsse Venere detta altresì Afrodite, perchè
nata dalla spuma.
Titano, perchè il primogenito, dovea essere l’erede
di Urano : egli dunque reclamò l’imperio : ma
Saturno non volle cederlo, e lo ritenne per se. Si venne pertanto ad
un aggiustamento, che gli propose Titano, col quale Saturno si
obbligava di non allevar figli maschi, affinchè il governo fosse
ritornato nella famiglia di Titano. Tantoppiù Saturno prestò
orecchio a tale trattato, per avergli Urano
presagito stando presso a morte, che uno de’ suoi figli lo avrebbe
sbalzato dal Trono, appunto come avea esso praticato con suo padre.
Egli dunque divorò tutt’i figli, ai quali aveva data la vita. Il
solo Giove fu esente da tale disgrazia, mercè le
cure di Cibele sua madre, che accorgendosi essere
incinta, volle questa volta salvare la prole futura. Consigliata
segretamente da Titèa si ritirò in una grotta
Chiamata Dittèa nell’isola di Creta, ed ivi partorì Giove, e Giunone ; affidò il primo alle
Ninfe Ida, e Adrastèa dette Melisse, e lo raccomandò ai Cureti, o sieno Coribanti, Sacerdoti
vestiti a foggia di guerrieri ; ma bensì ritenne presso di se Giunone, poichè il trattato Titano, riguardava
la sola prole maschile. Giove divenuto adulto
debellò i Titani, che nuovamente avevano dichiarata la guerra a
Saturno
.Non enim cecidit potens eorum in
juvenibus, nec filii Titan percusserunt eum, sed Judith
filia Merari in specie faciei suae dissolvit
eum
Il Regno di Saturno però non ebbe molta durata. Il torbido suo umore, e ’l coraggio di Giove turbarono la sua felicità. Egli in fine fu rovesciato dal Trono, e discacciato dall’Olimpo da Giove suo figlio.
Ritirossi perciò in Italia, e propriamente nel Lazio, detto così dal
Latino latere, perchè ivi si nascose per sottrarsi
dall’ira di Giove. Fu accolto da Giano, principe Tessalo, che
regnava allora nel Lazio. Col consiglio, ed assistenza di questo
Dio, Giano civilizzò i suoi popoli, insegnò loro il corso dell’anno,
l’agricoltura, l’uso della moneta, le regole della giustizia, e la
norma del ben vivere sotto il governo delle leggi. Finalmente
durante il tempo che Saturno conversò con gli uomini, fu sì grande
la felicità, che tal’epoca fu chiamato l’età
dell’oro. Giano
. Egli era effigiato a due facce : sia perchè avendo
egli il dritto sul mese di Gennajo riguardasse l’anno scorso, e
quello, che cominciava, sia perchè avesse egli la conoscenza del
passato, e del futuro, o finalmente perchè avesse diviso il suo
regno con Saturno, non formando entrambi che un Re solo. Vien
figurato talvolta con quattro facce, per indicare le quattro
stagioni. Ha dippiù una bacchetta nelle mani, perchè presedeva alle
pubbliche strade, o pure una chiave, perchè creduto l’inventore
delle porte.Egli ha chiuso il tempio di
Giano
Saturno avrebbe potuto pacificamente vivere fra gli uomini, se il suo genio torbido non lo avesse indotto ad unirsi nuovamente con i Titani per fare la guerra a Giove. Fu vinto anche questa volta, e sopraffatto dalla disperazione ritirossi nella Sicilia, ove morì di dispiacere.
Questa è la favola di Saturno : una delle più chiare, e facili a
spiegarsi. I Greci lo chiamarono Cronos, cioè il
tempo, ed era naturale, che i poeti lo
facessero nascere dal Cielo, e dalla Terra. I suoi attributi indicano le sue funzioni,
Le sue vicende, al dire de’ commentatori, sono altresì misteriose. Egli mutilò suo padre, perchè dopo la creazione del mondo, tutto era compito. Ingozzò i suoi figli, perchè il tempo tutto divora : indi li ributtò dallo stomaco, perchè il tempo medesimo alternativamente ci restituisce i giorni, e le notti.
Cibele figlia di Urano, presso i
Greci Cibebe, era la sorella, e la sposa di Saturno, a cui partorì
molti figli.
Varj furono i suoi nomi. Ebbe il nome di Cibele da
una montagna della Frigia : come pure Titèa, cioè, Terra, perchè presiede al nostro Globo. Fu
detta Rèa del Greco Rhèo, fluo
per le piogge, ed i fiumi, che scorrono sulla Terra, ed Opi pel soccorso che apprestava agli uomini.
Migdonia, Pessinunzia, Frigia, Berecinzia, Idea dai
diversi luoghi ove ella era adorata ; fu chiamata Magna
Mator, o Mater Deum, qual Madre delle
Divinità di prim’ordine ; come altresì Vesta
l’antica per distinguerla dalla figlia del nome medesimo :
tal nome ebbe anche Titèa sua madre.
Questa Dea ci viene rappresentata sotto le sembianze di una donna
robusta, coronata di foglie di quercia, avendo in mano una chiave,
ed un timpano con sopravveste sparsa di fiori, assisa sopra di un
carro tirato da’ lionide rerum
nat.Megalesie furono dette le feste a suo onore. I
suoi Sacerdoti distinti coi nomi Galli, e Corybantes, scorrevano per le strade, portando
la statua del loro nume. Danzavano davanti ad essa in una data
cadenza : facevano degli orribili e strani contorcimenti, ed
alzando al cielo acute grida straziavano i loro
corpi.
Giove era il primo, e’ l più potente degli Dei. Al solo inarcare del
suo sopracciglio tremava l’Universo : il Fato
solamente aveva su di lui la preminenzaJovis
anticamente da Latini, siccome Zevs dal
fischio del fulmine lo dissero i Greci. Gli Ebrei chiamarono
Iddio Jehova con voce che comprendeva tutte le
vocali ; e che distintamente pronunziavano, affinchè anche il
nome ci avesse dato un’idea della di Lui grandezza.
Dopo aver vinto Saturno, egli divise il suo imperio cogli altri fratelli. Nettuno ebbe il mare, Plutone l’inferno, ed esso l’empireo. Per mano de’ Ciclopi fu formato un elmo per Plutone, un tridente per Nettuno ; a Giove fu riserbato il fulmine composto di grandine, di acqua, di fuoco, di vento, con frammischiarvi la luce, lo scoppio, il rumore, lo spavento, e lo sdegno.
Il suo regno però non fu sempre tranquillo. I Titani mal contenti de’ dritti ad essi usurpati, gli
suscitarono contro i Giganti, ch’eran figli della terra. Questi per
attaccarlo fin dentro la sua reggia, sovrapposero montagne sopra
montagne. Temendo Giove di soccombere, chiamò in suo ajuto tutte le
divinità. La Dea Stige, che regnava Vittoria, il Potere,
l’Emulazione, la Forza da
lei nati. Per compenso volle Giove, che i giuramenti fatti in nome
di Stige neppure i Dei potessero violare. Il Destino avea altresì predetto, che per ultimar
questa guerra ci voleva la destra di un uomo : Giove a tal tempo si
servì di Ercole, che diede non equivoci
contrassegni del suo valore. Ciascuno degli Dei ebbe parte in questa
mischia, e soprattutto si distinse Minerva, che seppellì Encelado
sotte l’Etna, i di cui sforzi si risentono tuttavia, al dire de’
Poeti, con gittar fiamme, e sassi per liberarsi dal grave peso, che
l’opprime. Per mano di Minerva cadde pur il Gigante Pallante, della di cui pelle ella si coprì, con prenderne
anche il nome ad eterna ricordanza di tale vittoria. Cadde
finalmente in questa guerra Briarèo il più
terribile tra i Giganti, che aveva cento braccia ; e pareva, che già
la guerra fosse terminata, allorchè uscì in campo un altro nemico
per se solo formidabile, quanto tutti gli altri presi insieme, per
nome Tifèo. La terra lo cacciò dal suo seno per
vendicare la morte de’ suoi fratelli.
Questo Gigante era si spaventevole, che la sua forza sorpassava il
terrore, che ispirava. Egli aveva cento teste con serpenti armati di
lingue nere, ed avvelenate, vibranti urli che incutevano
In seguito di tale vittoria, che sommamente accrebbe la potenza di Giove, volle questi occuparsi del governo del Mondo, e più ancora de’ suoi piaceri, ai quali si diede in preda sì fattamente, che la sua maestà fu più degradata di quello, che sarebbe avvenuto ad un uomo. Noi avremo sovente occasione di parlare delle diverse sembianze, sotto le quali si cangiò con avvilire la sua dignità.
Omero, che ci ha data fra i poeti un’idea più nobile di Giove, ce lo
dipinge accigliato, colla fronte coverta da nuvole, coll’aquila
accanto, ed armato del fulmine. A’ suoi piedi fanno sgabello il Rispetto, e l’Equità : ed in
poter suo sono i beni, ed i mali, che a suo talento distribuisce.
Talvolta è rappresentato assiso sopra di un carro, e spessissimo
sopra l’aquila, che per tale ragione chiamasi comunemente l’Augello di Giove.
L’armatura, che difendeva questo Dio, era l’Egida,
vale a dire uno scudo formato dalla pelle della Capra
Amaltea, che aveva nutrito Giove, e ne armava il braccio
sinistro. Questa Capra Capra, che in progresso fu donata a Minerva, che ci
appiccò la testa di Medusa.
Vedremo non di rado Giove sotto la figura di un ariete, o almeno
colle corna di questo animale, detto perciò Giove
Ammone, o sia Giove delle AreneGiove AmmoneSotero, Eleuterio, Olimpio, appresso de’
Greci ; Feretrio, Statore, Olimpio, appresso
de’ Romani. A questo Dio fu eretto un magnifico tempio in Roma
detto Capitolium da caput,
cioè da una testa di un uomo chiamato Tolo,
che si trovò nel cavare le fondamenta. Gli avanzi di questo
tempio veggonsi tuttavia in Roma nella Chiesa di Ara Coeli.
Giunone era sorella, e moglie di Giove. Per tale gli Dei la
riconoscevano. La sua bellezza corrispondeva alla maestà del suo
grado : ma il suo orgoglio era insoffribile. Parlando di se stessa,
ella dicea «
! Virg.Io sposa, e sorella di chi regge il tuono,
Regina degli Dei, del Cielo, e della Terra : ah si salvi l’onor
mio, e facciamo palese al Mondo, che questi Dei sì potenti nulla
possono al paragone di me »
I risultati di questo rispettabile matrimonio non furono altrettanto felici. Giove per sua indole era incostante. Giunone sommamente gelosa : e sovente l’Olimpo era testimonio de’ loro pettegolezzi. La Dea non perdeva giammai di vista tutti gli andamenti del suo sposo, e perseguitava a morte chiunque poteva darle ombra di sospetto.
Sfogò il suo sdegno principalmente sopra di Io, Europa, Semele, e Latona. Argo fornito di cent’occhi, che aveva in guardia Io cangiata da Giove in vacca, fu ammazzato da Mercurio, e transformato in pavone. La Dea in compenso della di lui fedeltà appiccò gli occhi del suddetto alla coda del suo pavone.
Giunone fu detta pronuba, come colei che Domiduca, perchè accompagnava la sposa alla casa
del marito. Per testimonianza di Cicerone fu altresì detta Moneta dal Latino monere per una
voce, che fu udita nel suo tempio in occasione di un fiero
terremoto, colla quale si avvertivano i Romani di sacrificare una
troja gravida per placare lo sdegno degli Dei. Il sacrifizio fu
adempito, e cessò il pericolo.
Nacquero da questa Dea tre figli, Vulcano, Ebe, e
Marte. I due primi li concepì da Giove, il
terzo nacque da essa particolarmente. Crucciata Giunone per essere
nata Minerva dal cervello di Giove senz’averci avuta parte, volle
altresì ella fare un consimile miracolo. Dopo avere affidato il suo
segreto a Flora, le fu da questa indicato un
fiore, che appena toccato dalla Dea la fece diventar madre di Marte.
La sempre bella Ebe era la Dea della giovinezza. Il
suo impiego era di porgere il nettare agli Dei : ma cessarono le sue
funzioni, dacchè ebbe la disgrazia di cadere una volta al di loro
cospetto. A tale uffizio fu destinato il gentile Ganimede, che Giove fingendosi un’aquila aveva al padre
suo Troe involato.
Vulcano nacque sì brutto, e scontraffatto, che avendone Giove rossore
lo fece precipitare dal Cielo sulla terra con un calcio. Vulcano non
Giunone aveva preso parte nella guerra degli Dei : Giove volle punirla, e del castigo Vulcano volle essere il ministro. Egli sospese in aria Giunone per mezzo di due pietre di calamita colle incudini attaccate ai calcagni, dopo averle legate le mani dietro le spalle con una catena d’oro. Invano gli Dei si affaticarono di liberarla : il solo Vulcano poteva darle ajuto : ma questi non si determinò di farlo, se non a condizione, che gli si darebbe in isposa Venere la più bella fralle Dee.
Oltre di Argo aveva Giunone al suo servizio anche
una messaggiera per nome Iride figlia di Taumante, e di Elettra, e
sorella delle Arpìe. Ella era assai cara a
Giunone, perchè i suoi annunzj erano sempre lieti, e perciò fu
convertita dalla Dea in Arco celeste.
Giunone è rappresentata riccamente vestita, assisa sopra di un carro tirato da pavoni, portando lo scettro in mano, ed un pavone al suo fianco.
Cerere figlia di Soturno, e di Cibele era la Dea delle biade, e de’
campi. Ella fu la prima
Questa diva benefica ebbe da Giove la rinomata Proserpina, infelice cagione di tante sue sciagure. Mentre
un giorno questa giovane Dea in compagnia di alcune Ninfe
passeggiava per le praterìe di Sicilia accanto la fontana di Enna, incontrossi con Plutone, che lasciato per
poco l’Inferno, volle visitar l’Etna. Questo Dio
concepì per lei un amor violento ; e malgrado che non fosse
corrisposto, la rapì, e la fece sedere nel suo carro tirato da
cavalli di color nero a dispetto delle lagnanze di Minerva, e
Cianea, che fu punita per tal cagione da Plutone, con averla
cangiata in un fonte ne’ contorni di Siracusa.
Al momento, che Cerere si accorse della mancanza di sua figlia,
l’andò di notte, e di giorno cercando per tutta la terra con
fiaccole accese nell’Etna. Ritrovò ella il velo,
che a Proserpina era caduto sul lago di Siracusa nel volersi
difendere dalla violenza di Plutone : e dalla Ninfa Aretusa, le cui acque scorrevano fino a Stige, fu pienamente informata dell’accaduto. Per liberare
Proserpina, Cerere ricorse a Giove, che per altro esaudì i suoi
voti : ma si ci opponeva un decreto del Destino,
che Proserpina non sarebbe giammai useita dall’Inferno, che nel solo
caso ch’ella non avesse gustato alcun nutrimento di Ascalafo
l’accusò di aver mangiato de’ granelli di un pomo granato, per la
qual denuncia fu cangiato in gufo : ma fu accordato a Proserpina di
poter passare sei mesi con sua madre, ed altrettanti con Plutone,
che l’aveva sposata.
Calmatasi Cerere si applicò nuovamente all’agricoltura con insegnarne
i principj a Trittolemo figlio di Celèo Re di Eleusi, inculcando al medesimo che ne avesse
istituiti altresì gli uomini. In vista di tal comando scorse Trittolemo l’Asia, e l’Europa. Mancò poco però,
che nella Scizia non fosse perito per parte di Linco geloso della preminenza, che in tal mestiere a Trittolemo aveva Cerere accordata. In pena di sua
perfidia Linco fu trasmutato in Lince, animale ch’è simbolo della crudeltà. Cadde la
vendetta di questa Dea altresì sopra di Erisittone, uno de’ primi di Tessaglia per aver questi
tagliata una foresta consagrata a questa Dea, che gli comunicò una
fame sì terribile, che lo ridusse a consumare tutt’i suoi averi per
soddisfarla.
Cerere vien rappresentata ordinariamente coronata di spighe con una
fiaccola in una mano, e nell’altra un fascio di biademodio, simbolo della fertilità, o la cesta mistica delle feste
Eleusinie. Tiene talvolta un vaso nelle mani. Con
quest’attributo l’adoravano gli Achei sotto il nome di Porta-vase ποτηριοφορος.
Parimente figlia di Saturno, e Cibele era Vesta Dea della verginità,
e del fuoco, per cui portava una fiaccola nelle mani. Il principale
suo culto consisteva a tenere sempre vivo il fuoco, che ai raggi
solari ogni anno si raccendeva nelle calende di Marzo. Le sue
Sacerdotesse dette Vestali erano obbligate ad
esser vergini : e guai a chi non osservava un tale divieto, come
pure a chi non manteneva il fuoco acceso sopra il suo altare. La
pena era di essere seppellita viva all’istante.
Apollo fra gli Dei è de’ più celebri. Egli è il capo delle Muse, ed
il Dio della poesia, onde vien invocato dai poeti ; come pure lo è
della musica, dell’eloquenza, della medicina, e di tutte le belle
arti. Riguardavano gli antichi Febo, assiso sopra di un carro
sfavillante, e tirato da quattro furiosi cavalli. « Nume del giorno,
e della luce sei tu, che regoli il corso de’ giorni, delle stagioni,
degli anni. Per te la verde campagna produce fiori, e frutta, e
mercè il calore de’ tuoi raggi la natura è ricca da per tutto. Dove
tu non sei, tutto è lutto, orrore, e spavento : regna il brìo, il
riso, la sorpresa dove tu spandi i tuoi raggi. »
Quinault.
L’Aurora figlia di Titano, e
della Terra apre ogni mattina le porte del Cielo
al carro del Sole. Questo carro circondato dalle Ore figlie di Giove, e di Temi, impiega dodici ore a fare il suo giro. Al far della
sera scende verso il mare, e Febo va a riposarsi
in grembo a Teti.
Come Dio delle arti ci rappresentano i poeti Apollo colla lira fralle
mani, e corteggiato dalle Muse. La sua Reggia è in Parnaso, in Pindo, in Elicona ; sulle rive di Permesso, del
fonte Castalio, o d’Ippocrene,
luoghi poco discosti dall’amene valli di Tempe
nella Tessaglia. Talvolta questo Dio annuncia ai
mortali la loro sorte ; l’oracolo più celebre di questa divinità era
a Delfo. Lo vediamo altresì seguir Diana sua sorella nel più forte
delle boscaglie sotto la forma Pitone in
atto di guardarlo mentre spira.
Di questo mostro ecco la favola.
Latona era figlia di Ceo e di Febe, e madre di Apollo, e di Diana. Accortasi Giunone
della propensione di Giove per questa giovanetta, ebbra di sdegno la
scacciò dal Cielo, e per non darle tregua in verun luogo, obbligò la
Terra a giurare di non darle un asilo neppure
nel suo seno. Di più fece nascere dal limo lasciato dalle acque un
orribile serpente detto Pitone, che inseguiva da
per ogni dove la sventurata Latona. Un giorno stanca dalla fatica, e
sommamente assetata fermossi presso uno stagno ; i terrazzani che
tagliavano giunchi, le proibirono di dissetarsi. Sdegnato Giove dal
Cielo di tanta barbarie, e mosso dai prieghi di Latona, cangiò
questi uomini insensibili in ranocchi, e li condannò ad abitare ne’
pantani.
Ad onta però del potere di Giove, non Nettuno mosso a compassione con un colpo del suo tridente
non avesse fatta sorgere dal fondo del mare l’isola di Delo, non inclusa nel giuramento fatto dalla Terra. Colà
rifugiossi Latona, e sotto una pianta di palma partorì Apollo, e
Diana. Apollo per gratitudine fissò quest’isola fralle Cicladi pria
errante nel mare : e tosto che fu adulto, ed istruito nell’arte di
maneggiar l’arco, ammazzò il serpente Pitone, che aveva sì
crudelmente perseguitato Latona. Questo mostro aveva cento teste :
lanciava fiamme dalla bocca, ed i suoi urli arrivavano fino al
Cielo. Il suo corpo coverto di piume al di sopra, e di serpenti al
di sotto toccava il cielo, e la terra.
Moltiplici furono le avventure di Apollo, riguardandolo in qualità di
un giovane gajo di età sempre fresca, ed istruito nelle belle arti.
Egli amò varie Ninfe ; ma fu sempre infelice nelle sue intraprese.
Dafne figlia del fiume Penèo in Tessaglia, fu
l’oggetto primiero delle sue cure : malgrado però tutt’i suoi pregi,
non fu mai corrisposto da questa Ninfa. Un giorno mentre l’inseguiva
a tutta possa, ella per timore di cadere fralle di lui mani, chiamò
in suo ajuto Penèo suo padre, e fu tosto cangiata
in alloro. Il Dio, ad eterna memoria di questa Ninfa, volle adornare
le sue tempia, e la lira delle foglie di questa pianta, e volle
altresì, che la corona di
Amò ancora Leucotoe figliuola di Orcamo Re di Babilonia, presso la quale egli s’introdusse
sotto l’aspetto di Eurinome sua madre. Clizia figlia dell’Oceano, che inutilmente amava
Apollo, scoverto l’inganno, nè avvertì Oreamo, che
infuriato contro sua figlia la fece sotterrare viva ; ma Apollo, che
non potè salvarla, la tramutò in una pianta, che dà l’incenso. Il
rimorso di un tal attentato condusse a morte Clizia cangiata pur
essa in Eliotropio (Girasole), pianta che gira guardando sempre il
sole, come volendo rinfacciargli la sua poca corrispondenza.
Nacque da Apollo, e Coronide Esculapio, che da
bambino fu dato ad allevare al Centauro Chirone,
da chi fu istruito della virtù delle piante Diventò così celebre
Esculapio nella medicina, che giunse a risuscitare anche gli
estinti, e fra questi a restituire la vita ad Ippolito figlio di Tesèo. Un potere così
grande ingelosì lo stesso Giove, che con un fulmine troncò i giorni
ad Esculapio, e lo situò poi nel Cielo sotto l’aspetto di una
costellazione detta Serpentario, ascrivendolo al numero degli Dei
come Dio della medicina. Era rappresentato questo Dio sotto la
figura di un uomo grave, coperto da un mantello con bastone, a cui
sta una serpe attortigliata in una mano, ed una tazza nell’altra, ed
un gallo a’ Epidauro, dove i
Sacerdoti pretendevano, che loro si manifestasse sovente in forma di
serpente.
La morte di Esculapio fu cagione di una ben seria sventura di Apollo.
Non potendo questo Dio attaccar Giove di fronte per vendicarsi,
ammazzò a furia di frecce i Ciclopi, che avevano fabbricato il
fulmine. Riputando Giove fatta a lui stesso tale ingiuria, privò
Apollo per qualche tempo della qualità divina, e lo cacciò
dall’Olimpo. Il più amabile, il più saggio fra gli Dei fu costretto,
per non perir della fame, ad avvilirsi a pascolare gli armenti di
Admeto Re di Tessaglia. Qual impiego avendo
lasciato per i furti di Mercurio, non trovò altra
via, che di fare il muratore con offrire unito a Nettuno, parimente
privato della divinità, al Re Laomedonte la sua
opera nella fabbrica delle mura di Troja. La mercede fu convenuta :
ma questi che non aveva molta dilicatezza, terminato il lavoro, gli
mancò di parola. Lo sdegno di Apollo fu cagione, che una pestilenza
attaccò gli stati di questo principe spergiuro. Da Nettuno
contemporaneamente furono fatti inondare dalle acque del mare, con
inviar colà per giunta un mostro orribile per accrescere la
desolazione, e lo spavento. In sì fiera traversìa fu consultato
l’Oracolo, la cui risposta fu che Laomedonte poteva disarmare la
collera degli Esione.
Bisognò cedere : ed oramai questa principessa sarebbe stata la
vittima infelice, se non fosse sopraggiuuto a tempo Ercole per salvarla. Laomedonte l’aveva
promessa in isposa a questo Eroe : ma al suo
solito pure gli mancò di parola.
Infuriato Ercole per tale indegnità, assediò Troja, e preso
Laomedonte, lo ammazzò. Volle in seguito, che Telamone figliuolo di Eaco Re di
Salamina sposasse Esione, in guiderdone del
coraggio da esso mostrato per essere stato il primo
nell’assalto.
Rimesso finalmente Apollo in grazia di Giove, comparì nuovamente nel
Cielo rivestito della sua gloria. Ma siccome Esculapio fu
l’innocente cagione del suo esilio, così un altro de’ suoi figliuoli
gli attirò una nuova disgrazia. Fetonte a lui nato
da Climene figlia di Teti, e
dell’Oceano, ebbe un giorno delle brighe con
Epafo figlio di Giove, e di Jo, per avergli
quest’ultimo rinfacciato di non essere nato da Apollo, come egli
credeva. Il giovane Fetonte portò le sue doglianze
a Climene sua madre, che gl’insinuò di recarsi ad
Apollo per assicurarsene, locchè senza ritardo fu eseguito.
Apollo depose tutt’i suoi raggi luminosi, e giurò per la Stige, che avrebbe acconsentito a tutto ciò che suo figlio
gli domandasse in
Monta Fetonte il carro risplendente, e si allontana pur troppo,
malgrado il divieto di suo padre. Ma i cavalli indocili all’insolita
voce, e mal diretti dall’inesperta mano si scostano dalla via
ordinaria, e slanciandosi troppo verso il Cielo talora, talora verso
la terra, portano dappertutto la forza di un fuoco distruttore. I
monti s’incendiano, le pianure si abbruciano, i fiumi
s’inaridiscono, il mare si abbassa, e la madre Terra spaventata dal pericolo che le sovrasta, indirizza a
Giove i suoi prieghi. Il Re degli Dei mosso a compassione diede di
piglio al suo fulmine, e lo scagliò contro Fetonte, con averlo fatto
precipitare nell’Eridano, o sia Pò. Le Eliadi
figlie del Sole Lampetusa, Lampezia, e Faetusa, sorelle di Fetonte sentirono il più vivo
dolore di sua morte : furono cangiate in pioppi, e le di loro
lagrime diventarono granelli di ambra. Cicno amico
di Fetonte ne morì di dolore, e fu trasformato in Cigno.
Apollo dopo aver vendicata sua madre contro il Serpente Pitone, volle
altresì vendicarsi dell’orgoglio, e del disprezzo di Niobe Regina di Tebe, figliuola di Tantalo, e moglie di
Anfione. Ella superba per aver sette figli
maschi, e sette femmine ardì di aver la preminenza su di Latona, che
non ne aveva che due, portando la sua empietà al segno di
frastornare le feste, che si celebravano in onore di questa Dea, che
per punirla si rivolse a’ suoi figli. Apollo a colpi di frecce
uccise i maschi, che si esercitavano in un circo : e Diana nella
stessa guisa tolse la vita alle femmine, che si aggiravano intorno
ai roghi de’ loro germani.
Quantunque Apollo fosse il Dio degl’ingegni ; non fu perciò stimato
quanto egli meritava ; fu soggetto ai colpi dell’invidia. Pane ebbe l’ardire di mettere al paragone il suo
flauto alla lira del figlio di Latona : gli propose una disfida, che
Apollo volentieri accettò. Tmolo Re di Lidia fu
scelto per giudice, ed il suo voto fu per Apollo. Mida ivi pur presente fu di contrario avviso ; Apollo
sdegnato della sua temeraria ignoranza gli fece nascere gli orecchi
simili a quelli dell’asino. Il povero Mida disperato per tal regalo,
cercò di nascondergli sotto un’alta berretta. Per disgrazia era al
suo servizio un barbiere d’indole cicalone, che non osando svelare
l’arcano fece un buco sotterra, ed ivi depose il segreto, che celar
non sapeva. Intorno a questo buco nacque un canneto, e le canne che
tutto il giorno crescevano, palesavano ai viandanti, che il Re Mida
aveva gli orecchi dell’asino.
Apollo non fu però così discreto con Marsia satiro,
e musico valentissimo, che parimente ebbe il coraggio di sfidare il
Dio delle Muse. Accettò Apollo la sfida a patto, che chi restava al
di sotto, fosse stato a discrezione del vincitore. Marsia fu vinto,
indi legato ad un albero, vivo fu scorticato. Le Ninfe si
dilettavano delle cantilene di questo satiro, e lo piansero tanto,
che colle di loro lagrime crebbe di molto il volume delle acque di
un fiume della Frigia detto Marsìa.
Questi sono i principali avvenimenti della storia di Apollo.
Diana figlia di Giove, e di Latona, sorella gemella di Apollo veniva
riguardata in tre diversi aspetti, che le davano una triplice
situazione ; cioè nel Cielo, nella terra, e nell’inferno. Nel Cielo
sotto il nome di Selene, o di Febe, durante la notte, guidava il carro lunare, ed era
altresì considerata per la luna istessa. In terra ella era tutta
dedíta alla caccia, e chiamavasi Diana. Il nome di
Ecate a lei si appropriava nell’inferno, dove
il suo potere era considerabile, e veniva implorata da’ maghi, e dai
ciurmadori. Triplice Ecate talvolta perciò la
chiamavano.
Era ella di più la Dea della verginità, e de’ parti. Come nacque
alquanti momenti prima di Apollo, non sì tosto vide la luce del
Il suo pudore fu si grande, che arrivò a punire severamente Attèone, ch’ebbe la sventura di vederla nel bagno.
Questi era un insigne cacciatore, figliuolo di Aristèo, e nipote di Cadmo. Sdegnato la
Dea per l’involontario fallo, lo cangiò in cervo. L’infelice Attèone volle darsi alla fuga, ma i suoi cani, che
sotto tale aspetto nol riconobbero, l’inseguirono, e lo fecero in
brani.
Ella castigò altresì le Ninfe, che la seguivano. Callisto figliuola di Licaone fu amata da Giove, che per
sedurla più facilmemte, prese l’aspetto di Diana istessa. La Dea
venuta in cognizione del tutto, discacciò ignominiosamente Callisto,
che dopo qualche tempo diede alla luce Arcade. Furono a notizia di
Giunone i nuovi intrighi del suo sposo, e Callisto
pagò il fio del reato di Giove : Giunone implacabile trasformò in
orsa questa Ninfa sventurata, che andò vagando per ben quindici anni
sotto tal forma, finchè non fu incontrata da Arcade suo figlio, e valente cacciatore. Questi non era al
caso di riconoscerla, stava già sul punto di scagliarle i suoi
dardi, se Giove non si fosse affrettato di evitare un parricidio con
aver sottratto la madre al figlio, che amendue situò nel cielo tra
’l numero delle costellazioni. Callisto ebbe il
nome di Orsa maggiore, Arcade quello di Orsa
minore, o Boote, Bifolco.
Diana assai gelosa de’ suoi dritti avvolse ne’ malanni la casa di Enéo Re di Calidonia, per non essersi questi
ricordato di lei in un sacrifizio che offrì a tutti gli Dei, con
aver inviato un cignale di enorme grandezza negli stati di questo
principe. Molti de’ primi guerrieri della Grecia si unirono per
dargli caccia. Atalanta figlia di Glasio Re di Arcadia fu la prima a
ferirlo. Meleagro figliuodi Enèo finì di ucciderlo, e spinto dal
coraggio che aveva mostrato questa giovane principessa, le offrì il
teschio del cignale. I fratelli di Altea moglie di
Enèo credettero, che questa spoglia dovesse
essere di loro pertinenza. La contesa andò avanti, si venne alle
mani, o riuscì a Melagro di vincere i suoi nemici : in seguito egli
sposò Atalanta.
Malgrado che Diana giurasse di esser casta, e sommo fosse il suo
contegno, s’invagchì di Endimione leggiadro
pastorello di Caria, nipote di Giove, e dal medesimo condannato a
dormire per sempre nell’inferno, per avere osato di pretendere sopra
Giunone. Ma Diana, che sotto il nome di Ecate
aveva una grande influenza nell’impero di Plutone, di là il trasse,
e lo nascose in una grotta del monte Latmos nella
Caria.
Vedesi Diana ordinariamente rappresentata in abito di cacciatore col
turcasso sulle spalle, e
Nove sono le Muse, che sovrastano alle scienze, alle arti, ai
talenti. Hanno Giove per padre : Mnemosina (la memoria) è la loro
madre. Eccone i nomi : Clio, Euterpe, Talia, Melpomene,
Terpsicore, Erato, Polimnia, Calliope, e Urania. Apollo è
il loro capo, e perciò vien chiamato Musagete,
cioè conduttore delle muse.
Clio, parola che significa gloria, era destinata ad eternare col suo canto gli Eroi. La
sua effigie è coronata di allori con qualche papiro alla mano, o con
un libro, ed un piccolo stile.
Euterpe, voce indicante piacere,
contento, presedeva alla musica, ed alla poesia
boschereccia, circondata da istrumenti musicali, e dal doppio
flauto.
La Musa della commedia era Talìa : la sua corona
era di ellera, recando in mano una maschera, e ’l pedum, o sia bastone pastorale.
Ornata di corona regale Melpomene spiegava i suoi
dritti sulla tragedia collo scettro in una mano, e nell’altra una
coppa avvelenata. Il suo portamento è nobile, e fiero : la sua
figura è maestosa, e ’l suo piede calza il coturno.
Terpsicore dirige il ballo, e suona la lira, o pur
batte il timpano. Ella ha seco una tazza, ed un tirso.
Erato si occupa della bellezza degli amorosi
componimenti. La lira è il suo istrumento musicale, ed è corteggiata
da piccoli amori.
Polimnia è la musa della memoria. L’indole di tal
nome porta seco il significato di molti Inni, per
indicare i diversi soggetti, che canta questa Musa. Ella regola
altresì il gesto, e la pantomima.
Calliope presiede alla poesia epica. Ella tiene in
mano un poema, ed una corona : nell’altra una tromba.
Urania non ha altr’oggetto, che il Cielo, ed è
perciò la Musa dell’astronomia. La sua testa è coronata da un
diadema di stelle : ha per insegna un compasso, un globo, ed altri
istromenti matematici, oltre una bacchetta, colla quale fa le
dimostrazioni delle sue lezioni.
Ecco ne’ seguenti versi espressi gl’impieghi tutti delle Muse. Ne’ suoi rapidi voli Urania svela Di natura i segreti, e dell’Olimpo. Celebra Clio la sorte degl’imperi, Con rendere immortali uomini, e Dei. Canta Calliope al suon di dolce lira, Ed alte imprese scopo son del canto. Con vaga illusion mista d’ingegno Talia scherzando, al vizio ognor fa guerra. Con gravità Melpomene narrando Tragici eventi, a pianger ci riduce. Coronata di mirti Erato esalta Le dolcezze di amore, e le conquiste. Di piccol flauto i suoni anima Euterpe, E d’innocente gioja asperge i carmi. Il mutulo parlar Polimnia insegna, Atteggiando cogli occhi, e col sembiante. Destasi al suon di musico stromento Terpsicore, e danzar snella si vede. Col spirto animator dell’opre belle Le figlie di MemoriaApollo investeLe guida ognor, e l’immortale schiera D’ogni sapere il merto in se racchiude.
Venere la Dea della bellezza, e la Regina degli amori, nacque, come
si è detto, dal sangue, che versò nel mare Urano,
allorchè fu ferito da Saturno suo figlio. Appena uscita alla luce
questa Dea, Zefiro la condusse all’Isola di Cipro,
dove le Ore presero cura della sua educazione :
quindi fu detta Ciprigna, come pure Citerea da Citera Isola dov’ella regnava. Venere fu maritata
a Vulcano, dal quale ebbo molti figli ; fra questi i più rinomati
sono Cupido, Priapo, Imeneo, Dio che sovrastava
alle nozze. Furono anche suoi figli Enea. e le tre
Graziedella natura degli Dei ammette più Veneri ; la prima figlia del Cielo, e del Giorno ; la
seconda nata dalla schiuma del mare ; la terza figlia di Giove,
e di Dione ; la quarta Astarte, che sposò Dione. Ma i poeti che nulla han curato di
esser conseguenti nelle favole inventate dalla fervida loro
immaginazione, le hanno confuse.
La sua bellezza era tale che fu giudicata la più bella fra le Dee, ed
a lei in concorso di Pallade, e Giunone, fu dato da Paride il pomo
di oro, che la Discordia aveva gittato dove si
Osserviamo ordinariamente Venere accompagnata dalle Grazie, o da Amore, assisa su di un carro tirato da cigni, o da
colombe. Queste furono a lei sacrate al proposito di un picciolo
avvenimento. Stava la Dea un giorno cogliendo dei fiori in un
boschetto : Amore vantossi di esser egli più sollecito in
raccoglierli : ed agile saltellando da fiore in fiore mercè le ali,
l’avrebbe vinta, se una Ninfa chiamata Peristera
non
L’ornamento principale di Venere era una zona, o
sia cintura, che aveva la proprietà di darle sempre nuove
attrattive. Giunone una volta la chiese in prestito per comparir più
bella al suo sposo.
I luoghi dove si esercitava il culto di Venere, erano principalmente
Gnido, Amatunte, Pafo, Idea, Citera
Amore era figliuolo di Venere, e di Marte. Egli è sempre figurato
qual fanciullino pieno di grazie, e di astuzie con un arco alla
mano, ed un turcasso su gli omeriRiso, il
Gioco, il Piacere, il Vezzo vengono espressi egualmente che lui sotto le
forme Psiche, e la fece da Zefiro trasportare in un luogo di delizie, ove la
trattenne per molto tempo, senza che costei lo avesse conosciuto.
Venere afflitta per vedere il suo figlio fatto suddito di questa
giovane, la perseguitò con tanta stizza, che infelicemente alla fine
se ne morì. Ma Giove, ch’era della parte di Cupido, restituì a Psiche la vita, e gliela destinò per isposa. Psiche è rappresentata come una ragazza ingenua, e
colle ali di farfalla.
Si è già detto, che VulcanoNatura degli Dei, riconosce
tre Vulcani ; il primo figlio del Cielo, il
secondo del Nilo, ed il terzo di Giove, e
Giunone. Quest’ultimo abitava le isole Vulcanie.Vulcano d’Atene fatto da Alcamene pareva zoppo, ma senza
difformità.Tubalcain, di cui parlasi nel libro della
Genesi, inventore de’ fornelli, ed espertissimo nel lavorare
ogni sorta di metalli.Terra, che
avevano un occhio solo nella fronte. I più conosciuti erano Bronte, Sterope, e Piracmone.
Vulcano fece uscire dalla sua fucina una quantità di capi d’opera,
che formavano l’ammirazione degli Dei, e degli uomini. Teti egli
s’indusse a lavorare l’armatura di Achille, e ad
istanza di Venere fece quella di Enea. Vulcano
finalmente era il Dio del fuoco, e la sua figura è poco
vantaggiosamente espressa, cioè, con una gamba più corta dell’altra,
e con un martello alla mano, per lo più assiso innanzi alla sua
incudine. Vulcano ad onta del suo rozzo impiego sulla terra, ne
aveva non pertanto un altro nel Cielo molto più decente, qual’era
quello di porgere il nettare agli Dei. Vero è, che la poca grazia,
colla quale esercitava le funzioni di coppiere, fu cagione che Ebe avesse un tale incarico. Questa giovane, e
leggiadra Dea, essendo caduta in presenza degli Dei, lasciò pur essa
un tale impiego, dato poi da Giove al suo caro GanimedeDempstero, e
sulle medaglie Romane.
Minerva nacque in una maniera del tutto singolare. Giove dopo la
guerra de’ Titani sposò Meti ; ma avendogli detto
Urano, che questa donna avrebbe dato alla luce
una bambina dotata di una perfetta saviezza, ed uu fanciullino a cui
il Destino aveva riserbato l’impero del mondo,
egli divorò Meti. Dopo qualche tempo gli venne un
male di capo, ed essendo ricorso a Vulcano, questi con un colpo di
accetta gli aprì il cervello, ed immantinente ne uscì fuori Minerva
già fatta grande, ed armata. La Dea appena nata cominciò ad eseguire
un ballo detto Pirrico, annunciandosi con
soverchia gentilezza per una Divinità, che durante la sua vita
doveva mantenere un portamento oltremodo sostenuto.
Minerva al pari delle altre Dee fu egualmente gelosa de’ suoi dritti.
Ella non la perdonò ad Aracne figlia di Idimone nativo di Colofone per
essersi vantata di sapere l’arte del ricamo al pari di Minerva
istessa. La Dea in segno di disprezzo le diede varj colpi di
navicella sulla testa. Disperata Aracne per tale
affronto voleva impiccarsi : ma impietositi gli Dei la sostennero
nell’aria, e la cangiarono in ragno.
La controversia ch’ ebbe con Tiresia, terminò
Questa Dea si contrastò il dritto con Nettuno pel nome, che doveva
darsi alla nascente città di Atene. I Dei
decisero, che chi de’ due rendesse un più utile servizio alla nuova
città, avesse tal facoltà. Nettuno con un colpo del suo tridente
battè la terra, e fece uscire un cavallo. Minerva ivi fece nascere
una pianta di ulivo, ed ottenne l’intento. Iu seguito questo arbore
fu il segno della pace, ed a lei fu consagrato.
Minerva chiamavasi anche PalladePalladium era la famosa statua di questa Dea
che conservavasi in Troja, e trasportata da Enea in Italia, fu
gelosamente custodita in Roma nel tempio di Vesta.serpente, della civetta, e
del popolo.Egida, Egi, che Minerva aveva ammazzato nella
guerra de’ Giganti. Ella aveva sopra questo scudo fatto incidere la
terribile testa di Medusa con i capelli di
serpenti. Vi ha chi dice, che l’Egida era fatta dalla pelle della
capra Amaltea da Giove a lei donata.
Piccata Giunone contro Giove, che da se solo aveva fatto nascere
Minerva, volle ella fare altrettanto, creando un Dio, senza che
Giove ci avesse parteFlora, che le indicò un fiore, che al solo
toccarlo concepì Marte. Questa è l’origine per
altro gentile della nascita di un Dio così terribile, qual’era
quello della guerra. Tal favola ci hanno tramandato i poeti latini :
maMarte Ares lo dicono figlio di Giove, e di Giunone.
Marte è rappresentato armato da capo a piedi, avendo un gallo a lui
vicino, simbolo della vigilanza. Il suo carro di acciajo è guidato
da Bellona Dea similmente della guerra : i suoi
cavalli nati da Borea, ed Erìnni
chiamansi il Terrore, e lo Spavento. Parecchi mostri sono effigiati sulla di lui
carrozza : il Furore, e lo Sdegno formano l’ornamento del suo elmo : la Fama lo precede da lontano, ed il Terrore gli sta d’accanto. Eccone ne’ seguenti versi il
ritratto.
Armato di fierezza il rioTerroreCon minaccevol voce, e insanguinala Destra s’apre il sentiero innanzi al Nume, E in fuga va laTema,e lo spavento:Intrepido ilValorgli siede accanto,Con occhi torvi, e spada in alto alzata, Con alma, e cor di sicurezza pieno, Seco traendo la sfidata morte, Dell’industre Vulcano opra lodata. Il ferreo carroAttivitadeguida;I suoi spumanti indomiti destrieri, Spiran foco, saette, e nembi orrendi, Che il Mondo d’evitar invan procura. Terribil questo Dio di lampi cinto Calpesta al suo passar scettri, e corone, E de’ troni si fa sgabello al piede ; Scaglia i fulmini, l’orbe ognor scotendo,Di estinti un folto stuol empie l’inferno. Marteporta molti soprannomi, la più parte relativi alle armi,Armigero,Bellicosoec. Dato gli venne da Augusto il soprannome diBisultor, cheaccorda due vittorie, allorchè i Parti gli resero le aquile perdute dalle legioni diCrasso.
Dio del commercio, e messaggiero degli Dei. Atlante figliuolo di Giove, e di Climene ebbe sette
figliuole, chiamate le Atlantidi. Maja la maggiore
di esse fu la madre di Mercuriode nat.
Deor. che trovò le leggi, e le lettere. Gli Egizj lo
chiamarono Theut, onde forse i Greci ne formarono la voce Theos,
cioè Dio. Al suddetto Mercurio trismegisto, al dire di Gramblico
de mysteriis Aegyptiorum, si attribuiscono
tutti gli utili ritrovati.Admeto, e da Apollo custodite, che trasportò nei boschi.
Un pastore per nome Batto fu il solo, che se ne
avvide. Mercurio per timore di essere scoverto gli donò la più bella
delle vacche, che aveva involate : ma non fidandosi interamente di
lui, finse di ritirarsi : e ricomparso sotto un altro aspetto gli
offerì una vacca, ed un bue a condizione, che avesse svelato il
luogo, ove il furto stava nascosto. Batto sedotto dal guadagno svelò
ciò, che sapeva : allora Mercurio diedesi a conoscere, e lo
trasformò in pietra di paragone : pietra che ha la
virtu di scoprire la natura de’ metalli da essa toccati.
Nacque da Mercurio, e da Venere un figliuolo chiamato Ermafrodito, voce greca indicante il nome de’ suoi
genitori, cioè di Ermete Mercurio, e di Afrodite Venere.
Mercurio era fra gli Dei il più occupato : era il confidente di
tutti, ed in particolare di Giove, ed il Messaggiere dell’Olimpo.
Egli si mischiava in tutti gli affari, regolava gl’intrighi, si
occupava della guerra, e della pace : presedeva ai giuochi, alle
adunanze, ascoltava i pubblici indovini, che lo consultavano, e dava
ad essi le risposte. Era il Dio dell’eloquenza, del commercio, e dei
ladri, come si è detto. Vedevasi da per tutto nel cielo, nella
terra, e nell’Inferno, e per potere da per tutto accorrere, aveva le
ali Winkelmann ha osservato dopo Clemente
Alessandrino, che gli scultori greci facevano i loro Mercurj
rassembranti Alcibiade, e che gli artisti, che
vennero dopo, seguirono il loro esempio. Bellissima è la statua
di bronzo, che si conserva nel Real Museo Borbonico, e più
espressiva di quella che si ammira nelle ville Negroni, e
Ludovici in Roma.
Bacco è figliuolo di Giove, e di Semele nata da CadmoNatura
degli Dei c. 25. parla di cinque Bacchi, aggiungendone
duc ai tre rapportati da Diodoro, e da Filostrato. Di essi il
più famoso è il figlio di Semele conosciuto
sotto il nome di Tebano, o il Bacco de’ Greci.Stige, che glie l’accorderebbe :
questa fu che Giove venisse a visitarla con tutto l’apparato
celeste. Tremò Giove per Semele a tale inchiesta, ma non avendo
potuto rimuoverla dal suo proposito, fu astretto ad eseguire il suo
giuramento. Egli rimontò all’Olimpo, ed indi ne discese decorato da’
suoi raggi, ed armato della folgore. All’accostarsi tutto avvampò, e
la stessa Semele fu divorata dalle fiamme. Mercurio, che
accompagnava il Sovrano degli Dei, ebbe appena il tempo di salvare
il picciolo Bacco, che stavasi ancora nel seno di sua madre. Ma
siccome non era giunto il tempo, che doveva nascere, Giove aprì una
sua coscia, ed ivi racchiuse il bambino. Quando nel trasse, il diede
a Mercurio, che lo consegnò a Niso. Questi lo
educò nelle caverne del Monte Nisa nell’Arabia. Le
figliuole di Atlante, e ’l vecchio Sileno satiro, che amava molto il vino, ebbero cura della
sua infanzia. Bacco a suo tempo contestò la sua gratitudine,
cangiando le figliuole di Atlante in stelle dette
Jadi, e facendo presso di se restare il
giocoso Sileno, che lo seguiva sopra un asinello, sul cui dorso
talvolta appena si reggeva, perchè semiebrio.
Bacco combattè con ardire nella guerra de’ giganti : indi disceso in
terra conquistò le Indie. Tutta la sua armata era composta di
uomini, e donne, che portavano un tirso, cioè
frecce
Era cosa pericolosissima l’irritare questo Nume, che acremente volle
vendicarsi di Penteo, e di Licurgo.
Avendo Penteo Re di Tebe proibito a’ suoi sud diti
di celebrare le feste di Bacco, questo Dio ispirò alla madre del Re,
ed alle sue Menadi, o siano Baccanti un sì fatto furore, che esse lo ammazzarono senza
conoscerlo. Licurgo Re della Tracia, che aveva osato di dichiararsi nemico di Bacco, si
ruppe le gambe, mentre s’impegnava di tagliare tutte le vigne che
stavano ne’ suoi stati.
Vedesi ordinariamente rappresentato Bacco sotto l’aspetto di un bel
giovane imberbeTebano : per contrario l’Indiano è rappresentato vecchio con lunga barba,
ond’ebbe il nome di Bacco Barbato
Καταπωγων.ellera fosse un antidoto contro
l’ubbriachezza.Ampelo, e talora con corna dorate per
notare la sua nascita da Giove Ammone. Quindi
Orazio :
.Te vidit ingens Cerberus aureo cornu
decorum
Nettuno figliuolo di Saturno, e di Clbele nella divisione del Mondo ebbe, come si è detto,
l’impero del mare, dove principalmente esercitava il suo potere,
come Sovrano di tutt’i Dei delle acque. Si suole rappresentare in
piedi sopra un carro, formato di conchiglie, tirato da cavalli
marini : tiene in mano il tridente, col quale comanda ai flutti di
sollevarsi, o di mettersi in calma : impone altresì ai venti, o di
spirare per tutta la terra, o di rinserrarsi nelle loro caverne. La
sua corte è composta di Tritoni, che fanno
echeggiare l’aere al suono delle conche marine, e degli Dei del
mare, che tutti circondano, e sieguono a nuoto il suo carro, che
galleggiando vola sulle acque.
Noi abbiamo già osservato le principali vicende di Nettuno : ve ne ha di più ancora ; ma è inutile di quì rapportarle.
Egli sposò Amfitrite figliuola dell’Oceano, e di
Dori Dea del mare.
Plutone figliuolo di Saturno, e di Cibele, germano di Giove, e di Nettuno, ebbe in porzione
il regno degli estinti, e stabili la sua sede nell’inferno, che
stava nelle viscere della terra. Si figura assiso sopra un trono di
ebano, avendo uno scettro a due punte in una mano, e nell’altra
delle chiavi, per dinotare, che a chi entrava nel suo regno, non era
permesso di più uscirne. Cerbero cane con tre
teste stava immobile ai di lui piedi.
Abbiamo già osservato in qual maniera egli involò Proserpina figliuola di Cerere, per
farla divenir sua moglie. Questo Dio non era sicuramente bello : la
sua reggia non era la più ridente ; ed in conseguenza non si sarebbe
ritrovata una Dea, che di tutto suo genio si fosse a lui
accoppiata.
Situavasi dagli antichi l’inferno fra le immense sotterranee
voragini, ove risplendeva una luce diversa da quella, che sfavilla
sotto le volte de’ Cieli. L’Averno era una
dell’entrate principali per ivi penetrare. Alla porta dell’inferno
stava una moltitudine di Esseri malefici, fra i quali soprattutto le
Malattie, la Vecchiaia, la
Paura, Fame, la Guerra, la Discordia, ec. ec. : ma questi erano veri fantasmi, e non
già immagini effettive.
Lasciati questi mostri fantastici, vedevasi Acheronte fiume grande, e torbido, che deponeva il suo
limo nello stagno di Cocito, dopo avere
attraversato l’impero di Plutone. Bisognava tragittarlo. Appena che
Mercurio armato della sua verga, aveva condotte le ombre novelle
alla riva di questo fiume, Caronte figlio dell’Erebo, e della Notte le riceveva nella
sua barca al prezzo di una piccola moneta, e le trasportava nella
ripa opposta. Questo rigido barcajuolo poteva ricevere quello ombre
soltanto, che avevano avuto gli onori della sepolturaVirg. Æneid.
lib. VI.Charon,
onde i poeti inventarono la favola di Caronte, e del fiume
Stige.
Sulla riva opposta di Acheronte stava Cerbero, cane
di enorme grandezza, che aveva tre teste, e tre gole spaventevoli.
Questi abitava in un antro, e vegliava eternamente per impedire alle
ombre l’uscita.
Il Tartaro, ed i Campi Elisj
formavano la divisione dell’Inferno Cinque fiumi ivi scorrevano,
cioè l’Acheronte di cui abbiamo già parlato : il
fiume Stige, le cui acque giravano nove volte per
que’ contorni, e per le quali i giuramenti fatti neppure gli Dei
potevano mandare a vuoto : Cocito da sole lagrime
formato : Flegetonte, che in vece di acqua correva
in fiamme : e ’l fiume Lete, o sia dell’ObblìoElisj erano il soggiorno delle ombre degli Eroi, e
de’ giusti. Esse passeggiavano tranquillamente per que’ boschetti
pieni di ogni delizia, si sollazzavano in mille guise per quelle
vaste praterie, e godevano di una felicità non mai interrotta.
Ben diverso era il Tartaro, detto talvolta anche Tenaro da’ poeti, ove stavano ristrette le ombre de’
delinquenti soggette ad una moltitudine di pene.
Da tale separazione di buoni, e di cattivi si argomenta, che tutte le
ombre erano giudicate al loro arrivo all’Inferno. Discese dalla
barca di Caronte, all’istante erano condotte innanzi a tre giudici,
cioè Minosse, Eaco, e Radamanto, che colà
perpetuamente dimoravano, sedendo nel di loro tribunale con una
bacchetta alla mano in segno della loro dignità.
Le Furie aspettavano le ombre de’ condannati per
soggettarle alle pene ad esse applicate. Tre erano le terribili
esecutrici delle sentenze de’ giudici infernali, Tisifone, Megera, ed Aletto, nomi
indicanti rabbia, carnificina, ed invidia. Chiamavansi altresì Eumenidi,
cioè dolci, ma per antitesi, cioè per dinotare
l’opposto. Il loro aspetto avrebbe sgomentato i più intrepidi :
erano macilenti, scarne, con lunghe smunte mammelle, e da per tutto
spiravano ferocia : il loro abbigliamento era un gruppo di colubri,
con una fiaccola accesa in una mano, e nell’altra una sferza di
serpenti, colla quale ffagellavano le ombre a loro consegnate.
Varie erano le pene, che si soffrivano nel TartaroSisifo, che durante la sua vita aveva
Flegia, che aveva appiccato il fuoco al tempio di
Apollo, stava inchiodato a’ piedi di una rupe, che sembrava ad
ogn’istante di schiacciarlo colla sua caduta.
Il gigante Tizio, che ardì di attentare all’onore
di Latona, sentiva lacerarsi i visceri da un
avoltojo, che li divorava a misura, che si rinnovavano.
Issione era attaccato ad una ruota, che girava di
continuo. Egli aveva osato di aspirare al possesso di Giunone. Giove
per assicurarsi del suo delitto, gli avea consegnata una figura
fantastica formata di nuvole, e che s’assomigliava perfettamente
alla Dea.
Tantalo quel Re crudele, che per mettere a prova la
divinità degli Dei in una festa diede loro a mangiare il proprio suo
sigliuolo, sente eternamente gli stimoli della fame, e della sete,
malgrado che una pianta carica di frutta gli penda sulla testa, ed
egli stesso stìa fino al mento tuffato nell’acqua. Quando vuol
dissetarsi, le
Le Danaidi, alle quali era concesso tregua, e
riposo allora che avessero riempiuta una botte, che non avea
fondo.
La loro istoria esige qualche dettaglio. Danao Re
di Argo padre delle suddette, le aveva promesse in
matrimonio ai cinquanta figliuoli di Egitto suo
fratello Re dell’Egitto : ma fu un tempo istesso l’avanzare questa
promessa, e concepire un orribile disegno. Come l’oracolo avea
predetto, che uno de’ figli del suo germano lo avrebbe rovesciato
dal trono, egli diede di nascosto a ciascuna delle sue figlie un
pugnale con ordine di ammazzare i loro sposi nella prima notte, che
ad essi si univano. La sola Ipermnestra rifiutò di
obbedire, salvando il suo sposo Linceo, che amava
teneramente ; e questi verificò il presagio dell’oracolo, con
detronizzare Danao in vendetta della morte de’
suoi fratelli.
GL’Iddj maggiori, di cui abbiamo già letta la storia,
partecipavano della natura reale, e della natura immaginaria. Il di loro
potere era più, o meno esteso. Essi avrebbero potuto senza dubbio governare
l’universo : ma la cecità degli uomini, che non potevano concepire le
divinità separate da tutte le passioni, ed esenti dalle umane debolezze,
credette indispensabile l’immaginare delle divinità di second’ordine, che si occupavano dei dettagli, che per necessità
dovevano sfuggire agli Dei del prim’ordine. Per conseguenza furono gli
uomini obbligati a creare altrettanti Dei, secondo quel
che loro suggeriva la fantasia riscaldata, o a misura che il bisogno lo
richiedeva.
Pane occupa il primo luogo tra gl’Iddj campestri,
ed è specialmente il Dio de’ pastori. La sua figura non lusinghiera
pareva che dovesse spaventare i pastori piuttosto che riscuotere da
essi un culto. Vedesi rappresentato metà uomo, e metà becco, avendo
le corna sulla testa, il volto umano, le cosce irsute, ed i piedi di
capra. Il flauto composto di più canne, che porta fralle mani, ci fa
sovvenire di un avvenimento de’ più particolari di sua vita. Amò
questo Dio Siringa ninfa del seguito di Diana : ma come questa non voleva per niente
ascoltarlo, tentò egli di usare la forza : la ninfa si diede alla
fuga, e si rifugiò in un canneto del fiume Ladonte
suo padre, dal quale fu cangiata in canna. Pane per consolarsi di
tal perdita, tagliò alcune canne accozzandole insieme colla cera, e
ne formò uno strumento musicale, chiamato Siringa
dal nome della ninfa.
Fauno figliuolo di Pico Re del
Lazio cra altresì il Dio de’ pastori, ed è rappresentato sotto Circe, fu da questa
trasformato in un uccello detto Picchio.
Sono rappresentati così gli uni, come gli altri colle corna, e piedi di becco, non altrimenti che Fauno, e Pane.
Sileno figliuolo di una ninfa, aveva educato Bacco,
e passò tutti i suoi giorni in ubbriacarsi, piacendogli assai il
buon vino. Bacco lo amava moltissimo, e lo portò seco al conquisto
delle Indie. Un giorno, che il buon uomo viaggiava per la Lidia,
smontato dal suo asinello si fermò presso di un fonte, ed ivi prese
sonno. Mida che lo seppe, bramando di averlo per
un poco nella Corte, mentre dormiva, fece empire la fontana di vino
in luogo dell’acqua che conteneva. Svegliatosi il piacevole vecchio,
e credendo ciò un prodigio, volle contestarne la sua gratitudine a
modo suo, e si ubbriacò secondo il solito suo costume. Mida allora
lo fece trasportare alla sua Reggia, e lo trattò così bene, che Sileno ritornato presso di Bacco parlava sempre in
lode di questo re. Bacco in compenso Mida che avesse dimandato ciò che voleva. Questi chiese al
Nume, che avesse convertito in oro tutto ciò che toccava, credendo
questo un bene inestimabile. Tal grazia ottenne : ma si accorse ben
tosto di aver ottenuto un dono dei più funesti. Allorchè volle
mangiare, il cibo che accostava alle sue labbra, diventava oro sotto
i suoi denti, in guisachè sarebbe morto per inedia in mezzo alle
ricchezze, se Bacco da lui nuovamente chiamato in soccorso non lo
avesse consigliato di andare a lavarsi le mani nelle acque del fiume
Pattolo, ove perderono la proprietà dianzi
ricevuta. D’allora questo fiume colla sua corrente trasporta
scagliette d’oro.
Ritornando da’ suoi viaggi Sileno si fermò nell’Arcadia, dove in tutt’i giorni si ubbriacò al suo solito, e si fece amare moltissimo dai pastori, e dalle pastorelle, a’ quali cantava delle tenere canzoni, atteso il suo dolce carattere. Una volta due ninfe lo sorpresero nel fondo di una grotta, ove egli erasi addormentato : da lungo tempo Sileno aveva loro promesso alcuni versi che mai non diede, le ninfe lo legarono con alcune ghirlande, e gli tinsero il volto di mora spina : sorrise Sileno svegliato nel vedersi fralle loro mani : dimandò loro di esser posto in libertà, e non l’ottenne, che dopo di avere adempiuto alla sua promessa.
È questi uno degli Dei delle foreste, che talvolta si confonde con
Pane, perchè rappresentato come il medesimo. I
Satiri, i Fauni, i Silvani si rassomigliano perfettamente fra
loro.
I Centauri erano mostri per la metà uomini, e per
l’altra cavalli ; la parte superiore fino al principìo delle cosce
era in forma umana ; il più apparteneva al cavallo. Si crede nata
l’invenzione di questi esseri favolosi, per designare i primi uomini
domatori de’ cavalli.
Chirone figliuolo di Saturno, e di Filira ninfa dell’Oceano, era il più saggio ed istruito
tra i centauri. Celebri furono i suoi allievi, fra quali si distinse
Esculapio, Giasone, Castore, Polluce, ed Achille. Egli suonava benissimo l’arpa, scoccava
l’arco perfettamente, conosceva la forza dei semplici, ed era
eccellente medico. Come figlio di Saturno aveva il dono
dell’immortalità : ma essendosi fatta cadere sopra di un piede una
freccia avvelenata di Ercole, Sagittario. Ociroe sua figlia parimente istruita nelle
scienze che possedeva suo padre, sapeva altresì presagire il
futuro : ella volla annunziare il destino di Esculapio, e ne fu punita con perdere la sua figura
essendo divenuta una cavalla
Pale è la Dca de’ pascoli, de’ pastori, e degli
armenti. Il suo culto era in voga presso i Romani : i Greci però non
han punto conosciuta questa Divinità.
Flora così conosciuta dai Greci, come Pale fu adorata dai Romani, era la Dea de’ fiori, e le si
dava Zefiro per amante, o per isposo.
Vertunno era il Dio dell’autunno, e sposo di Pomona Dea de’ frutti. Allorchè arrivarono
entrambi all’età avanzata, riacquistarono la loro giovinezza, e non
ismentirono quella fedeltà, che a vicenda avevano giurato di
mantenere.
Era rappresentato Vertunno sotto l’aspetto di un
bel giovine coronato di foglie di diverse piante, portando nella
sinistra mano delle frutta, e nella destra il corno dell’abbondanza.
Una giovanetta armata di una biscia, e recando un ramo carico di
frutta, era l’effigie di Pomona.
Il Dio Termine, la cui statua non era altro che una
pietra, o un tronco di albero, vegliava ai confini delle campestri
possessioni.
Termine sii tu pietra, o informe tronco, Il tuo poter egual è a quel di Giove. Salva tu l’orto mio, e ’l campicello Dalle trame di avaro, e rio vicino : Che ingordo ognor se d’usurpar pretende Parte de’ miei sudor, ah ! dal tuo seggio Ove immobil ti stai, lunge là grida, Lunge o vicin, non attentar miei dritti : Ricalca il tuo terren : io sol quì impero.
La statua di Priapo collocavasi ne’ giardini ad uso
di fantoccio per ispauracchio : questo basta per dimostrare, che
questo Dio non era bello : aveva l’aspetto di un satiro. La sua
effigie consisteva nella sola parte superiore del corpo : il
rimanente era un tronco, o pietra. Talvolta gli si adattava una
falce alla mano.
Ancorchè brutto, era pertanto figliuolo di Venere, e fratello di Cupido. Giunone che per effetto di rivalità odiava
Venere, mercè i suoi incantesimi, trovò il mezzo per rendere
mostruoso il bambino che questa Dea portava nel seno : fu inoltre
così proclive al vizio, che se ne formò il Dio del libertinaggio. A
lui fu sagrato l’asino.
I Fiumi, o per dir meglio i Genj
che preseggono alla sorgente, ed al corso de’ fiumi, erano altresì
Dei. La loro figura era di vecchi con capelli, e barba grondanti
acqua, e sovente in vece di barba, e capelli avevano minutissime
canne. Essi stanno sdrajati sulla nuda terra poggiati ad un’ urna
situata a rovescio, d’onde l’acqua scorre in abbondanza. Questa è la
sorgente dei
Nereo, e Dori figli dell’Oceano, e di Teti diedero alla luce un’ infinità
di figliuole conosciute sotto il nome di Ninfe. I particolari loro
nomi derivavano dai diversi attributi, che loro si davano.
Chiamavansi Driadi, e Amadriadi
quelle che presedevano alle foreste : Napèe quelle
delle praterie, e de’ boschetti : Najadi le ninfe
che vegliavano alla sorgente dei fiumi, e delle fontane : Oreadi le ninfe che guardavano i monti : tutte
quelle che avevano l’impero sulle acque del mare, erano dette Nereidi da Nereo loro
genitore.
Eco figlia dell’Aria, e della Terra era una ninfa, che si nascondeva ne’ boschi
fralle rupi, e le montagne. Ella abitava le sponde del Cefiso. Aveva la proprietà di parlare tutte le lingue : ma
abusò di un tal dono, e quindi fu condannata a ripetere soltanto le
ultime voci degli altrui discorsi.
Ridotta a tale stato infelice vide il bel Narciso figliuolo del fiume Cefiso, e della ninfa Liriope. Era
questi insensibile verso tutte le ninfe, che lo amavano. Eco fu
egualmente che le altre sfortunata : fu tale il suo dolore, che si
ritirò ne’ siti i più solitarj, ed ivi fu cangiata in rupe.
Sopravisse solamente la sua voce, per ripetere le ultime parole di
chi la interrogava.
Narciso passò i suoi giorni alla caccia. Un giorno
mentre si riposava sulla riva di un fonte, vide la sua immagine che
traspariva nell’acqua : fu talmente sorpreso della sua bellezza, che
divenne amante di se stesso. Ma inutilmente egli si studiava di
ottenere l’oggetto de’ suoi desiri : le onde cristalline non
offrivano che una lusinghiera immagine. Non volle pertanto
abbandonarla, e si contentò di morire sulla riva di quel fonte ; fu
cangiato in un fiore, che conserva anche oggi il suo nome.
Dopo Nettuno, il più grande de’ Dei marini, era Oceano figliuolo di Urano, e di
Titea, o sia la Terra. Sposò
Teti sua germana, dalla quale ebbe Nereo, e Dori che si maritarono
insieme. Questi, come si è detto, procrearono le Ninfe, e le Nereidi. Tra il numero di
quest’ultime vi ha Teti, che bisogna distinguere
da Teti sua madre. Giove la guardava di buon
occhio : ma avendo saputo dal Destino che da
quella nascerebbe un bambino, che avrebbe un giorno superato la
gloria di suo padre, la maritò con Peleo, dalla
qual coppia nacque Achille il più celebre fra gli
Eroi della favolosa antichità.
Tritone figliuolo di Nettuno, e della ninfa Salacia, altri dicono Amfitrite,
aveva la figura di uomo fino alla cintura : il resto del corpo
terminava in pesce con doppia coda. Il suo impiego era di dar fiato
ad una conca avanti il carro di Nettuno. I suoi figliuoli
chiamavansi al par di lui Tritoni.
Proteo figliuolo dell’Oceano, e
di Teti era il conduttore degli armenti di
Nettuno. Questo gregge componevasi di foche, ed altri mostri marini.
Proteo possedeva il dono di presagire il futuro : ma bisognava
stentare moltissimo per carpirne una risposta sull’avvenire. Ciò si
otteneva con fargli violenza, involandosi in ogni momento con
prendere sempre nuova forma, e figura. Virgilio ci ha fatta la
descrizione di questo Dio nel quarto libro delle sue Georgiche. Il
pastore Aristeo avendo perduto l’intero sciame
delle api, recossi a sua madre Cirene, che così
gli parlò :
Est in Carpathio Neptuni gurgite vates Caeruleus Proteus, magnum qui piscibus aequor, Et juncto bipedum curru metitur equorum. Hic nunc Emathiae portus, patriamque revisit Pallenem : hunc et Nymphae venerantur, et ipse Grandaevus Nereus : novit namque omnia vates, Quae sint, quae fuerint, quae mox ventura trahantur. Quippe ita Neptuno visum est, immania cujus Armenta, et turpes pascit sub gurgite phocas. Hic tibi, nate, prius vinclis capiendus, ut omnem Expediat morbi caussam, eventusque secundet. Nam sine vi non ulla dabit praecepta, neque illum Orando flectes ; vim duram, et vincula capto Tende : doli circum haec demum frangentur inanes:Ipsa ego te medios cum sol accenderit aestus, In secreta senis ducam, quo fessus ab undis Se recipit, facile ut somno aggrediare jacentem. Verum ubi correptum manibus, vinclisque tenebis;Tum variae illudent species, atque ora ferarum. Fiet enim subito sus horridus, atraque tigris, Squamosusque draco, et fulva cervice leaena:Aut acrem flammae sonitum dabit:atque ita vinclisExcidet, aut in aquas tenues dilapsus abibit. Sed quanto ille magis formas se vertet in omens, Tanto, nate, magis contende tenacia vincla:Donec talis erit mutato corpore, qualem Videris, incepto tegeret cum lumina somno. Haec ait, et liquidum ambrosiae diffudit odorem. Virg. Geor. lib. IV.
Portunno Dio presidente ai porti chiamavasi Melicerta nella sua infanzia. Ino figliuola di Cadmo, e di Ermione fu la terza moglie di Atamante re di Tebe, dalla qual coppia Melicerta, Frisso, ed Helle figli di Atamante nati da
un altro matrimonio divennero l’oggetto dell’odio di Ino loro madrigna. Intimoriti volendo sottrarsi da tale
indignazione, sen fuggirono seco portando un superbo Ariete, la cui
pelle era di oro. Traversando il mare sul dorso di questo magnifico
Ariete, Helle cadde nelle onde, dove si annegò. Il
sito ove morì fu detto Hellesponto. Frisso
proseguì il suo viaggio, e giunse felicemente in Colco, ove sasagrificò a Marte il suo
ariete, che dopo fu situato fra i dodici segni del zodiaco. Questa
fuga afflisse molto Atamante, che trasportato
dalla rabbia volle ammazzare Ino col suo figliuolo
Melicerta. Ella non potè salvarsi, se non che
precipitandosi nel mare col figlio, dove furono ammessi fra i Dei
marini. Ino prese il nome di Leucotoe, e Melicerta quello di Palemone, che i Romani chiamarono Portunno.
Glauco era un celebre pescatore della Città di
Anteona nella Beozia. Un giorno si avvide, che alcuni pesci che
aveva nascosti sotto una cert’erba, ripresero nuove forze, e si
slanciarono nelle acque. Egli si assicurò, che quest’erba aveva una
proprietà particolare : ne mangiò, e si senti al momento la voglia
di tuffarsi nelle
Eolo regnava nelle isole chiamate di Vulcano poste fra la Sicilia, e l’Italia, e dipendeva dai
cenni di Nettuno, che gli ordinava di mettere i venti in libertà, o
d’incatenarli nelle loro caverne. Quattro erano i principali venti
conosciuti dai poeti. Borea il più impetuoso
partiva dal settentrione. Egli rapì Orizia
figliuola di Erettèo re di Atene, dalla quale ebbe
Zeto, e Calai effigiati
cogli omeri coverti da scaglie dorate, e co’ piedi alati. Austro che spira dal mezzodì ; Euro che parte dall’Oriente ; e Zefiro
che viene dall’Occidente. Fra’ venti è questi il più dolce, e
lusinghiero : lo invocano, e lo credono uno de’ compagni di Amore. I
poeti sovente lo dipingono in aria di un bel garzone colle ali di
farfalla.
Le Sirene erano tre ninfe leggiadre chiamate Leucosia, Ligia, e PartenopeFenicj
primi abitatori di Napoli, crede che il nome Partenope,
come infiniti altri, sia di origine Fenicia, composto di due
voci Part. Nop. clima felix.Destino, finchè non si fosse ritrovato chi sapesse
ingannarle. Al saggio Ulisse spettò l’esecuzione di un tale decreto.
Evitò il loro canto insidioso, turando con cera gli orecchi de’ suoi
compagni, e facendosi egli stesso legare ad un albero del naviglio.
Per la rabbia di essere stata elusa la loro arte, le Sirene si
precipitarono nel mare, ove furono cangiate in pesci dalla sola
cintura in giù.
Malgrado che le Arpie fossero figlie di Nettuno, e della Terra, non appartenevano però alla classe della divinità
marine. Erano mostri col viso di donna fornite di ali con orecchi di
orso, ed artigli alle mani, ed a’ piedi.
Cariddi era una donna crudele, che dava addosso, o
assassinava i passeggleri. Fu ammazzata da Ercole,
al quale aveva rubato alcuni bovi : indi cangiata in mostro
marino.
Scilla figliuola di Forco Dio del mare, e di Ecate,
o sia della Notte era altresì un altro mostro del mare. Per lo
innanzi era stata una ninfa bellissima amata da Glauco : ma Circe
sua rivale avvelenò la fontana, ove questa ninfa era solita
bagnarsi. Appena che Scilla si tuffò in quest’acqua, disparvero
all’istante le sue dolci attrattive, e la bellezza istessa cangiò
figura. Ella comparve con sei teste orribili, con altrettante gole,
tre ordini di denti, e dodici braccia armate di artigli. Ingozzava i
vascelli tutt’intieri, e la sua cintura era armata di cani che
abbajavano senza interruzione, e che divoravano chiunque aveva la
disgrazia di cadere in poter loro.
Scilla, e Cariddi spogliate degli ornamenti della favola sono due
scogli pericolosi. Scilla è un golfo tra Reggio, e Messina, il di
cui incontrava Scilla, chi fuggir voleva Cariddi,
allorchè taluno per isfuggire un malanno corre incontro ad un
altro.
Tre erano le Parche nate dall’Erebo, e dalla Notte. Abitavano nel Tartaro per dinotare
l’oscurità che vela l’avvenire. I loro nomi erano Cloto, Lachesi, ed Atropo. Cloto la più
giovane presedeva al momento della nascita degli uomini, e teneva in
mano la conocchia, Lachesi filava i varj accidenti della vita, ed
Atropo ne tagliava il filo colle forbici. Sorde ai prieghi dei
mortali seguivano il loro lavoro, e lo interrompevano all’ora
stabilita dal Destino.
La Notte figlia del Caos, sposa dell’Erebo, madre
del Sonno, e della Morte regna fralle tenebre. In mancanza del Sole
ella percorre la
La Morte figlia della Notte, e
germana del Sonno, è la Dea che presiede agli
ultimi istanti della nostra vita. Ella è dipinta come uno scheletro
colle ali, ed una falce. Gli antichi non offrivano voti, nè
fabbricavano templi a questa Divinità, perchè la più dura, ed
implacabile.
È annoverato fra gli Dei il Sonno, perchè sospende
i nostri mali, e ci toglie ogni inquietudine. Era figlio della
Notte, e fratello della Morte, ch’è un sonno perpetuo. La pittura,
che fa Ovidio di questo Dio, è sì bella, che ci fa chiaramente
conoscere la natura, e gli effetti del sonno. Situa egli il suo
palazzo nel paese de CimmerjMorfeo, Fobetore, e Fantaso, erano i tre figli del Sonno. Il suo
altare era collocato presso quello delle Muse per dinotare, che gli
uomini di lettere hanno bisogno del riposo, e della calma dello
spirito
Manes erano dette dai Latini le ombre degli
estinti, o i Genj, che assistevano ai sepolcri.
Figliuola dell’Erebo, e della Notte era Nemesi Dea
della vendetta, e vendicava i delitti in questo mondo, e
nell’altro ; abbassava l’orgoglio, e dispensava a suo arbitrio il
male, ed il bene. È rappresentata in diverse guise or come Furia, or
con sembianze più dolci : talvolta porta un velo sulla testa per
dinotare, che la celeste vendetta è impenetrabile, e colpisce
all’istante i colpevoli, che si credono in sicurezza. Vedesi altresì
assisa sopra un timone, o pur avendo a suoi piedi una ruota per
correre da pertutto, e giudicare del merito di ognuno.
Fa di mestieri distinguere di Lari dai Penati. I Lari erano Dei particolari delle famiglie, ed i Penati delle Città, o altri luoghi. Nell’ingresso delle abitazioni stavano i Lari per allontanare una qualche disgrazia che avesse potuto entrare. Questi Dei erano piccole statuette, o Idoletti convenevoli al culto particolare del padrone della casa : spesso era un semi-Dio, o un Eroe della famiglia trapassato. Presso queste immagini stava anche un cane, che egualmente era rispettato.
Credevano gli antichi, che i Genj fossero destinati alla custodia
degli uomini, che erano assistiti secondo il proprio naturale da due
Genj, uno buono, l’altro cattivo
Era questi il Dio delle ricchezze figliuolo di Cerere, e Giasone.
Vedesi rappresentato qual vecchio zoppo, ma alato per dinotare che
le ricchezze con pena si ammassano, e con celerità
La Fortuna è dipinta, come Pluto, col corno
dell’abbondanza, e gli occhi bendati con un piede in aria, e l’altro
su di una ruota, che gira con velocità. Gli antichi credevano ch’
ella dispensasse capricciosamente i beni, ed i mali, ed era soggetta
alle imprecazioni degli uomini, allorchè gli affari non avevano un
esito felice, come fanno anche oggidì i giuocatori, quando perdono
tutto.
Ha dippiù la Fortuna le ali ai piedi, indizio della sua incostanza,
ed un ciuffo di capelli sulla testa, che fa d’uopo afferrare, perchè
non iscappi dalle mani. La Fortuna, al dir di Cicerone, è un nome
vano ; e si potrebbe credere lo avesse l’antichità inventato per
evitare l’occasione di lagnarsi contro la ProvidenzaUna donna superba al par di Giuno.
Arpocrate era il Dio del silenzio, in origine
filosofo Greco. Egli è rappresentato con un dito sulla bocca, è
vestito di una pelle di lupo picchiettata d’occhi, e di orecchi per
indicare, che bisogna vedere, e sentir molto, e parlar poco. I
Latini avevano ascritto anch’essi il silenzio nel numero degl’Iddii,
e lo dipingevano in forma di una donna che chiamarono Muta.
Figliuola del Cielo, e della Terra era Temi Dea della Giustizia. Fu creduta da Eusebio quella tale Carmenta donna savissima di Arcadia, che presagiva il futuro. Le matrone Romane le avevano eretto un tempio con istituire le feste Carmentali. I pagani supponevano in lei una grande penetrazione, per indicare che la giustizia scopre la verità più nascosta. È rappresentata assisa sopra una pietra quadrata per dimostrare la solidità de’ suoi giudizj, colla bilancia in una mano, e con una spada nell’altra per vendicare egualmente i dritti della gente bassa, e dei grandi.
Astrea.
Vi ha tra poeti, chi crede Temi la stessa che Astrea, figliuola di Giove, e di Temi. Durante il secolo di oro Astrea conversò cogli uomini : ma stanca, ed annojata dai delitti che si commettevano, involossi dalla terra, e volle ritornare al Cielo, ove fu situata nel Zodiaco : oggi detta la Vergine.
Dio de’ piaceri, e della mensa era Como. Egli è
rappresentato coronato di fiori, e con una fiaccola in mano, perchè
gran parte della notte era a lui consagrata.
Era questo l’amico stretto di Como. La buffoneria ben si accoppia con
i piaceri della mensa. Il primo degli oggetti di Momo era mettere in
ridicolo le azioni degli Dei, e degli uomini. Avendo Nettuno formato
un toro, Vulcano un uomo, e Minerva una casa, questo Dio ebbe a
ridirci qualche cosa. Le corna del toro dovevano essere più vicine
agli occhi per potersi difendere a colpo sicuro. Dirimpetto al cuore
dell’uomo
Imene, o Imenèo era il Dio delle nozze. Egli per aver salvate alcune donzelle dalle mani de’ corsari, e che restituì ai proprj genitori, era dalle donne invocato allorchè si maritavano. Vedesi Imenèo sotto l’aspetto di un giovane leggiadro, coronato di rose, e con una fiaccola in mano.
Le Grazie eran figlie di Giove, e di Venere. Seguivano per lo più la loro madre, ed assistevano al suo abbígliamento. Erano tre Aglaja, Talia, ed Eufrosine. Erano contente delle semplici attrattive che avevano sortite dalla natura. Vengono rappresentate ignude, dandosi fra di loro la mano. Avevano picciola statura ; ma un’aria dolce, e ridente, accompagnata da una fisonomia parlante, ed atta a conquistare i cuori più duri.
Oltre le tante fin quì da noi descritte Divinità, avevano i Greci, ed i Romani fatta l’apoteosi alle passioni umane, non che alle virtù, ed ai vizj, ai beni, ed ai mali. Non altrimenti che a Giove, si erano a questi Dei innalzati templi, ed altari, ed erano rappresentati con que’ caratteri, ed attributi che avvertivano gli uomini di quanto potevano temere, o sperare. Eccone un esempio. Assisa una donna con ispada in una mano, e nell’altra una bilancia rappresenta Temi, Dea della giustizia. Colla bilancia ella pesa le azioni di ciascuno, ed egualmente giudica del merito di chicchessia : colla spada punisce i malfattori. Il di lei tranquillo aspetto annunzia, che i suoi giudizj sono sceveri di qualunque prevenzione. Talvolta è dipinta con benda avanti gli occhi, perchè non vegga chi si presenta al suo tribunale : sia ricco, sia povero, ognuno è uguale innanzi a lei.
Queste Divinità per noi sono semplici allegorie. I poeti, i pittori, gli scultori lor danno per lo più tali attributi per aggiungere naturalezza, e vivacità ai loro lavori.
Era questa Dea rappresentata assisa sul trono qual Regina, tenendo in
una mano un caducèo, e nell’altra il corno dell’abbondanza. Gli
Ateniesi le avevano eretto un tempio : altrettanto fece Lucullo,
dopo aver vinto Mitridate, e Tigrane. Crede il Vossio che la Felicità adorata da Greci col nome di Ευδαιμονια
sia la stessa che Salus la salute pubblica.
Vedesi l’abbondanza sotto la figura di una donna robusta, rovesciando un corno pieno di frutta di ogni sorta.
Era questa figliuola del Lusso, e dell’Ozio dipinta come una donna pallida, magra, e coverta di cenci, spesso in atto di darsi alla disperazione.
A questa Divinità due tempj erano dedicati in Roma. In doppia guisa è
rappresentata : cioè col
Avevano queste due Divinità ciascuna il suo tempio in Roma, ma fatto in modo che non si poteva entrare nel tempio dell’onore senza passare per quello della virtù. L’allegoria era tanto bella, quanto istruiva, per insegnare agli uomini che bisogna essere virtuoso per poter aver dritto all’onore.
La virtù è figlia della verità. La sua figura era quella di una donna di fresca età con veste bianca, e sedendo sopra di pietra quadrata per indicare la fermezza, ed aggiustatezza del suo carattere.
La sua figura è di una giovane vergine vestita di un abito bianco, e semplicissimo, e talvolta vedesi nuda con uno specchio alla mano. Era figlia di Saturno, o piuttosto del Tempo.
Vediamo la Menzogna spesso rappresentata sotto l’aspetto di Mercurio Dio dell’eloquenza, bugiardo e facile ad ingannare.
Si ravvisa la Prudenza allo specchio, a cui si attorciglia un serpente.
I Moderni la dipingono qual donna con alí larghissime, e due trombe
per palesare il bene, ed il male. Gli antichi la credevano
messaggiera di Giove. Virgilio ce la rappresenta come una donna di
statura orribile, e gigantesca, ornata di piume, occhi, lingue, e
bocche. « Ella, al dir di un poeta, è una Diva, o piuttosto un
mostro di straordinaria grandezza coverto di occhi, e di orecchi, la
cui voce imita lo scroscio del tuono : i piedi poggiano in terra, e
la testa si nasconde tra le nuvole. Messaggiera indifferente della
verita, e della bugia, corre tutti gli angoli della terra, spargendo
veri, e falsi rumori. »
Leggasi la bella descrizione che fa Ovidio del palazzo della Fama.
Due tempj aveva in Roma la Concordia. Era figliuola di Giove, e di Temi. Il suo potere si estendeva sulle famiglie, e sulla Città. La sua figura era simile a quella della Pace. I Greci la chiamarono Ὀμονοια, ed aveva un tempio in Olimpia.
Era altresì figlia di Giove, e di Temi la Pace. Vien ella rappresentata con corona di alloro, con una immaginetta di Pluto in una mano, e nell’altra un ramo di ulivo. Questa Dea si ricovera nel Cielo, allorchè la guerra la discaccia dalla terra.
Dalle volte del Ciel aureo lucenti Discendi, o bella Pace, e col tuo ciglio Arresta Tu del Ciel la troppo giusta Meritata da noi tarda vendetta.
La fedeltà, o la buona Fede aveva il suo culto nel Lazio prima di
Romolo. Ella presedeva ai trattati, alle alleanze, al commercio.
Inviolabili erano i giuramenti concepiti per lei. Vien dipinta
Omero le chiama figlie di Giove. Egli le rappresenta umili, timide, e
zoppicanti, e sovente malconce
Vedesi il Pudore in sembianza di una donna coverta da un velo.
Vien espressa con una coppa alla mano, ed accanto un altare, intorno
al quale un serpente si aggira. Ella è denominata anche Igia.
Una femina nuda coronata di rose con coppa d’oro dove beve una biscia, è l’effigie della Voluttà.
Da Giove, e da Temi è nata la Legge. Porta in mano uno scettro per simbolo del suo impero.
Compariva fulminata da Giove, mentre ella si sforzava d’infrangere una tavola delle leggi, e la bilancia della Giustizia.
Era questa la Dea che sovrastava a quanto esiste, e vediamo. Vien ella rappresentata qual donna robusta, avendo doppio ordine di mammelle per indicare la sua fecondità, e la cura che si prende per la sussistenza di quanto ha creato.
Gli antichi la dipingevano sotto l’aspetto di una venerabile matrona col corno dell’abbondanza in una mano, e nell’altra una bacchetta, che si stende nell’intero globo.
Meritava questa Dea degli altari, ed in fatti gli antichi a lei ben
molti ne innalzarono. I Romani la figuravano qual donna vestita di
una tunica, nel di cui lembo si leggeva questo motto : la morte, e la vita. Sulla di lei fronte era altresì
scritto : l’està, e l’inverno. Il suo fianco era
aperto fino a vedersi il cuore che mostrava col dito, ov’era il
detto, da vicino, e da lontano : simboli ingegnosi
per mostrare, che l’amicizia è la stessa in ogni tempo, in ogni
luogo inalterabile nella felicità, e nelle disgrazie. Il suo cuore
aperto indicava che non ha ella segreti per gli oggetti a lei
cari.
Era espressa in figura gigantesca, e circondata da tutti gli strumenti che indicavano la sua attività. I suoi genitori erano l’Erebo, e la Notte.
Aveva per genitori il Sonno, e la Notte. Erano a lei sagrati due
animali di lentissimo moto, la tartaruga, e la lumaca. Gli antichi
la chiamavano anche Vacuna.
La sua fisonomia era ridente per meglio ingannare. Il resto del corpo
terminava in serpente colla coda di scorpione. Una stretta di questa
coda cagionava la morteNotte.
Una testa di lione sopra il corpo di una donna disegnava il Terrore. Portava in mano un pugnale, una fiaccola, e de’ serpenti.
È rappresentata presso a poco come la Fortuna con un piede sopra di
una ruota che gira rapidamente. La sua testa è calva al di dietro :
nella parte d’avanti presenta soltanto un ciuffo che bisogna
afferrare. La sua mano era armata di un rasojo
Figlia della Fortuna comandava agli Dei, ed agli uomini. Le sue mani erano di bronzo, ed avevano una caviglia ed una zeppa. Gli abitanti di Corinto le avevano innalzato un tempio.
L’Invidia abita sotto la volta di una rupe sterile, e senza verdura.
Si asconde in un antro spaventevole, ove raggio di luce non penetra.
Smunta, pallida, con ciglio torvo, e viso malinconico. Il veleno che
ha nel cuore sbocca dalle
Era figlia di Stige, e del gigante Pallante. Si dipinge alata con un ramoscello di palma in una mano, e nell’altra con una corona tessuta di alloro, e di ulivo.
È rappresentata sotto l’effigie di Flora con ghirlanda, ed un cestellino di rose.
Per esprimere questa stagione vedesi Cerere col corno dell’abbondanza, e una corona di spighe.
Un giovane con corba di frutta, e carezzando un cane rappresenta l’Autunno.
Vedesi ordinariamente dipinto l’Inverno sotto l’aspetto di un vecchio
che si riscalda, o stassene rinchiuso in una grotta. Egli è vestito
di un abito che tutto lo circonda ; i suoi capelli, e la barba
bianca sono coverti di ghiaccio
Una donna con serpenti sulla testa, una fiaccola in una mano, e nell’altra una biscia, ed un pugnale rappresentava la Discordia detta puranche Erinni. Il suo volto era livido, e tetro : torvo lo sguardo, e la bocca spumante. Giove l’aveva scacciata dal Cielo, perch’ella destava continue risse fra gl’Iddii.
Gli antichi, come si è detto, avevano ascritto nel numero degli Dei
tutt’i mali, che circondano l’umano genere. Essi li credevano tanti
Esseri capaci di allontanare, o di attirarci le disgrazie. Così
sagrificavano alla Si è detto essere
infinito il numero de’ Numi foggiati dagli antichi, che gli
ritrovarono sino ne’ cessi. Giovenale parlando degli Egizj
che adoravane le cipolle, esclama :Febbre per non esserne
attaccati, I Romani invocavano la Paura, perchè non li avesse
sorpresi quando combattevano. Il crepitus
ventrisO sanctas gentes, quibus haec nascuntur in
hortis Numina !
La serie di tante stravaganze, nel momento che prova la debolezza dello spirito umano, ci avverte del bisogno che abbiamo della mano di Dio in tutti gli eventi della nostra vita. Non avendo potuto gli antichi aver l’idea giusta di un Dio vero, unico, e creatore dell’Universo, formarono altrettanti Dei di tutti gli attributi, che al vero Ente supremo si convenivano.
Semidei chiamavansi quei ch’ erano nati da un Dio, e da
una mortale, oppur da un uomo, e da una Dea. Davasi il titolo di Eroe a chi
per qualche impresa segnalata o illustre azione si fosse distinto, con aver
richiamata l’attenzione degli Dei, e la meraviglia degli uomini. Così nella
prima classe bisogna situar Ercole, Perseo, Cadmo, Castore, e Polluce, ec.
Alla seconda classe appartengono Teseo, Agamennone, Ulisse, e tanti altri.
Le gesta dei primi vanno sotto il nome di Storia favolosa,
perchè combinata da un miscuglio di fatti veri, e di favole. Storia eroica diremo quella che narra i fatti, e le azioni degli
uomini, e de’ guerrieri, che hanno meritato un tale distintivo.
Questa storia porta l’epoca della nascita del mondo, al momento che Prometeo formò il primo uomo, e l’animò con una particella del fuoco celeste.
Prometeo figliuolo di Giapeto, e di Climene figlia dell’Oceano, era il più ingegnoso de’ Titani. Egli per emulare la potenza di Giove ardì creare, un uomo, servendosi del semplice limo della terra cui diede l’anima con una particella di quel fuoco celeste, che dal carro del sole aveva rapita. Ingelosito Giove, che un mortale si fosse usurpato il dritto della creazione, che a lui solo si apparteneva, diede l’ordine a Mercurio, o a Vulcano d’incatenar Prometeo in una roccia del monte Caucaso, ove un’ aquila, o un avoltojo gli rodeva il fegato, che la notte si rinnovellava per essere al dì vegnente divorato di nuovo. Eterno sarebbe stato il suo supplizio, se Ercole che si trovò di là passando, non lo avesse liberato.
Non contento Giove di tale vendetta, e per punire gli uomini delle loro
temerarie intraprese ordinò a Vulcano, che avesse formata una statua.
Volle altresì che ciascuno degli Dei le avesse comuuicato qualche
pregio. In fatti Venere le diede la bellezza, Minerva il senno, Mercurio
la parola, Apollo il talento per la musica. Finalmente Pandora, nome composto da due voci Greche indicanti
ch’ ella aveva tutt’i doni. Volle altresi Giove
adempiere la parte sua. Egli le donò un vaso, che doveva presentare a
Prometeo, forse allora non ancora condannato al testè detto supplizio.
Epimeteo meno sospettoso, e diffidente di suo fratello Prometeo, volle
aprir questo vaso donde scapparon fuori tutt’i mali che inondarono la
terra. La sola speranza. restò nel fondo del vaso
Moltiplicatisi gli uomini vissero in una perfetta innocenza. Qual tempo
fu detto l’età dell’oro, tanto decantala da’ poeti
sotto il regno di Saturno. età dell’argento, ed ebbe meno puri costumi.
Nell’età di bronzo spuntarono i primi semi della
guerra, e dei delitti. Finalmente nell’età di ferro
non potendo più gli Dei tollerare la perversità degli uomini, Giove si
decise a schiantarne la cattiva razza ; ma per non confondere i giusti
cogli empj, intraprese colla guida di Mercurio un viaggio sulla terra, e
si fermò presso di Licaone re dell’Arcadia. Questi dubitando della
divinità de’ suoi ospiti, immaginò una prova terribile. Fece scannare un
ostaggio, che abitava nella sua reggia, e ne apprestò delle vivande alla
mensa degli ospiti Numi. Irritato Giove per tale indegnità, incenerì con
un fulmine il palazzo di questo mostro. Licaone tentò sottrarsi alla
vendetta, ed all’istante diventò un lupo, che cerca immacchiarsi nel
fondo delle foreste.
Inesorabile allora Giove giurò la perdita del genere umano ; ma senza far danno alla terra, che voleva popolare di una nuova specie. Ordinò ai venti, che avessero unite insieme le nuvole, d’onde caddero le acque in tanta copia, che tutta ne fu inondata la terra.
Da questo generale diluvio due sole persone furono preservate, cioè
Deucalione, e Pirra sua
Cecrope dall’Egitto venne a stabilirsi nella Grecia, e propriamente nel
luogo, dove Atene fu fabbricata. Sposò la figliuola di Attèo re del
paese, e della sua colonia se ne formarono
Figliuolo fu di Agenore re di Fenicia, e fratello della bella Europa
rapita da Giove sotto l’aspetto di un toro. Disperato Agenore, che non
aveva nouve di sua figlia, impose a Cadmo di andarla cercando sin che la
trovasse. Essendo stata vana ogni ricerca, Cadmo consultò l’oracolo, dal
quale gli fu risposto che avesse fabbricato una città in una contrada
della Grecia, e propriamente dove avesse veduto fermarsi un bove. La
novella sua patria fu detta per tal ragione Beozia.
Prima di edificare la città capitale, volle offrire de’ sacrifizj agli
Dei, a quale oggetto avendo spediti alcuni suoi compagni ad attinger
dell’acqua in una fontana consagrata a Marte, un dragone che ivi era in
guardia, li divorò tutti. Cadmo non vedendoli ritornare, si recò egli
stesso sulla faccia del luogo, e gli riuscì di ammazzare quel mostro.
Per ordine di Minerva seminati i denti del dragone produssero de’ nuovi
soldati che si scannarono fra di loro, restandone soli cinque che lo
ajutarono alla fabbrica della famosa Tebe. Cadmo
La nascita di Perseo fu assai singolare. Acrisio re di Argo aveva una
figliuola di rara bellezza chiamata Danae. Come l’oracolo gli aveva
predetto, che da costei nascerebbe un bambino, che avrebbe dato la morte
all’avo, rinchiuse Acrisio la sua figliuola in una torre di bronzo.
Spinto Giove dalla curiosità di vedere questa giovane, si trasformò in
pioggia di oro, e mentre i custodi erano intenti a raccorre l’oro,
riuscì a Giove di penetrare nella torre. Divenne Danae madre di Perseo :
del che accortosi Acrisio la fece mettere in una barchetta, e
l’abbandonò alla discrezione del mare. Battuta dai venti Danae per
azzardo arrivò ad una delle isole Cicladi dove regnava Polidette, che
volentieri accolse la madre col bambino, con prendere somma cura
dell’educazione di questo principe. Ma in seguito Polidette divenuto
amante di Danae, e temendo di Perseo, cercò di allontanarlo fingendo di
volere sposare una principessa di Grecia, ed in tale occasione per
ostentare il suo fasto voleva quanto di più raro esistesse nel mondo.
Per rendere
Poichè Perseo fu allontanato dalla reggia da Polidette, i Dei ebbero cura della sua salvezza. Minerva gli diede l’egida, Mercurio le ali, ed un cimiero lavorato da Vulcano. Allora l’Eroe si levò rapidamente a volo per l’aria, e giunse tosto alle isole Gorgonidi. Nascosto sotto l’egida vinse le tre Gorgoni, e ritornò in Argo colla testa di Medusa, di cui si servì per cangiar gli uomini in pietra. Tal sorte toccò ad Atlante re della Mauritania, che gli aveva negata l’ospitalità. Chi guardava questa testa era soggetto ad un tale destino, e le stille di sangue che ne grondarono, divennero serpenti.
Continuando i suoi viaggi per l’Etiopia, Perseo
Ascoltiamone la storia per bocca di Glauco suo discendente. « Questo Eroe
(diceva a Diomede durante la guerra Trojana) era figliuolo di Glauco re
di Corinto : Giove lo aveva sottoposto a Preto re d’Argo. Come aveva una
vantaggiosa figura, Antea moglie di Preto ebbe per lui
.
Gli Ateniesi avendo assassinato Androgeo figliuolo di Minosse re di
Creta, questo principe alla testa di una armata poderosa assediò Atene,
e non si Teseo in qual maniera Teseo ammazzò questo mostro, e
liberò Atene da sì crudele tributo. Minosse servendosi dell’opera di
Dedalo architetto ingegnosissimo, formò un edifizio detto Laberinto, nel quale chi entrava non ritrovava mai l’uscita,
consistendo la struttura in mille tortuosi giri inestrigabili. Ivi
Minosse fece rinchiudere il Minotauro ; e lo stesso Dedalo ch’ era
incorso nella di lui disgrazia con il suo figlio Icaro. Questi però
escogitò la maniera come uscire di prigione coll’ajuto delle ali
composte di cera, e di penne per se, e per Icaro. Avvertì pertanto il
figlio che spiccandosi a volo non si levasse troppo in alto, mentre il
calore del Sole avrebbe potuto liquefare la cera. Lanciaronsi dunque
nell’aria : ma Icaro vedutosi in libertà, poco profittando del consiglio
del padre temerariamente s’innalzò tanto, che staccatesi le penne per
l’ardore del Sole, cadde infelicemente nel mare, cui diede per tale
occasione il suo nome. Icarus Icariis nomina fecit
aquis, Ovidio.
Minosse fu padre di molti figli : i più conosciuti furono Androgèo,
Fedra, ed Arianna. Il suo governo fu sì giusto, e regolato, che divenne
Etra, ed Egèo re di Atene furono i genitori di Teseo. Volendo questo Eroe fin dalla fanciullezza imitare il valore di Ercole, e ritrovandosi nella Corte di Piteo re di Trezenia, e padre di Etra volle intraprendere un viaggio per Atene per vedere Egèo suo genitore. Cammin facendo diede i primi saggi del suo valore. Passando pel territorio di Epidauro, uccise Perifeto che lo aveva sfidato a battersi seco. Di là traversando l’istmo di Corinto, punì Sinni assassino, che aveva una forza prodigiosa, solito ad attaccare le vittime che cadevano fra le di lui mani, a due rami di pino curvati, che poscia si raddrizzavano collo squarcio de’ loro corpi. Teseo lo fece morire nella stessa guisa. Passando per le frontiere di Megara precipitò dall’alto di una rupe l’infame Scirrone che spogliava i viandanti, e li faceva rotolare nel mare. In Eleusi vinse alla lotta Cercione, ed arrivato a Termione diede la morte all’empio gigante Procruste. Questo scellerato faceva stendere i forestieri sopra di un letto di ferro, e tagliava le parti che sporgevano in fuori. Coll’istesso supplizio pagò la pena delle sue crudeltà.
Giunse finalmente ad Atene, dove non potendosi vedere ozioso volle combattere col toro di Maratona, che menò vivo in Città per sacrificarlo ad Apollo. Vennero dopo poco tempo i deputati di Minosse a chiedere per la terza volta il solito tributo de’ sette giovani, ed altrettante donzelle. Volle Teseo ascriversi fra quelli, e malgrado le lagrime di suo padre si pose in viaggio ad oggetto di combattere col Minotauro, e liberare Atene da sì umiliante tributo. Sarebbe però senza dubbio perito in questa per altro gloriosa impresa, se Arianna figliuola di Minosse non lo avesse consigliato di attaccare un filo all’entrata del Laberinto ove il mostro abitava. Si valse Teseo dell’avviso : uccise in battaglia il Minotauro, e coll’ajuto del filo uscì dagl’intrighi tortuosi di quel luogo. Volle Arianna seguire i passi di quest’Eroe, che amava per il suo valore : ma questi ebbe la crudeltà di abbandonare nell’isola di Nasso colei, che gli aveva salvata la vita. Restò l’infelice Arianna in quell’isola fino all’arrivo di Bacco, che ritornava vincitore dall’Indie ; questo Dio asciugò le sue lagrime, e la sposò.
Teseo nel partire, aveva promesso ad Egèo, che se ritornava vittorioso
avrebbe fatto inalberare al suo vascello una bandiera bianca in vece
della nera che ivi si trovava. Disgraziatamente tanto egli, che il
piloto obbliarono questa promessa. Egèo che impaziente attendeva sulla
riva il ritorno del Egèo.
Teseo montò sul trono di Atene : promulgò delle leggi, che contribuirono
moltissimo ad accrescere la potenza di quel popolo.
Il resto di sua vita fu un misto di azioni grandiose, e riprensibili
talvolta, come altresì di felicità, e di disgrazie. Trovò in fine da
pertutto occasioni per accrescere la riputazione che godeva. In
compagnia di Ercole fece la guerra alle Amazoni, donne sommamente
guerriere, e sposò la loro regina Antiopa, dalla quale nacque Ippolito.
Fu Teseo uno degli Argonauti, che andarono alla conquista del Vello d’oro. Accompagnò Meleagro alla caccia del
cignale Calidonio. Dopo la morte di Antiopa, Teseo sposò Fedra figliuola
di Minosse, e sorella di Arianna. Ben sapendo egli, che le madrigne
guardano di mal occhio i figli del primo letto, inviò Ippolito presso il
suo avo Piteo. Divenne questo figlio in seguito l’odio del padre per una
nera calunnia di Fedra. Volendo Teseo vendicarsene, pregò Nettuno che
gli promise di esaudire i suoi voti. Un giorno, mentre Ippolito
passeggiava alla riva del mare, fece venir fuori delle acque un mostro
metà uomo, e metà serpente, che gittava fiamme per la bocca. Spaventati
i cavalli a tal vista non sentirono nè la voce, nè la mano d’Ippolito.
Il carro si
Contrasse Teseo un’amicizia strettissima con Piritoo re de’ Lapiti. Alla fama del valore di questo Eroe, Piritoo volle farne la pruova, e lo sfidò a singolar tenzone. Nel punto però di azzuffarsi, furono entrambi sorpresi del proprio coraggio : quindi mossi da sentimenti di vera stima, si diedero vicendevolmente la mano, e giurarono un’eterna, e verace amicizia. Dopo qualche tempo Piritoo sposò Ippodamia. I Centauri invitati alle nozze ebbri, ed impazzati tentarono di rapire la sposa. I Lapiti diedero di piglio alle armi, e Teseo non si fece pregare per fare lo stesso.
In ricompensa Piritoo contribuì al ratto di Elena figliuola di Tindaro, e di Leda, per averla veduta Teseo ballare con molta grazia nel tempio. Questa indegna azione di Teseo fu causa di una guerra terribile. Castore, e Polluce germani di Elena ostilmente entrarono ne’ suoi stati, ed i sudditi l’obbligarono ad andare in esilio.
Questa lezione non bastò a correggere Teseo. Piritoo suo amico, e
compagno d’armi volendo imitarlo, gli venne la smania di rapir
Proserpina. Arrivati all’Inferno, Plutone fu avvertito della trama, e
fatte sciogliere le catene di Cerbero, si avventò questi a Piritoo, e lo
strangolò.
Rapito Giove dalla bellezza di Leda sposa di Tindaro re di Sparta, volle un dì visitarla trasformatosi in cigno perseguitato da un’aquila. Questa principessa lo accolse nel seno, e ritrovandosi incinta dopo nove mesi si sgravò di due ovi, in uno de’ quali stava rinchiuso Polluce, ed Elena, nell’altro Castore, e Clitennestra. I primi due furono riguardati come figli di Giove, e gli altri due per figliuoli di Tindaro, detti in seguito indifferentemente tutti e quattro Tindaridi.
Divenuti adulti i due germani, si distinsero nel valore, Polluce riuscì
il più bravo fra gli Atleti, avendo ucciso il terribile Amico al giuoco del cesto. Castore si segnalò nel corso, e
nell’arte di domare i cavalli. Entrambi andarono al vello d’oro, e fecero
la guerra a Teseo che aveva rapita Elena germana. Essi punirono soltanto
quei che avevano preso parte al ratto. Tal moderazione loro fece
meritare la stima e l’ammirazione degli Ateniesi. Mercè la nobile cura
che entrambi si presero di purgar l’Arcipelago dai corsari che lo
infestavano, furono riguardati quai Numi da’ marinari. Nel corso della
tempesta che assalì gli Argonauti, si viddero de’ fuochi scintillare sul
capo de’ due fratelli, e cessò tosto quel fiero temporale. Le fiamme di
tal sorta che apparivano nel sorgere, o nel mezzo di qualche tempesta si
credevano segni felici, chiamati i fuochi di Castore, e di Polluce.
Amarono i due fratelli nel tempo istesso le figliuole di Leucippe, Febe, e Talaria, che bisognò rapire, perchè promesse a Ida, e Lincèo. Si venne alle mani per giustificare, e per sostenere l’oltraggio. Castore uccise Lincèo, che da Ida fu vendicato colla morte del primo. Polluce vendicò parimente Castore colla morte di Ida.
Polluce perchè figlio di Giove era immortale. Ma il vivere gli era
insoffribile perchè, diviso da Castore. Quindi supplicò Giove o che lo
avesse privato della vita, o avesse divisa la sua immortalità col
fratello. Esaudì Giove i suoi voti, e fu deciso, che i due germani
passassero sei mesi nell’inferno, ed altrettanti sulla terra. Finalmente
furono trasportati nel cielo, e diedero il nome GemelliDioscuri, cioè figli di Giove ; siccome Romolo, e
Remo potrebbero essere i Dioscuri de’ Latini.
Regnando in Tessaglia Esone principe debole, ed incapace di difendere i
dritti del suo popolo ; fu sbalzato dal trono da Pelia suo fratello.
Questi per palliare l’usurpazione promise di restituire il regno a suo
nipote Giasone, allorchè venisse all’età di poter governare. Divenuto
adulto gli fu proposto dallo zio la conquista del vello
d’oro, che il giovane avido di gloria non esitò punto
d’intraprendere a traverso di tanti pericoli, che ne impedivano il
possesso. Bisogna sovvenirsi quì di quanto sì è detto riguardo a Frisso,
ed Elle figliuoli di Atamante re di Tebe. Perseguitati questi da Ino
loro madrigna, sen fuggirono sul dorso di un ariete, la cui lana era di
oro, e traversarono un canale del mar nero. Elle ebbe la disgrazia di
cadere, e diede il nome di Ellesponto a quel mare. Frisso più fortunato
guadagnò l’opposta riva, e continuando il suo viaggio arrivò in Colco,
ove offerì in sacrifizio a Marte quel bello ariete, che fu poi collocato
in
Giasone risoluto di partire, chiamò a parte della gloria di quell’impresa
tutti gli Eroi della Grecia. Il vascello detto Argo fu
quello che trasportò questa schiera di Eroi, perciò detti Argonauti. Noi non ci daremo la pena di fare la diceria di
tutte le avventnre precedenti al viaggio, e degli ostacoli che
sormontarono mercè l’assistenza di Giunone, e di Minerva. Il viaggio
però era il minore de’ mali a fronte di quelli dell’acquisto del vello.
Bisognava in primo luogo rompere una barriera custodita da due tori
(dono di Vulcano) che avevano le corna, e i piedi di bronzo, dalle cui
fauci correvano torrenti di fuoco, indi assoggettarli al giogo, e
lavorare un campo vergine con seminarci i denti di un dragone, da’ quali
dovevano venir fuora alcuni uomini armati, che faceva d’uopo sterminare
fino a che non ve ne restasse un solo : finalmente uccidere un mostro,
che stava alla guardia di sì prezioso deposito. Il più difficile era che
tutto questo doveva effettuarsi nel breve corso di un giorno. L’impresa
avrebbe sgomentato lo stesso Ercole : e Giasone ci avrebbe perduta la
vita, se Minerva, e Giunone non
Ciò fatto di concerto con Medèa, che sposò, pensarono di fuggirsene col favore della notte trasportando seco i tesori di Eta padre di Medèa. Questi senza perdita di tempo cominciò ad inseguirli : ma la perfida figlia avvezza ad ogni delitto, preso Absirto suo fratello minore lo trucidò, spargendo le membra lungo la strada che doveva battere suo padre, perchè si occupasse il medesimo a raccogliere gli avanzi dell’infelice garzone.
Il ritorno di Giasone, e degli Argonauti riempì di gioja tutta la
Tessaglia. Ivi si celebrarono delle feste in tale occasione. Cessò
intanto la buona intelligenza fra i due sposi. Medèa
Passò Giasone il resto de’ suoi giorni ora in un luogo, ora in un altro.
Finalmente ritornò in Tessaglia, dove standosi un giorno sul vascello
Argo che stava sulla riva, fu schiacciato dalla
caduta di una trave che si era staccata.
Nacque quest’Eroe da Alcmena, e da Giove, che la sedusse sotto l’aspetto
del suo sposo Anfitrione figliuolo di Alcèo. Come Giove aveva detto nel
concilio degli Dei, che il bambino, che doveva nascere, sarebbe divenuto
un Eroe, irritata Giunone spiegò un odio implacabile
Creonte re di Tebe prese cura della sua educazione, che fu qual si conveniva ad un Eroe. Ercole gli mostrò tutta la gratitudine, avendo liberata Tebe nell’età di anni dieci dal giogo de’ Miniani. Ammazzò Ergino loro re, e saccheggiò Orchomeno città capitale de’ medesimi. Creonte in compenso gli diede in isposa Megaride sua figlia.
Questi non furono che piccioli saggi del suo valore, e preludj de’
travagli, che gli aveva riserbati lo sdegno di Giunone, che noi in un
fiato accenneremo. Il primo tratto della sua fortezza fu l’aver ucciso
un lione che infestava la selva Nemèa, della cui pelle si vestì. Il
secondo fu contro l’Idra, che desolava le paludi di Lerna presso Argo.
Questo mostro aveva cento colli, che terminavano in altrettante teste
spaventevoli rinascendo a misura, che si tagliavano. Ercole le sterminò
coll’ajuto di Jolo suo cugino, a cui impose di bruciarle appena ch’egli
le recidesse. Temprò egli in seguito le sue frecce nel sangue di
quest’Idra, che conteneva un veleno potentissimo. Per mano di Ercole
caddero Lucifer, ed Hesperus. Osservammo già che Atlante era stato
trasformato in una montagna, che sostiene il cielo ; le sue quattordici
figlie cangiate in altrettante stelle dette Plejadi, ed Jadi.
Oltre tanti fin quì descritti travagli illustrò quest’Eroe la sua vita
con tante altre brillanti azioni. Egli fu che diede la morte a Caco, che
abitava in un antro sotto le falde dell’Aventino
Stava nelle arene della Libia un famoso gigante chiamato Antèo, che
attaccava i viandanti. Aveva questi promesso a Nettuno suo padre
d’innalzargli un tempio di cranj, ed ossa umane. Ercole andò a fargli
una visita, gli diede addosso, e lo stramazzò più volte ; ma come figlio
della Terra ripigliava nuove forze Antèo sempre che la
toccava ; del che avvedutosi Ercole lo tenne sospeso in aria finchè
spirò l’ultimo fiato. Una fucinata di uomini che avevano picciolissima
statura detti Pigmei per vendicare la morte di Antèo
loro re si affollò intorno di Ercole, che ridendo li pose in fuga.
Questo Eroe diseese duc volte all’Inferno per liberare Teseo, indi
Alceste figliuola di Pelia, ed Anassabia. Suo padre per sottrarla dalle
premure degli amanti che la circondavano, fece loro sentire che per
ottenerla in isposa dovevano condurla sopra di un carro tirato da due
bestie feroci di differente specie. Admeto ebbe la fortuna d’impalmare
questa principessa, avendo adempito a tale condizione mercè un lione, ed
un cinghiale che Apollo gli diede. Ma il Destino geloso della felicità
di Admeto era presso a troncare i suoi giorni, quando Alceste che lo
Volle Ercole per la seconda volta maritarsi, e chiese la destra di Jole figliuola di Eurito, che domandò tempo per pensarci, sull’idea che sua figlia non potesse essere contenta accoppiata ad un uomo, che aveva ammazzato di propria mano i suoi figli. Ercole che fra le sue virtù non contava la pazienza, credendo tal pretesto un vero rifiuto, crucciato si portò via i cavalli di Eurito : suo figlio Ifito, che volle reclamarli, cadde vittima di Ercole. Il suo rimorso avendo costretto Ercole a consultare l’oracolo, gli fu risposto, che l’uccisore avrebbe espiato il suo delitto a solo patto che si fosse pubblicamente lasciato vendere. Ercole vi acconsentì, e diventò schiavo di Onfale regina di Lidia Da schiavo divenne amante, e per guadagnarsi l’affetto di Onfale si ridusse colla conocchia a filare tra le sue donne.
Vedesi quì tra le Meonie ancelle Favoleggiar colla conocchia Alcide ; Se l’inferno espugnò, resse le stelle, Or torce il fuso, Amor se ’l guarda, e ride. Tasso Gerusal. Canto 16.
Navigò Ercole l’Oceano fino a Calpe, ed Abila, quali due monti prima
erano uniti, ed esso li separò, dove innalzò una colonna col motto Non plus ultra.
Finalmente ritornando nella Grecia sposò Dejanira sorella di Meleagro,
che volendo condurre alla patria, pregò Nesso centauro a trasportarla di
là del fiume Eveno. Nesso gli avrebbe nel passaggio del fiume involato
la sposa, se Ercole non lo avesse arrestato con una freceia avvelenata.
Questo mostro si vendicò in una maniera terribile. Consigliò prima di
morire alla credula Dejanira di conservare una camicia intrisa nel suo
sangue perchè la dasse allo sposo, allorchè aveva motivo di sospettare
della di lui fedeltà. Questa principessa volendo interamente
frastornarlo dall’affetto per Jole gl’inviò questa fatale camicia,
mentre andava a fare un sagrifizio sul monte Eta. Appena Ercole ne fu
rivestito che sentì divorarsi da un fuoco interno, indi preso da furore
precipitò dall’alto della montagna il suo schiavo Lica, che gli aveva
recato quel dono così
Filottete figliuolo di Peano mercè l’amicizia di Ercole fu collocato nel
numero degli Eroi. Dicemmo già ch’egli aveva assistito alla morte di
questo Eroe con aver giurato di non rivelare il luogo della sua tomba ;
ma i Greci, che avevano bisogno delle frecce che ivi erano rinchiuse per
poter prendere Troja, lo fecero mancare al giuramento. Egli intanto
credette di eludere il sacro voto battendo col piede la terra, in quel
luogo ove stavano le ceneri di Ercole : ma gli Dei lo punirono
egualmente che se avesse colla viva voce indicato quel sito. Appena
imbarcatosi per recarsi a Troja, gli cadde sul piede che aveva battuta
la terra, un dardo avvelenato dal suo amico ricevuto. Il veleno
s’insinuò negli umori, e la sua ferita divenne insanabile. L’infezione,
ed il fetore era tale, che i Greci lo lasciarono nell’isola di Lenno,
ove menò un vita
La saggia antichità ha onorato la memoria non solo degl’illustri guerrieri, ma quella ancora degl’iusigni poeti. Orfèo fu celebre antichissimo legislatore, e poeta, e meritò altresì il culto al pari delle altre Divinità, ch’aveva nella Grecia introdotte. Egli era figlio di Eagro re della Tracia, e della Musa Calliope. Apollo conoscendo in lui un raro talento per la musica gli regalò la sua lira, alla quale Orfèo aggiunse due altre corde. Allorchè questo famoso musico insieme, e poeta scioglieva la voce al canto, uscivano da’ loro covili le bestie feroci, e divenivano altresì sensibili le piante, ed i sassi.
Dopo i suoi viaggi per l’Egitto si ripatriò, ed ebbe per sua sposa la
bella Euridice. Ma disgraziatamente nel giorno stesso delle nozze, Orsèo suona nel Greco nero,
oscuro, come Loth nell’Ebreo idioma oscurare. Calliope madre di Orfèo vuol dir canto, ed Orfèo appunto era il cantore della Tracia. Euridice vuol dire due volte perduto, come accadde
alla moglie di Loth dal marito posta in salvo, e che poi nuovamente
Loth istesso perdette.
Non te nullius exercent numinis irae : Magna lues commissa : tibi has miserabilis Orpheus Haudquaquam ob meritum poenas (ni fata resistant) Suscitat, et rapta graviter pro conjuge saevit. Illa quidem, dum te fugeret per flumina preaceps, Immanem ante pedes hydram moritura puella, Servantem ripas, alta non vidit in herba. At chorus aequalis Dryadum clamore supremos Implerunt montes : flerunt Rhodopeiae arces, Atque Pangaea, et Rhesi Mavortia tellus, Atque Getae, atque Hebrus, atque Actias Orithyia. Ipse cava solans aegrum testudine amorem, Te, dulcis conjux, te solo in litore secum, Te, veniente die, te decedente canebat. Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis, Et caligantem nigra formidine lucum Ingressus, manesque adiit, Regemque tremendum, Nesciaque humanis precibus mansuescere corda. At canlu commotae Erebi de sedibus imis Umbrae ibant tenues, simulacraque, luce carentum : Quam multa in silvis avium se millia condunt, Vesper ubi, aut hybernus agit de montibus imber : Matres, atque viri, defunctaque corpora vita Magnanimum heroum pueri, innuptaeque puellae, Impositique rogis juvenes ante ora parentum. Quos circum limus niger, et deformis arundo Cocyti, tardaque palus innabilis unda Alligat, et novies Styx interfusa coercet. Quin ipsae stupuere domus, atque intima lethi Tartara, caeruleosque implexae crinibus angues Eumenides : tenuitque inhians tria Cerberus ora, Atque Ixionei vento rota constitit orbis. Jamque pedem referens, casus evaserat omnes : Redditaque Eurydice superas veniebat ad auras, Pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem), Cum subita incautum dementia cepit amantem (Ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes) : Bestitit, Eurydicemque suam jam luce sub ipsa Immemor, heu ! victusque animo respexit, ibi omnis Effusus labor, atque immitis rupta tyranni Foedera : terque fragor stagnis auditus Avernis. Illa, quis et me (inquit) miseram, et te perdidit Orpheu ? Quis tantus furor ? en iterum crudelia retro Fata vocant, conditque natantia lumina somnus. Jamque vale : feror ingenti circumdata nocte, Invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas. Dixit, et ex oculis subito, ceu fumus in auras Commixtus tenues, fugit diversa : neque illum Prensantem nequicquam umbras, et multa volentem Dicere praeterea vidit : nec portitor Orci Amplius objectam passus transire paludem, Quid faceret ? quo se rapta bis conjuge ferret ? Quo fletu manes, qua Numina voce moveret ? Illa quidem Stygià nabat jam frigida cymba. Septem illum totos perhibent ex ordine menses, Rupe sub aeria, deserti ad Strymonis undam Flevisse, et gelidis haec evolvisse sub antris, Mulcentem tigres, et agentem carmine quereus ; Qualis populea moerens Philomela sub umbra Amissos queritur foetus, quos durus arator Observans nido implumes detraxit : at illa Flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen Integrat, et moestis loca questibus implet. Nulla Venus, nullique animum flere Hymenaei Solus Hyperboreas glacies, Tanaimque nivalem, Arvaque Riphaeis nunquam viduata pruinis Lustrabat, raptam Eurydicem, atque irrita Ditis Dona querens, spretae Ciconum quo munere matres Inter sacra Deum, nocturnique Orgia Bacchi Discerptum latos juvenem sparsere per agros. Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum ; Gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus Volveret, Eurydicem vox ipsa, et frigida lingua, Ah, miseram Eurydicem anima fugiente vocabat : Eurydicem toto referebant flumine ripae. Haec Proteus, etc. Virg. Georg. IV.
Lajo re di Tebe aveva sposata Giocasta figliuola di Creonte, che aveva
prima di Lajo parimente regnato in Tebe.Gli fu predetto dall’oracolo,
che il figlio che nascerebbe da questo matrimonio avrebbe a suo tempo
ammazzato il genitore ; quindi sgravatasi la regina, ordinò ad un suo
familiare, che avesse esposto il bambino in un deserto. Ma questi in
vece di abbandonarlo alle bestie feroci, lo legò ad un albero per un
piede. Per tal ragione il faneiullo ebbe il nome di Edipo, voce Greca,
che dinotò piè gonfio. Forba guardiano degli armenti
di Polibo re di Corinto a caso lo trovò, e mosso a compassione de’ suoi
vagiti lo staccò dall’albero, e lo presentò al re, che lo fece educare
con attenzione, adottandolo anche per figlio.
Edipo divenuto adulto seppe, che Polibo non era il padre suo. Volle a
tale oggetto consultare l’oracolo, da cui gli fu risposto, che giammai
non pensasse a far ritorno alla patria, perchè avrebbe ucciso suo padre,
ed indi sposata la propria madre. Intanto credendo egli Corinto la sua
patria non volle ritornarci, e prese la strada della Focide. In uno
stretto del monte Citerone ebbe la sventura d’incontrarsi con Lajo, che
avendogli imposto bruscamente di scostarsi, Edipo che nol
Questa fu la sorgente delle disgrazie che afflissero Tebe. Un mostro alato chiamato Sfinge colla testa, e mani di donna, il corpo di un cane desolava le campagne di Tebe, e standosi in aguato in un passo del monte Ficèo, assaliva i passaggieri, che uccideva dopo aver proposto ai medesimi degli cnigmi indissolubili.
Creonte, che dopo la morte di Lajo aveva ripreso le redini del governo,
fece noto al publico, che colui che uccidesse la Sfinge, sarebbe
divenuto l’immediato successore del trono, ed avrebbe sposato Giocasta.
La vita del mostro dipendeva dallo scioglimento di uno degli enigmi che
proponeva. Edipo intraprendente, ed ardito, malgrado che tanti prima di
lui fossero periti, ebbe il coraggio di presentarsi al mostro, che gli
dimandò qual era quell’animale che sul matino và brancolando a quattro
piedi, sul mezzo dì a due, e verso la sera con tre piedi. Edipo senza
punto esitare rispose che questi era l’uomo, che nell’infanzia si rotola
sovente anche colle mani per terra ; nello stato della sua robustezza
camina a due piedi ; e nel declinare dell’età si poggia ad un bastone.
Appena spiegato questo enigma, la sfinge si precipitò dall’alto di una
roccia, e spirò. Così Tebe fu liberata : Edipo
Gli Dei vollero far presenti ad Edipo tali per altro involontarj delitti. Suscitarono una pestilenza spaventevole in Tebe ; si ebbe ricorso all’oracolo, e la risposta fu, che il flagello cesserebbe allora quando l’uccisore di Lajo fosse stato riconosciuto, e punito. Lo sventurato Edipo convinto del delitto, e vedendo che al parricidio aveva aggiunto l’incesto, andossene volontariamente in esilio, ed increscendogli la propria esistenza, si cavò anche gli occhi.
Giocasta spaventata egualmente dalla sua posizione, si diede da se stessa la morte.
Il delitto di Edipo fu cagione di altre disgrazie nella sua famiglia.
Eteocle, e Polinice suoi figli convennero di regnare un anno per
ciascuno. Eteocle come primo di età prese le redini del governo : ma
terminato l’anno, non si sentì la voglia di deporre il comando. Sdegnato
Polinice ritirossi in Argo, dove regnava Adrasto che gli fece grande
accoglienza, e gli diede una sua figliuola in isposa. Questi tentò di
aggiustare le differenze tra i due fratelli, inviando Tidèo altro suo
genero ad Eteocle, che violando il dritto
La guerra di Tebe fu una delle più famose nei tempi eroici. Ella è stata il soggetto del canto di molti poeti, come quella di Troja, che diede occasione al poema di Omero. Tra i capi che allora si distinsero, si contano Adrasto, Polinice, Tidèo, Amfiarao, Capanèo, Ippomedonte, e Partenopèo.
Adrasto, come si è già detto, fu la molla principale di questa guerra, avendo aceolto nella sua reggia Polinice.
Tidèo contemporaneamente con Polinice rifuggissi ad Argo, dopo avere ucciso i suoi zii. Adrasto parimente lo ricevè, e gli diede una sua figliuola in isposa. Tidèo era bravo, ed esperto capitano, e disfece più volte Eteocle ; incontrò non ostante la morte all’assedio di Tebe. Egli fu padre del celebre Diomede, che si segnalò nella guerra di Troja.
Amfiarao famoso indovino, sposo di Erifile figliuola di Adrasto, fu anche
pressato ad armarsi : ma sapendo egli che doveva perire in questa
guerra, si ritirò dalla corte di suo cognato, e si nascose. La sola
Erifile sapeva il luogo della sua ritirata, che non tardò a scoprire
mercè di una bella collana a lei donata da Polinice. Amfiarao fu
obbligato a partire con aver però imposto al suo figlio Alcmeone, che
appena intesa la nuova di sua morte, avesse tolta di vita Erifile. Morì
egli in fatti : ed Alcmeone esegui l’ordine paterno. Ma tosto il sangue
di Erifile fu vendicato, essendo stato consegnato alle Furie l’empio
matricida, il quale per liberarsene si rifugiò a Psofi in Arcadia, per
ivi fare de’ sacrifizj colla speranza di riacquistare la perduta
tranquillità. Fegèa re del paese lo accolse, e gli diede per moglie
Alfesibea sua figlia, a cui Alcmeone donò la fatale collana. Avendola
però dopo ripudiata per Calliroe figliuola di Acheloo, chiese di nuovo
questa collana ai fratelli, che vendicarono l’affronto fatto
Capanèo è l’Eroe, che forma il soggetto del poema di Stazio intitolato la
Tebaide. Questo principe era fornito di un feroce
coraggio, ma accompagnato dalla prudenza. Sprezzava il fulmine di Giove,
che credeva incapace di offendere. Giove volle punire tale empietà, e
col fulmine appunto lo schiacciò sulle mura di Tebe, ove era salito il
primo di tutti. La sua sposa Evadne figliuola d’Ifi per lo contrario era
il modello della dolcezza. Ella non potè sopravvivere a suo marito.
Colla massima indifferenza si gettò sul rogo, ove si bruciava il
cadavere di Capanèo, e mischiò le sue ceneri con quelle del marito.
Ippomedonte, e Partenopèo ebbero poca fama, e perirono sotto le mura di Tebe.
Adrasto fu il solo, che ritornò alla patria. Del resto questa guerra fu fatale a tutti coloro, che ci avevano preso parte.
Fra i personaggi, che si segnalarono in questa celebre epoca, non
possiamo dispensarci dal nominare Tiresia famoso indovino, che per sette
anni fu donna. Suscitatasi fra Giove, e Giunone la quistione sugli
attributi de’ due sessi, fu chiamato Tiresia, che decise a favor di
Giove, e contro di Giunone. Spiacque alla Dea una tale decisione, e per
vendicarsi di Tiresia, lo privò della vista. Giove però lo compensò di
tanta perdita conpermettergli di poter leggere nel libro dell’
Dopo la morte de’ figli di Edipo, cioè Eteocle, e Polinice, Creonte fratello di Giocasta salì sul trono di Tebe, e la prima delle sue cure fu di proibire che si desse la sepoltura alle ceneri di Polinice, perchè aveva chiamati de’ forestieri per difendere i suoi dritti contro la patria ; ma Antigone non tollerando quest’ultimo insulto fatto al suo fratello, uscì di notte, e rendette al fratello gli ultimi uffizj. Ciò saputosi dal re, condannò Antigone a morte, che di sua mano precedentemente si era uccisa prevedendo lo sdegno di Creonte. Tal morte fu seguita da quella di Emone amante di Antigone, e figliuolo di Creonte : e la madre di Emone non potendo reggere al dolore parimente da se stessa si uccise. Creonte visse soltanto per sentire il peso delle sue disgrazie, e benchè regnasse sovranamente, era non pertanto considerato qual tutore di Leodamante, figliuolo di Eteocle. Giunto questi all’età della ragione, si riaccese la guerra di Tebe per opera di Adrasto, che stuzzicava i guerrieri della Grecia a vendicare le ombre de’ loro padri. Questa seconda guerra fu detta degli Epigonidi : Leodamante fu spogliato del trono, e vi ascese Tersandro figliuolo di Polinice.
Rimontiamo frattanto ai tempi eroici, per indagare l’origine della famiglia de’ Pelopidi, che figurò molto in tal’epoca. Tantalo ne fu il capo : egli era figliuolo di Giove, e della ninfa Plota, e regnava nella Frigia. Non essendo questi stato chiamato da Troe in una festa che si celebrò nella città di Troja, per vendicarsi di tale oscitanza, rapì al padre il gentile Ganimede. Ecco la prima scintilla, che produsse a suo tempo l’incendio di Troja.
Abbenchè di stirpe divina, Tantalo non fu punto attaccato all’idea della religione. Un giorno avendo accolti gli Dei in sua casa, volle mettere alla pruova la divinità, con preparar loro in un banchetto le membra di Pelope suo figlio. Fremettero di orrore gli Dei : la sola Cerere stordita dal dispiacere della rapita sua cara Proserpina, si rivolse a tali odiose vivande, e mangiò una spalla di Pelope. Con un fulmine Giove incenerì Tantalo : indi ordinò a Mercurio, che lo avesse confinato in un lago dell’inferno, incatenandolo in guisa che vedesse bensì l’acqua, ma senza poter giammai dissetarsi ; nè tampoco cavarsi la fame, mentre l’acqua gli arrivava al mento, e le frutta gli pendevano sul capo.
Tornò in vita Pelope per opra degli Dei, che in luogo della spalla
mangiata da Cerere, gliene sostituirono un’ altra di avorio. Suo padre
gli lasciò in retaggio una guerra cagionata dal ratto di Ganimede, onde
fu obbligato di abbandonare la Frigia, e ritirarsi presso Enomao re di
Elide. Questo principe aveva una figliuola chiamata Ippodamia, che
voleva maritare a condizione, che lo sposo dovesse superare al corso i
suoi cavalli, ch’erano velocissimi, perchè figli del vento. Pelope che
anelava di ottenerla, se la intese con Mirtilo auriga di Enomao, che gli
promise di spezzare l’asse che sosteneva le ruote del carro, a patto
però, che Pelope gli desse per un solo giorno Ippodamia. Ciò fatto,
Enomao si uccise in mezzo della corsa, e Pelope s’impossessò de’ suoi
stati, facendo gittare nel mare Mirtilo sotto il pretesto di vendicare
la morte di Enomao. Pelope s’impadronì del paese, che fu detto in
seguito Peloponneso, oggi la Morea.
Fra i figli di Pelope sono celebri Atrèo, e Tieste. Ad insinuazione
d’Ippodamia loro madre ammazzarono il loro fratello Crisippo nato da una
Tieste non aveva a rinfacciarsi che un solo delitto. Avendo una volta
incontrata una giovanetta in un bosco consagrato a Minerva, la violentò.
Questa era Pelopea sua figlia, che da gran tempo aveva perduta. Ella gli
strappò la spada, e la conservò. Nacque Egisto da questa violenza, che
esposto dalla madre fu allevato da’ pastori. Atrèo, seguita la morte di
Erope, sposò Pelopea che non riconosceva per sua nipote, facendo
allevare nella sua reggia anche Egisto insieme con Agamennone, e
Menelao. Tanta complicazione di errori finalmente si scoprì. Atrèo
spirando nuova vendetta, mandò Agamennone, Menelao, ed
Agamennone, e Menelao detti gli Atridi perchè figli di Atrèo, cacciati
dalla patria dopo la morte del padre, si ritirarono presso Polifide re
di Sicione, che gl’inviò ad Eneo re dell’Ecalia. Maritati entrambi per
opra di questo principe generoso alle due figliuole di Tindaro
Clitennestra, ed Elena, giurarono la vendetta di Atrèo, e perseguitarono
Tieste, che per altro non uccisero. Allora nel tempo stesso Agamennone
ascese sul trono d’Argo che trasferì a Micene, e Menelao divenne il
successore di Tindaro re di Sparta. Essi regnarono in pace, quando
Paride figliuolo di Priamo re di Troja recossi alla Grecia per reclamare
Esione sua zia, che Telamone altra volta aveva menata via sotto il regno
di Laomedonte. Il giovane ambasciadore, che spirava rapsodoRapsodi
erano detti quei, che cantavano per le piazze gli squarci de’
rinomati poeti. Tali erano quei, che in seguito cantarono i pezzi di
Omero. Molti critici, e fra questi il nostro Vico, credono, che il
poema di Omero sia composto di tanti piccioli squarci composti, e
messi insieme dai rapsodi, e che Omero non abbia
mai esistito. Quale opinione è combattuta da diversi altri critici.
Leggasi il libro della Scienza nuova dell’Autore suddetto.
Clitennestra vedutasi libera dopo la morto di Agamennone sposò Egisto, e
lo fece montar sul trono. Oreste suo figlio sarebbe stato parimente
vittima di sua madre, se Elettra sua sorella non lo avesse celato, ed
indi fatto partire per la Focide, ove regnava Strofio, che aveva in
moglie la sorella di Agamennone. Colà Oreste trovò Pilade figlio di
Strofio, ed alla parentela unì puranche la più stretta amicizia, che
divenne celebre. Dopo qualche anno volle Oreste vendicare la morte del
padre ; arrollò delle truppe, e prese congedo da Strofio insieme col
caro suo Pilade. Elettra segretamente lo fece entrare in Micene, e
sparse dei falsi rumori di sua morte. Egisto, e Clitennestra caddero
nella retc, e recatisi al tempio di Apollo per rendere grazie al nume,
entrato Oreste con i suoi soldati di propria mano ammazzò la rea coppia.
Ciò fatto, Oreste fu assalito dalle Furie, che malgrado tante espiazioni
non lo lasciarono giammai fino a che non liberò sua sorella Ifigenìa,
che languiva sotto la tirannia di Toante. Da costci fu riconosciuto in
Tauride, e nel punto di dover essere sacrificato a Diana, il suo amico
Pilade gli diede i più veraci segui della sua
Tutto questo, se si eccettuino le ultime cose, accadde prima della guerra di Troja, di cui daremo una minuta descrizione nella seguente quarta parte del presente corso di Mitologia.
L’origine di questa guerra bisogna ripeterla, al dir de’
poeti, dal Cielo. Giove sempre infedele a Giunone sentiva una forte
inclinazione per Teti figliuola di Nereo, e di Dori, che fa d’uopo
distinguere da Teti moglie dell’Oceano. Sapendo però per detto di Temi, che
il figlio che nascerebbe da Teti avanzerebbe di gran lunga la gloria di suo
padre, rinunziò di buona gana agl’impulsi del suo cuore, e maritò Teti a
Peleo figliuolo di Eaco re della Ftiotide nella Tessaglia. Achille, che
superò la gloria del padre, nacque da questa coppia.
Tali nozze furono celebrate con gran pompa. Crucciata la Discordia di non
esservi stata chiamata gittò un pomo di oro nella sala del festino, col
motto alla più bella. Ecco sorgere una briga fra Giunone,
Minerva, e Venere. Da Giove fu eretto in giudice Paride, detto anche
Alessandro,
L’ingiuria fatta a Menelao pose in rivolta tutta la Grecia, e tutti lo assicurarono di secondare la sua vendetta. Furono non pertanto inviati ambasciatori a Priamo per finir colle buone la faccenda, ma tali mezzi di riconciliazione non ebbero l’effetto desiderato, opponendo Priamo, che i Greci non avevano data alcuna soddisfazione ai Trojani, allorchè fu rapito Ganimede, come sopra si è detto. Fu quindi risoluto di farsi la guerra, e dopo lunghi preparamenti si fece in Argo la rassegna del numero de’ combattenti.
Questa bella armata radunatasi in Aulide incontrò il primo ostacolo nel mare, dove regnando una calma perfetta, non potè passare l’Ellesponto. Consultato in tale circostanza Calcante celebre indovino rispose, che la flotta non avrebbe avuto giammai favorevole il vento, se prima non si fosse placato lo sdegno di Diana contro di Agamennone, che le aveva uccisa una cerva a lei cara : questo delitto non poteva espiarsi, se non col sangue di una principessa della famiglia del reo. Mostrossi pronto Agamennone a sacrificare sua figlia Ifigenia alla collera della Dea, che placatasi dell’offerta sostituì in luogo di quella una cerva, e trasportò Ifigenia in Tauride, destinandola ad assistere ai suoi altari.
Fecero vela finalmente i Greci, e trovarono i Palladium, nella quale consisteva la salvezza della città. Ulisse,
che accorreva da per ogni dove, colla sua destrezza seppe involarla
coll’ajuto bensì di Diomede. Impedì parimente che i cavalli di Reso re della
Tracia bevessero nel fiume Xanto. Trovò anche la maniera di far venire
Telefo figliuolo di Ercole ferito da Achille con un colpo di lancia, e che
si era dichiarato nemico de’ Greci. Come questi non poteva guarire, se non
per mezzo di quella lancia medesima, il saggio re d’Itaca glie ne portò la
ruggine. Tolti di mezzo questi ostacoli, sarebbe Troja caduta prima del
tempo, se lo spirito di partito, e di divisione non fosse entrato
nell’armata : divisione appunto che forma il soggetto del divino poema del
grande Omero.
Del figliuol di Pelèo, del divo Achille Al par nell’odio, e nell’amor sublime L’opra maggior, la memorabil morte Del Trojano campion, morte che a Troja Fu d’eccidio final terribil pegno, Cantami, o Musa etc. etc. Ces. traduz. di Omero.
Nella divisione del bottino dopo la presa di Tebe spettò ad Agamennone Criseide figliuola di Crise gran sacerdote di Apollo. Si affrettò questi di venire al campo de’ Greci carico di doni per riscattare la sua figlia, che Agamennone volle onninamente tenere presso di se. Sdegnato Apollo suscitò nell’armata una fiera pestilenza. Consultato Calcante rispose, che il flagello non cesserebbe, finchè non si restituisse Criseide. A sì giusta dimanda Agamennone non volle ostinatamente condiscendere. Si destò allora un bisbiglio fra i capi dell’esercito. Achille il più risentito giunse a minacciare Agamennone, che vinto dalle premure di tutti, fu costretto a cedere la prigioniera, ma per vendicarsi spedì due araldi alla tenda di Achille, che rapirono Briscide schiava del figliuolo di Pelco, e che amava alla follìa.
Montato in furie Achille giurò di non combattere più per la Grecia, se
prima non si fossero vendicati i suoi torti. Teti fin dal fondo del mare
intese le querele di suo figlio, ed immantinente volò sull’Olimpo per
indurre Giove a punire i Greci con far vincere i Trojani, perchè ognuno
conoscesse il danno che poteva produrre alla Greca armata il riposo di
Achille. Mosso Giove ai prieghi di Teti, inviò ad Agamennone un sogno
ingannatore onde ne deduceva un esito felice, dando un assalto alla
città. Credette vero questo sogno Agamennone : tosto si sveglia, balza
dal letto,
Nel forte dell’azione Paride, cagione di questa guerra, uscito dalle file propose una pugna a corpo a corpo con Menelao per terminare così le contese. La dissida fu accettata dal momento a condizione, che il vincitore sarebbe il pacifico possessore di Elena. Ma al semplice balenar delle armi Paride ch’ era un vile cominciò a tremare, e prevedendo di dover restarci di sotto, si raccomandò alle gambe. Il poeta per palliare questa fuga l’abbellisce con dire, che Venere inviluppò in una nuvola il guerriero da lei protetto, e lo ricondusse in città. I suoi fratelli, i parenti, i Trojani tutti, e la stessa sua sposa diedero del ridicolo a questa fuga vergognosa. Pretesero giustamente i Greci l’adempimento del trattato, ma gli Dei che si erano radunati per decidere sulla sorte di Troja, vollero che l’assedio si fosse prolungato. Minerva stessa, che non sapeva perdonarla ai Trojani per il giudizio di Paride, discese sulla terra, e regolò la mano di uno de’ combattenti a lanciare una freccia diretta al re di Sparta. Il colpo arrivò leggiermente a Menelao ; ed Agamennone, spirando nuova vendetta schierò il suo esercito, e cominciò la pugna con maggior accanimento di prima.
L’invincibil Diomede, figliuolo di Tidèo, oprò prodigj in questa
battaglia. Lo spavento, e la morte camminava innanzi a suoi piedi. Egli
si rendette formidabile agli Dei medesimi. Ferì Venere, che voleva
torgli d’innanzi Enea al punto di essere sagrificato : diede altresì un
colpo a Marte Dio della guerra. Finalmente Ettore il solo de’ Trojani,
che ardì di farglisi innanzi, ritornò in città a consiglio di Eleno suo
fratello a fine di persuadere sua madre, e le matrone Trojane di recarsi
al tempio di Pallade, per pregare la Dea, che allontanasse Diomede dalla
mischia. Andromaca sua sposa per sottrarlo al pericolo, che correva, gli
presentò il piccolo Astianatte suo figlio : ma l’Eroe dopo aver
abbracciato il fanciullo, e la sposa volò di nuovo al campo, portando lo
scompiglio nelle file de’ Greci. Discende Minerva dal Cielo : Apollo,
che favoriva i Trojani, s’incontra colla Dea, ed insieme stabiliscono di
suggerire ad Ettore il progetto di chiedere una tenzone singolare col
più forte de’ Greci. Tal dimanda sgomentò i più bravi : il solo Menelao
accettò la disfida : ma nol permise Agamennone. Finalmente nove
guerrieri animati dal saggio, e vecchio Nestore si fecero innanzi, e
gittarono i loro nomi in un elmo : cadde la sorte sopra di Ajace
figliuolo di Telamone. Corre questi alla pugna, che malgrado terribile,
restò dubbia.
Gli Dei, che avevano preso grandissimo interesse per questa guerra, furono convocati nell’Olimpo, e Giove ordinò, che nessuno avesse sposato partito per l’una, e per l’altra parte : indi montò sul suo carro, e si diresse sul monte Ida.
Disperando intanto Agamennone di poter sottoporre i Trojani, pensò di sciogliere l’assedio : ma i Greci tutti credendo ciò una viltà, furono di contrario avviso. Ciascun diceva essere miglior consiglio di persuadere ad Achille di tornare, e fargli presente quanto fosse necessario il suo braccio. Ne fu dato l’incarico ad Ulisse, ed Ajace, che partirono all’istante. Ulisse procurò d’interessare Achille a favore della Grecia con fargli conoscere quanto potrebbe giovare il suo valore : che la sua collera finalmente doveva aver fine, e gli promise da parte di Agamennone dieci talenti di oro, venti vasi dello stesso metallo, sette tripodi, altrettante donzelle di Lesbo, e quel ch’era più, la sua cara Briseide. Queste grandiose promesse, accompagnate dall’eloquenza di Ulisse, furono inutili : Achille fu inflessibile.
Nel dì seguente le due armate si schierarono in ordine di battaglia. Ma
Giove, che voleva donare la vittoria ai Trojani, inviò Iride ad
Mentre Giove dal Monte Ida proteggeva i Trojani, Giunone per l’opposto implacabile cercava tutt’i mezzi, come distruggerli. Ella dimandò a Venere una zona, o sia cintura, che aveva la proprietà di aggiungere nuovi vezzi, e maggior pregio alla bellezza, e rendeva amabile quella Dea che la portava. Giove non potè resistere a tale incantesimo : dimenticò i Trojani, e corse fra le braccia della sua sposa, dove tranquillamente fu preso dal sonno. Dormiva Giove, ma vegliava Nettuno a danno de’ Trojani, che furono posti in fuga, allorchè Giove si svegliò. Accortosi del cambiamento per arte di sua moglie, la rimproverò fortemente : ma riuscì a Giunone di placarlo prima di partire.
Vedendo Giove il bisogno di aiutar Priamo, spedisce Iride a Nettuno con
ordine di ritirarsi, e nel tempo stesso comanda ad Apollo di recarsi al
padiglione di Ettore ferito da Ajace figliuolo di Telamone. L’Eroe erasi
già ristabilito, e questo Dio gl’ispirò un coraggio quasi divino.
Patroclo intanto vedendo minacciata la flotta corse ad implorare l’ajuto di Achille : lo scongiurò a prendere le armi : ma tutto fu inutile. Gli permise soltanto di servirsi delle armi, e de suoi soldati a condizione però di niente intraprendere all’infuori della difesa della flotta. Vestito Patroclo delle armi di Achille, e seguito da’ Tessali si gitta in mezzo ai nemici, che credendolo il figlio di Peleo, si danno alla fuga. Superbo pel terrore che spargeva, e per la morte data a Sarpedone re della Licia, obbliò l’ordine del suo amico : più voleva inoltrarsi, ma Apollo si oppose ai suoi progressi. Questo Dio per la terza volta spinse Ettore a combattere, che venuto a battaglia con Patroclo, dopo un’ ostinata tenzone, l’uccise. Patroclo nel cadere gli predisse la sua morte per mano di Achille. Ettore si burlò del presagio, e lo spogliò delle sue armi.
Appena che giunse a notizia di Achille la morte di Patroclo, il suo
dolore non ebbe limiti. La sentì sì vivamente che l’avrebbe vendicata
all’istante, se avesse avute le sue armi. Assisa al fianco
Impaziente Achille di sfogare la sua rabbia col sangue de’ Trojani,
appena diede tempo ai Greci di prendere il necessario riposo. Fu deciso
di darsi una nuova battaglia, e’ gli Dei stessi fra loro si attaccarono.
Achille intanto immolava all’ombra del suo amico estinto chiunque gli si
opponeva : ma queste vittime erano per lui volgari : anelava di versare
tutto il sangue di Ettore. S’incontrarono alla fine i due guerrieri, e
insieme si azzuffarono. Era tanto fiera, ed ostinata la pugna, che gli
stessi Numi erano ondeggianti per chi si decidesse la vittoria. Achille
finalmente la vinse, e la trista rimembranza del suo amico perduto lo
rendette inesorabile fino alla ferocia : negò allo spirante nemico fino
la consolazione di sapere, se la sua spoglia mortale si recasse
all’afflitto padre. Il barbaro legò il cadavere al suo carro, e lo
trascinò intorno le mura della città.
La prima cura di Achille fu d’innalzare un rogo alla riva del mare, sopra del quale fece collocare il corpo del suo amico, e vi appiccò il fuoco. Indi recise la sua bella chioma, che divenne preda delle fiamme : volle inoltre, che quattro de’ suoi più belli cavalli con alcuni cani fossero gittati nel fuoco, chiudendo la cerimonia con immolare dodici prigionieri Trojani scelti dai più valorosi, ed appartenenti alle famiglie più distinte. Poichè il fuoco consumò tutto, furono raccolte le ceneri, e rinchiuse entro di un’ urna d’oro, e portate nel padiglione di Achille. Per celebrare ancora con maggior pompa la memoria dell’estinto amico, Achille intimò de’ giuochi, e de’ combattimenti, facendo preparar premj grandissimi, ed adattati ad eccitare l’emulazione.
Tutto questo non bastò a soddisfare la collera di Achille. Per lo spazio
di nove giorni trascinò tre volte il mattino il cadavere del suo nemico,
che Apollo covrì col suo scudo per non farlo corrompere. Finalmente si
contentò di cederlo al vecchio Priamo, che in persona era venuto
Ecco il contenuto dell’Iliade. Omero non ci dice in questo poema in qual maniera fu presa Troja, contento soltanto di aver descritto gli effetti dell’ira di Achille. Si accenna nell’Odissea la distruzione di quest’ infelice città, e l’artifizio che usarono i Greci per rendersene padroni.
Achille morì per mano del più vigliacco de’ figliuoli di Priamo.
Quest’Eroe divenne amante di Polissena figliuola di Priamo, che aveva
veduta sulle mura di Troja. La chiedette a suo padre con promessa di
rivolgere le sue armi a difesa degli stati di questo re. Priamo accettò
l’offerta ; ma nel punto che tali nozze si celebravano, da Paride fu
lanciata una freccia, che Apollo diresse al calcagno di Achille. Era
questa la sola parte del suo corpo soggetta ad essere ferita, poichè
Teti sua madre lo aveva tuffato nelle acque del fiume Stige per renderlo
invulnerabile : il solo tallone, per il quale lo teneva, non fu bagnato
da quest’acque salutari. È inutile quì notare, che Omero non abbia fatta
menzione di tale favola : il suo Eroe sarebbe stato meno grande, se lo
avesse dipinto fornito di un tal dono. I poeti che scrissero dopo di
Fu un punto stesso l’esser ferito, e morire il figliuolo di Peleo. I Greci per potergli fare gli onori della sepoltura, furono obbligati a fare altrettanto che fece Priamo per avere il corpo di Ettore. Pel corso di dieciassette giorni furono celebrate l’esequie coll’intervento di Teti, e delle Nereidi. A lui fu eretta una superba tomba sulle rive dell’Ellesponto presso il promontorio Sigèo. Presa Troja, Pirro suo figlio immolò sulla sua tomba Polissena, innocente cagione della morte di quest’Eroe. Ajace figliuolo di Telamone, ed Ulisse si contrastarono le sue armi al cospetto di tutta l’armata : ma questa volle che si dessero ad Ulisse. Ajace ne fu tanto indispettito, che giunse a massacrare una moltitudine di porci, credendo di sacrificare Agamennone con tutt’i Greci. Ritornato in se, n’ebbe tanta vergogna, che si diede da se stesso la morte, ed indi fu cangiato in un fiore.
L’Iliade di Omero ci ha presentate delle sanguinose battaglie, e degli
Eroi, che diedero pruove non equivoche del più sublime coraggio. Abbiamo
osservato in persona di Achille un esempio funesto delle umane passioni.
L’orgoglio, e la collera indussero questo Eroe a far
L’ Odissèa, di cui ci accingiamo a fare l’analisi, racchiude la storia de’ viaggi di un Eroe, la cui prudenza e saviezza abbiamo già ammirata. Questo poema ci offre de’ quadri ben diversi, ma preziosi, ed interessanti per la società. Vedremo Ulisse senza perdersi di coraggio far fronte ai perigli, ed alle disgrazie, e trar profitto da suoi lunghi, e penosi viaggi.
Dic mihi, Musa, virum captae post tempora Trajae
Qui mores hominum multorum vidit, et urbes.
Traduce così Orazio il principio di questo secondo parto di Omero.
Ulisse partì alla volta della Grecia dopo la presa di Troja : ma ritenuto
da Calipso nell’isola di Ogigia, ove regnava, aveva quasi perduto la
speranza di ritornare ad Itaca sua patria. Bramava Calipso di divenire
sua sposa : ma questo principe stancava gli Dei, pregandoli di fargli
rivedere la sua cara
Lascia quì il poeta questo giovanetto principe a Sparta, e per far passare i leggitori da un luogo all’altro, espone quel che accadeva nel Cielo.
Conoscendo Giove, che si accostava il giorno fissato dal Destino, in cui Ulisse doveva uscire dall’isola di Calipso, spicca Mercurio a questa ninfa coll’intimazione di lasciarlo partire. Convenne ubbidire, il figliuolo di Laerte si aveva già costruito un battello : lo ascende, e si dà tosto in balìa del mare. Per il corso di dieciassette giorni la sua navigazione fu felice con avere approdato all’isola de’ Feaci : ma Nettuno sempre a lui contrario suscita una burrasca cotanto furiosa, che il naviglio di Ulisse ne resta fracassato, ed egli stesso resta seppellito negli abissi dell’oceano. Non si perde l’Eroe di coraggio : in preda del pericolo comparisce sulla superficie del mare, ed abbracciandosi ad un piccolo avanzo del suo naviglio, stretto a quello si tiene, errando a discrezione dell’onda furiosa.
Ino di fresco ammessa fralle divinità del mare viene a soccorrerlo : lo
consiglia di andare a nuoto nell’isola de’ Feaci, dove ritroverà la sua
salvezza : gli dà un velo, che lo garantisce da ogui periglio, con
ordine di gittarlo nel mare allorchè avrà afferrato il lido. Ulisse
ubbidisce, e dopo dieci giorni, ed altrettante notti di fatica, e di
timori arriva all’imboccatura di un fiume, e prende terra alla fine.
Fuor di pericolo, ma nudo si veste di secche foglie di alberi, e si
mette placidamente a dormire. Minerva intanto sempre intenta a
proteggerlo corre a
Il dì seguente il buon re Alcinoo raduna l’assemblea de’ grandi del
Regno : loro presenta il suo ospite : espone la di lui trista
situazione, e li dispose a fargli de’ doni proporzionati alle loro
ricchezze. Tal dimanda è bene accolta. All’istante si danno le
disposizioni per allestire un vascello, che debba condurlo alla patria :
un’ecatombe
Dopo la presa di Troja, egli con i suoi compagni si pose alla vela, e
sbattuto da una tempesta approdò alle Coste de’ Ciconi dove fece un gran
bottino. Se ne vendicarono ben tosto questi popoli, uccidendo sei uomini
per ogni vascello. Scappato dalle loro mani dopo una pugna sanguinosa,
uscì di strada per la seconda fiata con averlo il vento sbalzato ai liti
de’ Lotofagi nell’Africa. Ivi fu maggiore il pericolo : gli abitanti
offrirono a suoi compagni il lotoNessuno mi ha ferito,
ripigliò PolifemoUtis, voce
Greca indicante Nessuno.
La flotta spiegò le vele verso l’isola Eolia, dove regnava Eolo re de’ venti : Volendo questi favorire la navigazione di Ulisse, dopo avergli fatto una gentile accoglienza, ordinò, che tutt’i venti si fossero rinchiusi in un otre, con lasciare in libertà il solo Zefiro. Erano già a vista d’Itaca : si vedevano oramai torreggiare i palagi di quest’isola, quando i socj di Ulisse, credendo che in quell’otre si conservasse qualche sorta di vino prezioso, lo aprirono. All’istante scapparono fuori tutt’i venti che posero in iscompiglio le onde, e suscitarono una fiera tempesta.
La nave sbalzata quà, e là a discrezione dell’onde, si diresse alla fin
fine verso il paese dei Lestrigoni, popoli che si dilettavano di mangiar
la carne umana, ed in fatti furono divorati due I Fenicj primi abitatori di Napoli, il quale sostiene, che
quasi tutta la navigazione di Ulisse si aggirò nel seno di
Baja.
Circe lo aveva altresì avvertito a non toccare i bovi, che faceva pascere la bella Lampezia in un’isola consacrata al Sole presso le coste della Sicilia. I suoi compagni nella sua assenza sagrilegamente ne rubarono alcuni. Lo sdegno degli Dei si manifestò all’istante : le carni de’ bovi scannati muggivano sopra le braci, e le pelli da per se si stendevano. Un tale prodigio li spaventò in modo, che sen fuggirono alle navi : ma la collera degli Dei colà li raggiunse. Un fiero temporale pose le onde in sconquasso, e tutta la flotta fu subissata : Ulisse soltanto si salvò con essersi abbracciato ad un albero della nave. Le onde lo portarono all’isola di Ogigia, come si è detto, dove regnava, la vaga Calipso, sovrana dell’isola.
Questo fu il contenuto della narrativa di Ulisse, che Alcinoo, ed i Feaci ascoltarono con ammirazione. Essi riconobbero in lui un Eroe favorito dal Cielo. Ognuno fece a gara per offrirgli un dono corrispondente al suo rango, come pure fu allestito un naviglio ben equipaggiato per condurlo alla patria.
La navigazione fu felice : il dì seguente furono a vista d’Itaca.
Allorchè il vascello vi abbordò Ulisse placidamente dormiva : i marinari
non, vollero per rispetto destarlo, e lasciatolo sopra
Nel dì vegnente questa principessa promette di dar la sua mano a chi meglio sapesse maneggiare l’arco di Ulisse. Tutt’i pretendenti sono radunati, non escluso lo stesso Telemaco, ma inutilmente si affaticano per tendere quest’areo maraviglioso. Ulisse parimente si fa innanzi : i principi danno del ridicolo alla di lui pretenzione, e non gli permettono d’impugnar l’arco, se non a forza degli ordini di Penelope. L’Eroe prende l’arco, lo carica di una freccia, e la fa passare per dodici anelli attaccati ad altrettante colonne. Questo era il segnale convenuto con Telemaco, che avvicinatosi a lui snuda la sua spada, e piomba sopra ai persecutori di Penelope. In un istante le strade sono inondate dal sangue di questi perfidi, e da quello dei loro aderenti.
I sudditi che attendevano con impazienza il ritorno del re, fanno risuonare la reggia delle loro grida : va l’avviso a Penelope, che Ulisse è in Itaca : egli viene riconosciuto, e corre da suo padre Laerte, che piangeva la perdita di un figlio, che credeva di non mai più rivedere. Restituito Ulisse a suoi stati, vi stabilì la pace, e fece fiorire le arti, e la tranquillità nel suo regno.
Virgilio ad imitazione di Omero ha cantato i viaggi, e le imprese guerriere di Enea, figliuolo di Venere, e di Anchise. Questo poeta Latino nell’Eneide ha imitato le bellezze dell’Iliade, e dell’Odissea : il suo protagonista va errante come Ulisse, ed all’occasione è coraggioso, quanto Achille. L’oggetto che si ha prefisso Virgilio, è quello di dare una origine illustre ai Romani, facendoli discendere da un principe Trojano. L’eroe da lui scelto non occupa un posto luminoso nell’Iliade : ma fa grande comparsa nell’Eneide, dove Virgilio ce lo dipinge in qualità di un uomo pietoso, saggio, e valoroso. Seguiamolo pertanto.
Era memore ancora Giunone del giudizio di Paride, e voleva perseguitare
gli avanzi di Troja scappati dal ferro de’ Greci. Col veleno nel cuore
discese nell’Eolia, e scongiurò il re de’ venti perchè avesse posto il
mare in iscompiglio, ed avesse ingojato i vascelli del figliuolo di
Venere. Eolo ubbidisce, ed all’istante una terribile burrasca si alza
dal profondo degli abissi del mare : una porzione della flotta si
separa, e sarebbe sicuramente perita, se Nettuno sorpreso da tanto
tumulto che regnava nel suo impero, non fusse uscito dall’umida sua
reggia, ordinando ai venti di rientrare nelle proprie caverne. Enea che
In questo mentre Venere si dà moto per suo figlio : si presenta a Giove,
e gli rammenta le promesse fatte in di lui favore. Questo Dio le
rinnova, ed assicura Venere, che il suo figliuolo arriverà felicemente
in Italia, ove la sua discendenza regnerebbe per lungo tempo. Spedisce
intanto Mercurio a Didone regina di Cartagine per indurla a bene
accogliere il principe Trojano. Venere intanto discesa dall’Olimpo
avvisa Enea, che i suoi vascelli sono salvi, menochè un solo, in un
porto vicino, indi dopo averlo coverto per mezzo di una nuvola per
involarlo alla vista di tutti, gli ordina di recarsi a Cartagine.
Seguito dal suo fedele Acate s’incamina l’Eroe verso Cartagine, e
coverto da un velo che lo rende invisibile, si approssima alla bella
Didone detta anche Elisa
« Stanchi i Principi della Grecia, Enea imprese a dire, di anni dieci di assedio, che li teneva lontani dalla patria, escogitarono uno stratagemma per sorprendere Troja. Costruirono un cavallo di legno di straordinaria grandezza, e rinchiusero nel di lui fianco i più accreditati guerrieri. Indi fingendo di sciogliere l’assedio si nascosero dietro l’isola di Tenedo.
Credendo allora i Trojani di essere sicuri corrono a vedere questo smisurato cavallo, che i Greci lasciarono nel sito dove stavano
accampati. Varj sono i sentimenti sopra questa macchina immensa : alcuni pretendono che si butti nel mare : altri che ci si attacchi il fuoco : taluni la vogliono introdurre nella città. Laocoonte sacerdote di Nettuno è di avviso che si abbatta questo mostruoso cavallo, ed egli stesso lancia un dardo nel fianco di quello. Arrestano intanto i Trojani un giovine Greco per nome Sinone, che andava errando. Quest’impostore inganna i Trojani con un falso racconto, dicendo, esser egli l’odio de’ Greci : soggiunge, che il cavallo di legno è un’offerta fatta a Minerva prima di partire per placarla : di più li consiglia ad introdurre questo colosso nella città, che conservando un tal pegno, sarebbe sotto la protezione della Dea, e diventerebbe inespugnabile. Mentre ondeggiavano i Trojani, un avvenimento terribile interamente li determinò. Laocoonte che aveva scagliata la sua asta contro del cavallo, stando in atto di fare un sagrifizio a Nettuno, fu assalito da due grossi serpenti, che uscirono dal mare. Questi rettili prodigiosi si attorcigliarono al corpo de’ due figli di Laocoonte, e si avviticchiarono sopra di lui medesimo, ch’era venuto per soccorrerli. Ciò credettero i Trojani un segno manifesto della collera degli Dei, che gradivano le offerte de’ Greci. Quindi ognun crede al perfido Sinone : si abbatte un’ ala delle mura, e s’introduce a forza di uomini il cavallo
fatale nella città : indi ciascuno si ritira, e pieni di sicurezza si danno in preda ai piaceri della mensa. Intanto al far della notte i Greci s’incaminano colla flotta verso Troja : sbarcano le truppe, penetrano nella città per la breccia dianzi aperta. Lo scellerato Sinone avendo aperto il fianco del cavallo, ne fa uscire gli armati ivi nascosti ; in un istante l’infelice città è piena di soldati, che portano da per tutto il ferro, il fuoco, e la desolazione.
Durante un tale disordine una gran parte degli abitanti tranquillamente dormiva : dormiva parimente Enea. Ettore gli apparisce in sogno, lo avverte dell’arrivo de’ Greci, e di essere oramai giunto l’esterminio di Troja. Enea vuol morire colle armi alla mano, ed alla testa di pochi suoi amici attacca quanti Greci incontra. Ma i suoi essendosi serviti delle armi stesse tolte ai nemici nella mischia, restano nel tempo istesso inviluppati fra i Greci, e fra i concittadini, che non li riconoscono. Corre pertanto Enea in soccorso di Priamo, assediato nel suo palazzo da Pirro, che ivi l’uccide con quanti a lui si presentano.
Non avendo potuto Enea salvare la vita del vecchio re, si affretta per la difesa della sua sposa Creusa, del figlio suo, e di Anchise suo padre. Presi gli Dei Penati, che diede in mano di
Anchise, si accolla questo vecchio rispettabile sulle sue spalle, traversa l’incendiata città col disegno di ritirarsi sul monte Ida. Fuori le porte inseguito dai Greci perde Creuso. Col favore delle fiamme ritorna colla speranza di rinvenirla, ma gli apparve l’ombra soltanto della sposa morta nell’incendio, che lo consiglia a fuggire, con predirgli ch’egli anderebbe lungo tempo ramingo, ma sarebbe finalmente felice in Italia : così disse, e sparì. Ritornato al luogo dove aveva lasciato Anchise, ed Ascanio suo figlio con tutti quelli che avevano abbracciata la stessa sua sorte, Enea forma il progetto di andare in cerca di quella terra che il Destino gli prometteva. Fa costruire all’infretta una flotta con alberi tagliati sul monte Ida, e si scosta dai patrj lidi con venti legni. Dopo di essersi fermato nella Tracia, in Delo, in Creta, nelle Strofadi, a Leucade, aborda finalmente a Trapani nella Sicilia, dove regnava Alceste Principe Trojano : ivi morì il vecchio suo padre Anchise. Trapani fu il termine de’ suoi viaggi, allorchè volendo di là far vela per l’Italia, un Dio tutelare l’aveva condotto nell’impero di Didone. »
Avendo Enea dato fine al suo racconto, si ritira negli appartamenti che
gli aveva assegnati la regina. Rapita intanto Didone dalla virtù di
Enea, confessa la sua inclinazione ad Anna sua
Ma Giove, che aveva riserbato quest’Eroe a più sublimi imprese, gli spedisce Mercurio che lo persuade ad abbandonare Cartagine. Docile Enea agli ordini del Sovrano degli Dei, si dispone alla partenza, e fa preparare segretamente la flotta. Penetra Didone il di lui disegno : lo rimprovera, e si duole di sì barbaro tradimento. Cerca Enea di scusarsi, ma nel tempo stesso dispone il tutto per la partenza, e col favore della notte scioglie le vele da un lido, dove era stato accolto con tanta cortesia.
Accortasi del tradimento Didone monta il piano di una loggia a vista
delle fuggenti vele : carica l’ingrato Enea di maledizioni, che dopo
molti socoli si verificarono fra i Cartaginesi, ed i Romani, e non
potendo resistere al dolore risolve di darsi la morte. Fingendo di
volere fare un sagrificio agli Dei dell’inferno, innalza un rogo : lo
ascende, e si ammazza con quella spada medesima che aveva donata ad
Enea, e che colà aveva questi lasciata. Accorre Anna
Enea intanto sopraffatto da una burrasca fu costretto a fermarsi in Trapani, ove da un anno era morto il vecchio suo padre Anchise, in onore del quale fece celebrare de’ giuochi dopo avere adempiuto alle funebri cerimonie. Stanche le donne Trojane dalla navigazione, e temendo d’incontrare nuovi pericoli, ad insinuazione d’Iride inviata da Giunone sotto l’aspetto di una vecchia, appiccarono il fuoco alle navi. La flotta sarebbe divenuta preda delle fiamme, se Giove non avesse fatta a tempo cadere una pioggia abbondante : quattro soli vascelli non pertanto furono bruciati.
Nella seguente notte apparve in sogno ad Enea l’ombra di Anchise, che lo
consigliò a lasciare in Trapani i vecchi, e le donne, ed a condur seco
soltanto gli uomini d’armi. Gl’insinuò parimente di portarsi a Cuma per
consultar la Sibilla, che lo avrebbe condotto all’inferno. Eseguì a
puntino Enea gli ordini di Anchise. Arrivato a Cuma, recossi all’antro
della Sibilla Deifobe, che gli predisse quanto doveva accadergli
nell’Italia prima di fondare una città. Indi gli ordinò di penetrare in
una oscura foresta, dove avrebbe ritrovata una pianta, che aveva un
ramicello, senza del quale non avrebbe potuto
Ritornato sulla terra il figliuolo di Venere, levò l’ancora, dirigendo la
sua flotta verso l’imboccatura del Tevere. Il Re Latino regnava in
questa contrada. Una sua figliuola unica, che l’Oracolo destinava in
isposa a questo principe straniero, era l’erede de’ suoi stati ; Amata
sua madre, ad onta dell’Oracolo, l’aveva promessa a Turno Re de’ Rutuli.
In tale occasione spedì Enea i suoi ambasciadori al Re Latino, per fare
alleanza col medesimo. Questo re non solamente gentilmente accolse i
deputati ; ma loro promise dippiù, cioè che Enea sarebbe divenuto suo
genero. Piccata Giunone de’ fortunati successi di questo principe, si
affrettò ad interromperne il corso, facendo uscire dall’inferno Aletto :
inviò questa furia alla reggia d’Amata, ispirandole il progetto di
nascondere sua figlia Lavinia in seno delle vicine montagne : di là la
Furia passò alla corte di Turno, lo stimola a prendere le armi col nerbo
de’ suoi soldati. I principi vicini prendono parimente lo armi contro
Enea, il quale
La guerra cominciò, e fu ben lunga. Giove affidò tutto l’affare in mano
del destino, e i due partiti stanchi dai disagi della guerra, proposero
una pugna a corpo a corpo fra i due principali rivali. La disfida fu
accettata con solenne giuramento. Enea, e Turno si avanzano in mezzo
dell’armata schierata in ordine di battaglia, e con pari accanimento si
azzuffano. Restò Turno perditore, e terminò così una guerra, che mettea
sossopra l’Italia intera Non appartiene a
noi di fare il paragone fra Omero, e Virgilio. Un’ infinità di
critici si sono occupati di questo argomento, e pende tuttavia
incerta la lite, a chi di questi due valenti uomini debba darsi
il primo luogo. Basta a noi dire che Virgilio sulle orme di
Omero ha lavorato il divino suo poema, che malgrado varj
difetti, non lascia di essere uno de’ migliori squarci che
l’antichità ci ha tramandati : tanta è la delicatezza del gusto
che in esso si ravvisa. Virgilio nacque in un villaggio presso
Mantova : visse gran tempo nella Corte di Augusto, principe che
amava a maggior segno i letterati. Fu grande amico di Orazio, di
Tucca, Vario, Mecenate, Pollione, e di tanti altri insigni
personaggi, e poeti, che in quell’età fiorirono. Ritornando da
Atene con Augusto, si ammalò in Brindisi : prima di morire
ordinò, che si desse alle fiamme la sua Eneide, che non aveva
ancora limata, ma nol permise Augusto. Il suo cadavere fu
trasferito a Napoli allora città fioritissima Greca, e che
Virgilio amava moltissimo. Quivi aveva dato l’ultima mano alla
sue Georgiche, giacchè volentieri vi si tratteneva come egli
stesso ci assicura : Fu seppellito (per quanto si dice) sulla grotta di Coccejo
volgarmente detta di Pozzuoli, in una tomba, che ancora oggi si
vede. Poco prima di morire compose egli stesso il seguente
distico da apporsi sul tumulo :
Comecchè le seguenti favole non abbiano un interesse immediato colla
religione, nè tampoco contengano avvenimenti che possano illustrare la
storia de’ tempi eroici, come la guerra di Tebe, l’incendio di Troja,
ecc., è necessario nondimeno di formarne un’ idea per aver piena
cognizione della mitologìa. Queste favole inventate
Giove, e Mercurio erano discesi dal Cielo per viaggiare sulla terra.
Essi arrivarono sconosciuti nelle campagne della Frigia, chiedendo
ospitalità agli uomini, che dapertutto loro la negarono. Bauci, e
Filemone abitavano in una meschina capanna coperta di giunchi, dove
appena si trovava una tavola di legno, che ne formava tutto
l’addobbo. Furono questi intanto i soli, che accolsero il sovrano
degli Dei, e Mercurio, con preparar loro una mensa assai frugale,
non permettendo Giove che ammazzassero un’ oca, ch’ era tutta la
loro ricchezza. Gl’immortali viandanti nel di vegnente per punire
gli abitanti del paese, e per mostrare il loro potere a chi gli
aveva alloggiati, li conducono alla cima di una montagna con far
loro vedere tutto il villaggio sommerso, e gli abitatori in preda
dell’acqua, all’infuori della capanna, che gli aveva accolti, che fu
cangiata in un tempio magnifico. Bauci, e Filemone pieni di
riconoscenza dimandarono in grazia di essere i sacerdoti di questo
tempio, e di morire in un
Piramo, e Tisbe erano due amanti : ma i rispettivi parenti, che
appartenevano a due principali famiglie di Tebe, per antica
nimicizia non erano di accordo. Quindi non potendosi i due amanti
accoppiare con i nodi d’imeneo, pensarono di fuggire dalla patria, e
stabilirsi in un paese lontano. Fermi nel loro proposito si diedero
un appuntamento in un sito, dove stava un moro biance. Tisbe partì
la prima : mentre aspettava la sua cara metà, si avvide, che un
lione se le avvicinava : quindi fuggì, ma nella fuga le cadde un
velo, che preso dal lione, dopo averlo lacerato, lo intrise di
sangue della sua gola. Sopraggiunto Piramo, vide questo velo, e
credendo che Tisbe fosse stata la vittima di qualche belva, con un
pugnale si diede la morte. Non tardò a colà far ritorno la
sfortunata Tisbe, che ritrovò sotto la pianta del moro l’infelice
Piramo, che spirava l’ultimo fiato. Sospettando la vera cagione del
funesto avvenimento, egualmente
Il ruvido Ciclope Polifemo amava alla follìa la bella Galatea, una delle tante figliuole di Nereo. Assiso sulla riva del mare, ad alta voce la chiamava, pregandola di venir fuori dalle onde. Ma il povero Ciclope non era corrisposto : la sua figura gigantesca, un solo occhio sulla fronte spaventavano anzi che no questa ninfa. Inutilmente si ornava il crine, e si radeva la barba. Galatea era sorda, malgrado che non fosse insensibile. Ella amava Aci figliuolo di Fauno. Sorprese un giorno Polifemo la bella coppia a piedi di una roccia. Galatea ebbe tempo di tuffarsi nell’onde : ma Aci ebbe la sventura di essere schiacciato da un gran sasso, che il Ciclope gli scagliò. Inconsolabile la ninfa, pregò gli Dei, ed il sangue di Aci diede la nascita ad un fiume che fu chiamato Aci dal nome del pastorello.
Driope ninfa di Arcadia, e sposa di Andremone strappò alcuni rami di
una pianta detta Loto, per darne a mangiare le frutta a suo figlio.
Pigmalione fu uno scultore abilissimo. Formò una statua bellissima, e pregò Venere che l’avesse animata. I suoi voti furono esauditi : il marmo si ammollì, e diventò carne. Pigmalione la sposò, e da questa coppia nacque Pafo, che fabbricò la città di Pafo nell’isola di Cipro.
Era tanta la miseria di un abitante di Festo in Creta chiamato Ligda,
che fece sentire a sua moglie Teletusa, allora incinta, che se desse
alla luce una femmina, avrebbe data la morte alla bambina, se per
l’opposto un maschio, lo avrebbe allevato, perchè a suo tempo
avrebbe potuto sollevare i genitori dall’indigenza. Teletusa non
potendo resistere a tanta crudeltà, si raccomandò alla Dea Iside,
che le ispirò il progetto di allevare la bambina sotto spoglie
maschili. Così fece la povera madre, ma stava per iscoprirsi il
segreto
Ero, e Leandro perdutamente si amavano, benchè separati fra loro dall’Ellesponto. Leandro abitava in Sesto, ed Ero in Abido sull’opposta riva. Questo non impediva che gli amanti non fossero sovente insieme. Leandro ogni notte traversava a nuoto lo stretto alla vista di un fanale, ch’ Ero accendeva su di una torre. Leandro aveva acquistato la superiorità sul mare ; ma una notte sorta all’improvviso una fiera tempesta, divenne preda dell’infido elemento. Avendo il mattino osservato Ero il cadavere di Leandro dal mare gittato sul lido, vinta dal dolore non gli volle sopravvivere, gittandosi ancor essa nel mare.
Era Cidippe una delle più belle di Delo. Aconzio la vide nel tempio
di Diana, e la chiedette per isposa ai suoi parenti : ma si oppose
Cidippe a queste nozze. Aconzio ricorse ad uno stratagemma. Gittò
nel tempio una palla, dove era scritto :
. Cidippe prese quella palla, e
lesse il giuramento. Allorchè questa giovane era sul punto di
maritarsi, era sorpresa da una febbre violenta, finchè i suoi
parenti si determinarono di darla a Aconzio.io
giuro per Diana di essere la sposa di Aconzio
Amava Ifi inutilmente Anassarte, figliuolo di un ricco abitante di Cipro. Legò una notte Ifi alla porta di Anassarte una corda, e con quella per disperazione si strangolò. Il dimani niente curando Anassarte il tragico fine dell’amante, volle vederne l’esequie dalla sua finestra. Ma gli Dei punirono tanta insensibilità, la cangiarono in pietra, simbolo della durezza del suo cuore.
Calliroe donzella di Calidonia non volle giammai corrispondere
all’inclinazione, che aveva per lei Coreso sacerdote di Bacco, che
vendicò il suo ministro con far sorgere una malattia in Calidonia,
la quale prima alterava la fantasia, indi rendeva furiosi tutti gli
abitanti. Fu consultato l’oracolo : la risposta fu, che il malore
cesserebbe, quando si fosse sacrificata a Bacco una vittima umana,
ed in mancanza di questa la stessa Calliroc. Nessuno ebbe la voglia
di morire, onde
Questi due giovani, figliuoli di una sacerdotessa di Argo, sono l’esempio dell’amor filiale. Essi trascinarono il carro dov’era la loro madre, che si recava al tempio. Gli Dei per compensarli, ed esaudire nel tempo istesso la madre, che li supplicava a renderli felici, li fecero all’istante morire insieme, non potendo gli Dei renderli abbastanza contenti sulla terra.
In compenso di essere stata amata Ceneo da Nettuno, ottenne in grazia di essere cangiata in uomo, e colla proprietà di essere invulnerabile. Perì questa ninfa nella guerra de’ Centauri, e de’ Lapiti, i quali non potendola ferire strapparono degli alberi, e la fecero morire soffogata. Da tanti legni ammonticchiati ne nacque un uccello.
Ceice re di Trachinia nella Tessaglia morì naufragato, mentre andava a consultare l’oracolo di Apollo a Claro. Alcione sua moglie, che teneramente lo amava, stavalo attendendo con impazienza, ma Giunone in sogno le fece intendere la disgrazia di suo marito. Spaventata la misera Alcione del sinistro presagio, corse forsennata al lido, e restò convinta della verità, vedendo il cadavere dello sposo gittato dal mare sulla riva. Al momento che si accostava, si avvide di avere sul dorso le ali, che la sostenevano all’aria, essendo stata cangiata in uccello. Ceice ancor esso fu trasformato in uccello, ed entrambi ebbero il nome di Alcioni. Dicono i poeti che questi uccelli fanno il loro nido nel mare, che sta in calma, durante il tempo che lo formano, e ne nascono i figli.
L’Aurora non contenta di aver amato Titono figliuolo di Laomedonte,
volle altresì trasportarlo nel cielo, con dirgli che avesse
dimandato quanto sapeva desiderare. Titono chiedette una vita
lunghissima, ma non avendo avuta l’accortezza di domandar benanche
una perpetua gioventù
Deifobe figliuola di Glauco, e Sibilla di Cuma ebbe presso a poco la medesima sorte di Titono. Ella fu amata da Apollo, al quale dimandò di poter vivere tanti anni, per quanti granellini di arena poteva stringere in mano sua. Il Nume la esaudì. Divenne tanto vecchia, che appena le restò la voce.
L’Aurora avendo concepito una forte inclinazione per Cefalo figliuolo
di Mercurio, e di Ersete lo trasportò nel suo carro mentre era alla
caccia, facendo di tutto per fargli dimenticare Procri sua sposa. Ma
fu vano qualunque tentativo : quindi dovette rimandarlo con dirgli,
che un giorno si pentirebbe di tanta poca sua sensibilità. Tal
minaccia fece diventar Cefalo geloso, e sospettoso. Travestito volle
mettere a pruova la fedeltà di sua moglie, che per vergogna sen
fuggì fra le selve. Cefalo che non poteva vivere lontano da Procri,
la richiamò con premura. Al suo ritorno ella diede in dono a suo
marito un cane
Tereo figliuolo di Marte sposò Progne figlia di Pandione re di Atene,
e la condusse nella Tracia, ov’egli regnava. Aveva Progne lasciata
nella casa paterna una sorella per nome Filomela, che amava colla
massima tenerezza. Dopo cinque anni di lontananza volle Progne
rivederla. S’incaricò Tereo di fare il viaggio di Atene per
contentare la sua sposa, ma nel condurla, per istrada concepì una
violenta passione per Filomela. Quindi strada facendo, dopo averla
oltraggiata, aggiungendo al primo un secondo delitto, le strappò
barbaramente la lingua per impedirle di poter
Fu Aristeo figliuolo di Apollo, e della ninfa Cirene. Egli si occupò
dell’agricoltura, a saper rappigliare il latte, coltivare gli ulivi,
e
Fu Pico figlio di Saturno, padre di Fauno, ed avo di Latino. Sposò
Canente figliuola di Giano, e di Venilia. Fu amato da Circe famosa
maga, e figlia del Sole, e che lo vide mentre andava in cerca di
erbe, e dalla medesima fu cangiato in picchio
Seguace di Diana era la ninfa Egeria. Credevasi ch’ella consigliasse
Numa Pompilio secondo re di
Arione fu un musico celeberrimo nativo di Metimna di Lenno, molto amato da Periandro re di Corinto. Un giorno mentre navigava, i marinari lo volevano buttare nel mare, per arricchirsi delle sue spoglie. Lusingandosi Arione di poterli intenerire, dimandò in grazia di poter toccare un’altra volta la sua lira : ma non potendo ottenere tal grazia si lanciò nelle onde, ed uno de’ delfini, che si erano accostati al naviglio per sentir la sua voce, lo prese sul dorso, e lo portò sano, e salvo alla riva. Periandro fece severamente punire i marinari, e gli Dei assegnarono un posto nel cielo al Delfino, che aveva salvato un musico tanto ben veduto da Apollo, e dalle Muse.
Era questi un altro eccellente cantore, figlio di Giove, e di Antiope regina di Tebe. Il suono della sua lira, e la sua voce era tanto dolce, che per sentirla gli corsero dietro le pietre, e si situarono in tal modo, che ne formarono le mura di Tebe.
Ciò basti per un corso di Mitologia elementare. Potranno i giovani lettori in età più matura consultare i fonti, gli originali delle favole, e gli scrittori che hanno ampiamente trattato un tale argomento : contentandoci noi de’ ristretti limiti fra’ quali ci siamo contenuti.
Si è creduto opportuno di quì inserire il seguente trattalo dello
stesso Sig. Tomeo autore di quest’opera, pubblicato fin dall’anno 1817
- per comode della gioventù studiosa.
Pbbiamo finora come in un quadro abbozzato l’origine, lo
scopo, lo sviluppo della Favola. Nel breve corso di poche pagine ci siamo
studiati di accennarne almeno l’applicazione, l’oggetto, la morale che
conteneva. Abbiamo altresi osservato il gran numero degli Dei adorati dal
Gentilesimo. Questa serie numerosa di false Divinità sarebbe stata maggiore,
laddove per poco si fosse data un’ occhiata alla folla degl’Iddj, che adoravano
gli Egizj, i Fenicj, i Caldei, i Persiani ed altre nazioni. Saremmo in tal caso
usciti dal piano, che da principio ci abbiamo proposto : riserbandoci non per
tanto di darne cammin facendo un’ idea, benchè superficiale.
Non abbiamo potuto però senza taccia dispensarci dall’aggiugnere quì un breve
trattato degli Dei indigeni, che ricevevano un culto particolare dai Napoletani.
Siccome sarebbe strana cosa l’aver piena contezza del Greco, e Latino idioma, ed
ignorare nel tempo istesso la lingua che parliamo ; così stranissimo sarebbe lo
affaticarci ad indagare l’eccessiva capricciosa folla degl’Iddj della
Quam tu Urbem hanc cernis, quae regna futura !
Ci duole soltanto che in mezzo a tante patrie ricchezze non possiamo con certezza e precisione dar fuori un trattato di quanto riguarda il nostro assunto. Le tante vicende, alle quali è stata soggetta la nostra Patria, il lungo andare di tanti secoli ha dovuto per necessità contribuire alla perdita d’infiniti monumenti. Possiamo solamente per via di congetture stabilire le basi del nostro argomento. Dee credersi certamente che istituiti i nostri padri coi costumi della Grecia, abbiano similmente adottati gli usi medesimi, e la Religione della madre comune. Il Circo, gli avanzi del nostro teatro, il corso lampadico, la palestra ci somministrano bastante materia da parlare delle varie Divinità, che presedevano a tali giuochi, e giornalieri esercizj. Oltre a ciò le rispettive reliquie di templi che ancor oggi ammiriamo, fanno fede abbastanza delle Divinità Napoletane, e della magnificenza della loro città : giacchè quanto vi ha di grande e magnifico nelle più vaste Capitali, per lo più dalla Religione ha tratto la sua origine, e contribuirono all’accrescimento della grandezza Romana più gli altari a Giove innalzati, che la potenza degli Augusti medesimi.
Quindi ci è sembrato non inutile, che anzi necessario lavoro il presentare alla
Gioventù
Dicemmo già che una delle Sirene chiamata Partenope, che colle
altre abitava nella spiaggia di Sorrento, e che in vicinanza di Napoli cessò di
vivere, diede il nome alla nostra Città. Fra le altre così dette, la più celebre
credesi figliuola di Eumelo re di Fera in Tessaglia. Scrivono taluni che questa
giovane amantissima della castità ritirossi nella Campania, ed ivi elesse il
suolo dove oggi è Napoli per sua abitazione, guidata dal volo di una colomba,
della quale così cantò il nostro Stazio nel libro IV. Silv.
Dii patrii, quorum auguriis super aequora magnis Littus ad Ausonium devexit Abantia classis. Classis Abantia, colonia venuta dalla Grecia sopra di una flotta.Tu ductor populi longe emigrantis Apollo, Cujus adhuc volucrem laeva cervice sedentem Volucrem, eioè la colomba da noi sopra indicata.Respiciens blande felix Eumelis adorat.
Dove la voce Eumelis vale lo stesso che Partenope.
Noi lasciando da parte le poetiche opinioni, che trattandosi dell’origine delle
grandi città sogliono essere, al dire di Livio, se non favolose, almeno
sospette, volentieri ci atterremo al sentimento dell’insigne geografo Strabone.
Attesta egli di essere stata Napoli edificata dai Cumani, chiamata Partenope dal
Sepolcro della estinta Sirena. Colà in seguito a cagione del suo amenissimo
clima concorsero diversi altri popoli, onde Neapolis, nuova
Città fu detta, per distinguerla da Palepoli, cioè vecchia
città.
Andò però quasi in disuso il nome di Napoli, ritenendo per lo più quello di
Partenope fino a che Augusto, al dire di Solino, dopo di aver ornato di marmi il
di lei fabbricato, volle che Napoli, o sia nuova città, e non
già Partenope fosse denominata.
Alla testè lodata favolosa Sirena, o alla pudica figliuola di Eumelo furono
assegnati gli onori divini, e fralle tutelari Divinità ebbe Partenope un luogo
distinto. Vedesi nelle nostre monete
Ignorasi il luogo preciso del sepolcro di lei, da molti situato nel monticello,
dove oggi è la Chiesa di S. Giovanni Maggiore. Altri, e fra questi il Pontano,
gli assegnano un sito alquanto più lungi. Itaque sepulchrum ipsum
indicio est Parthenopen colli imperitasse, qui subjectae imminebat stationi,
atque ad sinus ipsius caput, e qua regione Surrentum spectabant, quae
Sirenum ipsarum sedes tunc esset. Quem ad locum, quod naves quasi in quemdam
portum applicarent, collis ipse frequens erat habitatoribus, atque ab
accolis, et nautis celebratus, itaque obliterato priori nomine, post
matronae memoriam, atque ab ejus sepulchro, Parthenope cognominatus. Pont.
de bello Neap. Di questo colle samoso così pure cantò il nostro
Exere semirutos subito de pulvere vultus Parthenope, crinemque, afflato Monte, sepulti Pone super tumulos, et magni funus alumni.
Invitando Partenope a cacciar fuori la testa dalla tomba, ruinata dalla scossa di
un gran terremoto (afflato monte), e compiangere la morte del
suo allievo, cioè del padre di Stazio.
L’antichissimo culto che professavano i primi abitatori di
Napoli a questo patrio siumicello, esige da noi di doversene quì far parola, ed
appunto dietro l’articolo Partenope. Quale sia stata l’origine di questo nome
Sebeto, si disputa dagli antiquarj. Vi ha chi crede di ricavarla dal Sabbato
degli Ebrei, giorno in cui cessavano da ogni lavoro, per indicare l’indole della
voce riposo, quiete, adattando questo nome a que’ rigagnoli,
che con lentissimo corso scaricavansi al mare, qual è il nostro Sebeto. Parecchi
fanno decrivarlo altresì dall’Ebraico Sibboleth, fluentum,
cioè piccolo siume.
Comunque sia, certa cosa è che fu egli ascritto fralle patrie Divinità.
Probabilmente ciò dinota il celebre motto Nama
Nama fluentum, rivus. Gravi dispute
ci sono fragli antiquarj per queste due paroline. Tra tanti leggasi il
Martorelli, e la dissertazione intitolata Vindiciae
Sebethi dell’accuratissimo Antonio Vetrani.Sebesio scolpito nel collo del toro ne’ sacrifizj a Mitra,
cioè, al Sole, e più l’antichissima iscrizione
Dov’è da notarsi che questo tale Eutico di origine Greca rinnovò
l’antichissimo culto dovuto al Sebeto. Nè cio dee far meraviglia, giacchè i
primi fondatori delle Città in vicinanza de’ fiumi, erano soliti di
attribuire ai medesimi gli onori divini, e presso di noi si celebravano in
Capua le feste del Volturno, dette Vulturnalia. In un
fierissimo terremoto accaduto nell’anno 1688, allorchè con gravissima
perdita dell’Architettura rovinò il famoso tempio di Castore, e Polluce,
oggi Chiesa di S. Paolo, ritrovossi una elegantissima Greca iscrizione
sottoposta ad un eccellente bassorilievo, nel quale stavano scolpite
Il suo nome però e la sua gloria mal corrispondono al piccolo volume delle
sue acque. Malgrado che sia egli decantato in ogni pagina dalla fervida
fantasia de’ poeti, la sua picciolezza è tale, che Boccaccio allorchè
recossi a Napoli, al momento che lo vidde, stupefatto esclamò : Minuit praesentia famam. Il gran poeta Cesareo di lui
scrisse :
Quanto ricco d’onor, povero d’onde.
Non ha guari l’accurato nostro P. Sanfelice de situ Camp.
così scrisse :
:Quod prope littus est, Sebethus alluit
fluviolus, ne lintrium quidem patiens, non tamen
inglorius
Se i primi nostri padri adorarono Partenope come colei che
diede il nome alla Città, dovettero per conseguenza accordare il culto Divino
anche al di lei padre Eumelo. Fralle antichissime Fratriefratria altro non indica
che un’ adunanza di cittadini che formavano un corpo, un collegio in
ciascheduna regione della Città. Queste erano ben molte, ed ognuna aveva il
suo nome particolare. Queî che vi erano ascritti detti φρητορες, fretores trattavano gli affari appartenenti alla
Religione, e talvolta quelli che riguardavano la pubblica amministrazione.
All’istituzione delle fratrie succedettero i nostri sedili chiamati piazze,
ove radunavasi la gente nobile pel disbrigo de’ pubblici affari. Dalle
medesime ha tratta l’origine la voce Fratanzari.
Di questo giovane Dio, o Eroe piuttosto così lasciò scritto
Plutarco, il cui testo alquanto lungo in poche parole esporremo. Eunosto di
Tanagra nella Boezia fu un giovane eroe conosciutissimo per la sua elegante
figura, e diverse virtù che
Ciò diede occasione ai Napoletani di ascrivere anch’ essi Eunosto fralle patrie
tutelari Deità. Il nostro ch. D. G. Giacomo Martorelli nella sua laboriosa opera
de Reg. theca cal. parlando della Fratia dove adoravasi
Eunosto, azzardò una congettura, che in seguito dopo la di lui morte il tempo
verificò. Credeva egli che una tale Fratria, alla quale non erano ammessi, se
non quelli che conservavano il celibato, avesse dato il nome al quartiere della
città, oggi detto borgo dei Vergini, et che ivi appunto avesse
la suddetta dovuto esistere. Non fu bene accolta una tale opinione : ma
scavandosi li fondamenti parecchi anni sono di una casa in vicinanza della porta
di S. Gennaro, si avvidero i muratori di alcune
Vi ha in fine chi ha creduto, che Eunosto fosse stato il Dio che presiedeva ai mulini ; opinione che ha procurato di confutare a tutta possa il mentovato Martorelli.
Oltre quanto si è detto in questo corso di Mitologia
nell’articolo Apollo, è da notarsi riguardo a questo Nume, che
un culto assai esteso riceveva dai Napoletani, come quello che fu il Duce della
colonia Eubea venuta a Napoli, guidata dal volo della colomba, onde Stazio :
Tu ductor populi longe emigrantis Apollo.
E virgilio nel 6 dell’Eneide parlando del famoso di lui tempio :
Arces, quibus altus Apollo Praesidet.
Le vestigia di questo tempio ancor oggi si veggono accanto all’arco
Felice poco discosto dalla Palude Acherusia al
presente il Fusaro. Sotto diverse sembianze fu Apollo in
Napoli adorato col nome di Ebone, di Mitra,
di Serapide. Di ognuno di questi nomi imprendiamo a
distintamente parlare.
Una nostra Greca antica iscrizione ci fa acquistare la conoscenza di questo nume tutelare.
ΗΒΩΝΙ ΕΠΙΦΑΝΕΣΤΑΤΩΙ ΘΕΩΙ Heboni clarissimo Deo.
L’ etimo di questa voce benchè alquanto stiracchiato, potrebbe ripetersi
dall’Ebraico Abir, taurus. In fatti era egli rappresentato
sotto l’aspetto di un bove con faccia di uomo, e propriamente di un vecchio
con lunga barba. Nelle nostre antiche monete segnate col motto Heboni, e Neapolitae, si vede di altri emblemi
fregiato. Macrobio ne’ suoi Saturnali ci dice la ragione, onde Ebone sotto
la figura di un toro era adorato :
. Nè è da dispregiarsi l’opinione di taluni, che
credono adorato il toro in Napoli, in Pozzuoli, Atella, Capua, ed in tutta
la terra di Lavoro per essere questo animale il più utile e necessario per
l’agricoltura.Taurum vero
multiplici ratione ad Solem referri Aegyptius cultus ostendit, vel
quia apud Heliopolim taurum Soli consecratum, quem Netiron, seu
Neton cognominant : vel quia bos Apis in
civitate Memphi solis instar excipitur : vel quia in oppido Hermunti
magnifico Apollinis templo consecratum Soli colunt
taurum
Della varia figura di questo Nume, secondo lo stesso Macrobio, dee dirsi, che i Napoletani lo veneravano sotto l’aspetto di un vecchio, a differenza delle altre nazioni, che lo riconoscevano col volto di un fanciullo, di un giovanetto, di un uomo : alludendo alle quattro età del Sole nel tempo degli equinozj, e de’ solstizj. Trasportati i nostri Maggiori per lo studio dell’astrologia, come è noto, non dee recar punto maraviglia che avessero professato un culto particolare verso il principe de’ pianeti col nome di Ebone. La nostra Cattedrale edificata sulle ruine del tempio di questo Dio abbastanza ce ne assicura. Anche il nostro Pontano parlando di Ebone, così cantava :
Urbs Hebone salutat, agrique Hebona frequentant, Hebona et referunt simul antra, et littora, et amnes.
A questo Nume il nostro Mazzocchi asegnò anche una fratria,
ma senza daccene idea precisa.
Adoravano gli antichi Napoletani Mithram,
Mitra, con vocabolo Persiano indicante il sole medesimo. Se non che il
culto che professavano a questo Nume si esercitava negli antri, e ne’
sotterranei, per alludere forse alla virtù de’ raggi solari, che vibrati sulla
terra hanno l’attività di animare quanto contiensi nelle viscere di lei. Una
antica iscrizione ci somministra piena cognizone di questa esotica Divinità.
Dicavit.
A questo, Mitra, al dire di Suida, immolavano i Persiani molte vittime, e
specialmente bianchi cavalli. Senefonte attesta, che il gran Ciro giurava
per questo Dio, e Lampridio nella vita di Commodo fa menzione de’ sacri riti
praticati ne’ sacrifiz di lui. La sua figura eccola espressa da Lattanzio
Grammatico :
.Colebatur in antro, fingebaturque leonis vultu, habitu Persico cum
thiara, et ambabus manibus reluctantis bovis cornua retentare. Quo
simulacro innuebant lunam ab eo lumen accipere, cum incipit ab ejus
radiis segregari. Ipsa enim indignata sequi fratrem, occurrit illi,
et lumen subtegit, obscuratque : ideoque in antro esse dicitur, quia
eclipsin patitur. Ideo leonis vultu, quia sol leonem signum
principale habt, vel quod ut leo inter animalia, ita sol sidera
excellit
Conservasi dalla nobilissima casa Borghese in Roma una lapida col motto
Soli Deo invicto Mithrae.
Ecco in iscena nuovamente il sole col nome di Serapide. Il di lui culto era etesissimo nell’Egitto. Crede Varrone
che questa voce abbia tratta la sua origine dalla cassa, o tumulo detto σορος in
cui fu riposto dopo morto, onde i Greci prima lo chiamarono Sorapis. Oltre di un tempio grandioso a lui eretto in Pozzuoli, i di
cui superbi avanzi ancor oggi si ammirano, credesi vicino agli scolgi Platamoni
Megalia,
o Megaride.
Aequoreus Platamon, sacrumque Serapidis antrum, Cum fonte, et nymphis adsultavere marinis.
In somma pressochè generale era il cutlo del Sole in Napoli antica. Oltre le
mentovate denominazioni si dava ad Apollo l’epiteto di servator,
sanator. Quindi alla buona salute (Hygiae) furono
altresì eretti monumenti, ed altari. Presso di Orazio :
Troviamo il sole insignito ancora degli attributi di Bacco, presso alcune delle
nostre monete, cioè con pampini ed edere : e ciò perchè nell’Egitto Serapide,
cioè il sole, era stato l’inventore del vino. Il decantato nostro Cecubo,
Falerno, Sorrentino, Massico, e tanti altri diedero occasione alle piacevoli
feste di Bacco in Pozzuoli. Ivi queste feste erano colla massima solennità
celebrate, e non ha guari fu ritrovata una lapida col motto Dusari
sacrum, così chiamato ancora vel ab uvarum expressione, vel quia
dominus libertatis erat.
In grandissimo credito era a tempi di Napoli Greca Artemisia,
o sia la Luna, sì perchè germana di Apollo, sì perchè erano trasportati i
Napoletani per lo studio dell’astrologia. Di questa scienza erano tatalmente
appassionati, che Virgilio istesso ne era istruitissimo, come apparisce dalle
sue georgiche, e dall’egloga intitolata Pharmaceutria. Non
altro significa quell’ignobile otium che la perfetta
cognizione del corso e dell’influsso de’ pianeti,
Illo me tempore dulcis alebat
Parthenope studiis florentem ignobilis otî.
Artemis è chiamata da Omero la luna, e con questo motto eran
segnate le antiche nostre monete. Nelle medaglie di Sicilia vien denominata
altresì Σωτειρα, servatrix. Non senza fondamento il Can. Celano esatto
indagatore delle cose patric, crede che il tempio della luna fosse dov’è al
presente la Chiese di S. Maria Maggiore (la Pietrasanta), luogo in cui mentre a
suoi tempi si Lunae Virgini Majori. Infatti la nostra
strada dei Tribunali chiamasi Via Solis, et Lunae : ed
assicura il testè lodato Celano, che nella casa d’Ippolita Ruffo fondatrice
della Chiesa suddetta, si conservavano moltissimi monumenti di questo tempio
famoso.
Il circondario del tempio della luna era il più rispettabile di Napoli. Colà a
sentimento dell’accurato Capaccio stava la Fratria, o sia
Curia degli Artemisj, addetti all’amministrazione di questo tempio, e dov’era,
al dire di Martorelli, ascritto il nostro concittadino egregio poeta Stazio. In
queste vicinanze vedevasi l’antico nostro teatro, dove il folle Nerone volle far
pompa dell’arte sua musicale : ed in questo sito fu ritrovato l’insigne cavallo
di bronzo di Greco lavoro, antico stemma della Città, la cui testa vedesi oggi
nel Regale Museo de’ Regj Studj, ed il resto del corpo fu destinato a formare le
campane del Duomo per opera del Cardinal Caraffa. Colà tuttavia si ammirano
diverse reliquie di fabbriche a mattoni, che ritengono presso di noi il nome di
Anticaglie.
Secondo la testimonianza di Esiodo, ebbe questo Nume a padre
Nettuno, e sua madre fu Euriale. Di lui narra la favola, che amato da Diana era
già presso a sposarla. Mal soffriva Apollo queste nozze della germana : onde
sfidatala un giorno a tirare una freccia ad un punto nero che nel mare si vedeva
(ch’era la testa di Orione), fu pronta costei, come abilissima nel trattar
l’arco, a vibrare a quel segno un dardo, e mortalmente ferì l’amato suo oggetto.
Gittato Orione dal mare semivivo sul lido, si dolse dell’affronto con Diana, che
amaramente piangendo non potè far altro per lui che trasportarlo nel Cielo, ed
ivi situarlo nel Zodiaco, formandone una costellazione col nome di Orione.
La di lui statua osservasi oggigiorno nel luogo detto Seggio di Porto, portando
in mano un pugnale, e vestito il corpo di lunghi ispidi peli, indicanti o i
raggi solari, ovvero un segno della pioggia. Era questo Dio tutelare adorato in
Napoli dalla gente di mare, e nel sito da noi enunciato è probabile che stesse
il tempio a lui dedicato, perchè vicinissimo al mare. Sappiamo per tradizione,
che fino a’ tempi da noi non
Chiamasi oggi questa statua dal volgo falsamente il pesce
Nicolò : ingannato dalla storia di un tale Nicola Pesce espertissimo
nuotatore, che vivea a tempi del Governo Viceregnale. Costui con grandissima
facilità caminava sott’acqua da Reggio a Messina, portando lettere, ed altro. Ma
sparì finalmente il poverino mentre una volta faceva il solito tragitto, e fu
creduto che un qualche grosso cetaceo lo avesse ingojato.
Fralle patrie Divinità tutelari del prim’ordine ascrivere si
dee Cerere Attèa, o sia Attica. Il nostro Stazio a chiare note lo indica :
Tuque Actèa Ceres, cursu cui semper anhelo Votivam taciti quassamus lampada mystae.
Le feste di questa Dea erano celebrate con grandissima pompa ad imitazione delle
feste Eleusinie,
Tra i ministri di questa Dea erano ammesse altresì le donne. I sacrifizj erano
segreti, e tutti dovevano conservarne gli arcani, come rilevasi dalle parole taciti mystae di Stazio. Il tempio di questa Dea, secondo il
più volte citato Capaccio, ed altri, era la presente Chiesa di S. Gregorio
Armeno, dove nello scavo dei fondamenti furono ritrovati diversi monumenti, e
statue di marmo.
La presente magnifica Chiesa di S. Paolo era il tempio
dedicato ai due gemelli Numi Castore, e Polluce. Una insigne iscrizione scritta
a caratteri cubitali nel frontespizio chiaramente ce lo addita : eccola qui
tradotta :
Tiberius Julius Tarsus Dioscuris et Parthenope Templum. Et quae in templo sunt Pelago Augusti libertus et Procurator fecit sua pecunia dedicavitque.
In mezzo a diversi altri monumenti furono nell’anno 1591 rinvenute le immaginette di questi due fratelli. Questo gran tempio scosso da un fiero terremoto, come si è detto, nel 1688 quasi interamente ruinò, e per conservarne almeno gli avanzi grandiosi, furono lasciate due sole colonne di ordine Corintio, come al presente si osservano.
Malgrado però che la mentovata testè iscrizione ci manifesti un’epoca recente,
qual’è quella di Tiberio, il culto non pertanto assegnato dai Napoletani ai
Dioscuri è molto anteriore. I busti,
Merita quì in certo modo di farsi menzione di Ercole. Le
centinaja di statuette e di marmo, e di bronzo rappresentanti questo Eroe, fanno
credere di essere stato egli ascritto fra i Penati e gl’Iddj tutelari della
Patria. Attesta il Pontano, che ritornato Ercole vittorioso dalla Spagna, ed
ucciso il famoso ladrone Caco nel Lazio, visitò varie contrade del nostro regno,
a cui diede il suo nome. Oltre di Eraclea nella magna Grecia, chiamasi in Napoli
vico Eraclio, o sia di Ercole, una straduccia nelle vicinanze della Chiesa di S.
Agostino Maggiore. L’antico Ercolano, oggi Resina, vanta da Ercole la sua origine, come altresì il
Portico di Ercole, Portici, di cui parla Petronio nella cena
di Trimalchione. Credesi però che tali luoghi ripetano il loro nascimento dai
Fenicj, che loro adattarono una denominazione corrispondente all’indole del
suolo, che dava fuoco dapertutto, perchè sottoposti immediatamente al
VesuvioI Fenicj primi abitatori di
Napoli.
L’antichissima Chiesa di S. Maria della Rotonda a nostri
giorni demolita, ha fatto credere a parecchi eruditi antiquarj che fosse stato
il tempio a Vesta dedicato. Infatti la rotonda figura del medesimo, ed alcuni
marmi colà rinvenuti, oltre di un tripode, ed un lavacro di marmo, possono
abbastanza persuaderci di una tale verità. Affermano taluni che di forma rotonda
era il tempio di Vesta per indicare la rotondità della terra, o per meglio dire
dell’Universo, nel cui centro collocavano il fuoco i Pittagorici, che chiamavano
Vesta.
Osservavasi questo tempio accanto il palazzo del Duca di Casacalenda, e
propriamente a fronte della porta grande della Chiesa di S. Angelo a Nilo. In
questa regione abitavano gli Alessandrini, ed Egiziani, come rilevasi dalla
statua del Nilo, ivi ancora esistente con iscrizione del dotto Matteo Egizio, ed
ornata da varj simboli, e diversi putti indicanti le molte ramificazioni di
questo fiume. Colà altresì stava la Fratria degli Alessandrini (Cynaeorum, da Κυων, il cane) poichè gli Egiziani oltre di Osiride,
Iside ed altri, adoravano Anubi, effigiato sotto le sembianze di un cane.
Anche alla Fortuna indrizzavano i loro voti gli antichi
abitatori di Napoli, come dal motto ΤΥΧΗΙ ΝΕΑΠΟΛΕΟΣ, Fortunae
Neapolis.
Dalla seguente antichissima iscrizione ritrovata sul colle di Posilipo verso la
parte che guarda Euplea, la Gajola o scuola di Virgilio,
apparisce che a lei erano consegrati templi ed altari.
Vesorius Zeloius Post assignationem aedis Fortunae signum Pantheum sua pecunia D.
Secondoche attesta Strabone dal promontorio di Nettuno fino alla Magna Grecia
erano innalzati de’ tempj alla Fortuna, bisogna tuttavia confessare che nella
Campagna Felice esigeva questa Dea un culto particolare. Ciascuna città aveva la
propria Fortuna, come quella de’ Napoletani, de’ Romani presso Plutarco detta
ancora Pubblica. I Greci chiamavano Χαριστηρια Charisteria le
feste in onore della Fortuna. I Romani dissero Charistia i
conviti, ne’ quali si univano i parenti, ed affini in contrassegno e conferma
del comune attaccamento fra di loro.
Proxima cognati dixere Charistia Chari : Et venit ad socios turba propinqua Deos.Ovid. Fast.
Teofane negli anni sacri si serve della voce Charisteria per
ringraziamento al sommo Iddio.
Molte sono le opinioni degli scrittori sull’influenza de’
Genj. Vi ha chi lo crede padre degli uomini, e Plutarco un Nume tutelarc.
Apulejo gli assegna un posto eguale a quello dei Demonj, e dei Lari. Cebete
Tebano asserisce che il Demonio. Censorino lo crede un continuo
assistente ed osservatore di tutte le nostre azioni. Servio parla di due Genj :
uno che ci esorta a bene operare, l’altro che le prave opere ci consiglia.
Filone chiama Genj le facoltà dell’animo inclinati al bene ed al male.
Comunque sia, ogni luogo aveva il particolare suo Genio. Leggiamo nelle antiche
iscrizioni Genio loci, Genio coloniae, Genio theatri etc., che
anzi Prudenzio gli dà maggiori facoltà :
Quamquam cur Genium Romae mihi fingitis unum ? Cum portis, domibus, thermis, stabulis soleatis Assignare suos Genios, perque omnia membra Urbis, perque locos Geniorum millia multa fingere ?
Molte antiche iscrizioni ritrovate in Pozzuoli, ed in Napolï ci dimostrano il culto che al Genio si professava.
Nelle monete di Adriano, e Diocleziano viene espresso il Genio colla figura di un
giovine guerriero con lunga veste, portando in una mano una patera, e nell’altra
il corno dell’folletti, e farfarelli attribuire si debbano le tante fole e fattarelli dalle
femminucce, e dagli oziosi inventati.
Resta a dire brevemente qualche cosa di quelle Divinità, a cui
la nostra patria dispensava gli onori divini, e ne ha conservato qualche
memoria. A questa classe possono appartenere le Grazie, Priapo, Giove Ejazio, e
gl’Iddii delle Fratrie detti ancora tribules.
Riguardo alle Grazie, oltre quanto si è precedentemente osservato, si può
aggiugnere che nelle antiche nostre monete da una parte si leggeva. Νεοπ. Nepolitae, e dall’altra era impressa la testa di una delle
Grazie col motto Χὰριτες, Charites.
Di Priapo sappiamo, che nelle feste di Cerere, di cui sopra abbiamo parlato, si portava processionalmente l’immagine di questa sozza Divinità : costume peraltro indecente. Quindi come si desiderava l’abbondanza, e questa se non dalle campagne, sperar non si poteva, fu detto perciò Priapo il Dio degli orti.
Di Giove Ejazio parla una nostra iscrizione :
Titus Flavius Antipater Una cum Flavia Artemisia uxore Jovi Ejazio libens votum solvit.
La radice di questa voce è affatto ignota, se pure non si dovesse leggere Jovi Sabbazio dal Greco σαϐάζειν, saltare,
come praticavasi nelle feste di Bacco. Probabile è altresì che la vera lezione
fosse Jovi Abazio, cioè taciturno, dai
sacrifizj a questo Nume istituiti dal re Dionigi col massimo silenzio, e
rammentati da Cicerone. Il Capaccio azzarda varie altre congetture, ma poco
soddisfacenti.
Finalmente ciascuna delle Fratrie ne’ tempi di Napoli Greca aveva il proprio Nume
tutelare. In esse celebravansi le feste nei giorni assegnati, e si facevano de’
conviti detti lectisternia, a stratis lectis, nei quali
sedevano gl’invitati. Questi al dire di Livio, s’imbandivano presso i Romani
colle carni delle vittime immolate, e nei casi di qualche seria disgrazia della
Repubblica.
Si è già osservato, che gli Eumelidi avevano Eumelo per loro Nume tutelare, gli
Artemisj la Luna, i Cinei Anubi, e così gli altri, dei quali con ingegnosa
sottigliezza lungamente scrisse il nostro Martorelli nell’aureo trattato de Fratriis Neapolitanis, nel secondo tomo della Theca Calamaria.
Ed eccoci alla fine del nostro trattato