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Nella classazione generale delle Divinità del Paganesimo (vedi il N. III) fu accennato
che gli Dei di 2° ordine eran detti Inferiori o Terrestri ; e questi appellativi spiegano bastantemente la minor potenza e
l’ordinario soggiorno di tali Dei sulla Terra. Gli Dei Superiori, di
cui abbiamo parlato nella Iª Parte, erano soltanto venti, e gl’Inferiori a migliaia, e costituivano la plebe degli Dei, come li chiama Ovidio :
de plebe Deos. Fortunatamente, per chi deve studiar la Mitologia, a
ben pochi di questi Dei fu dato dai Pagani un nome proprio, e la maggior parte furon
compresi sotto certe generali denominazioni, come ora suol farsi nella Storia Naturale
in cui si distinguono soltanto i generi, le specie, le famiglie, le varietà, ecc. e non
gl’individui, o vogliam dire i singoli prodotti naturali. E a render più facile il
còmpito di chi vuole imparar la Mitologia contribuisce ancora il non avere inventato i
Pagani molti miti o fatti miracolosi riferibili a questi Dei Inferiori, perchè molto limitata credevano la loro potenza. Abbiamo
notato nel principio del N. IV che, ammessi più Dei, nessuno di loro poteva essere onnipotente, perchè il poter di ciascuno era
limitato dalle speciali attribuzioni degli altri ; e se ciò era vero per gli Dei
Superiori e per lo stesso Giove, come ci è accaduto di narrare più volte, tanto più è
presumibile e conseguente per gli altri Dei che furon detti e considerati Inferiori.
Agli antichi Mitologi non bastò l’avere assegnato tre Dee al globo terrestre, come
notammo nel N. VIII, ed anche altre Divinità Superiori ai principali prodotti della
Terra, cioè Cerere alle biade, Bacco al vino, Vulcano alla metallurgia, ecc. ; e lasciando libero il freno alla
immaginazione videro Divinità da per tutto, nei monti, nei fiumi, nelle fonti, nelle
selve e perfino nelle piante, come col microscopio si vedono da per tutto brulicar
gl’insetti e gl’infusorii. Sappiamo poi dagli scrittori ecclesiastici
dei primi secoli del Cristianesimo (i quali studiavano con gran premura ed attenzione la
Mitologia per dimostrare le assurdità della religione degl’Idolatri)
E qui mi basterà rammentare, a proposito di quanto ho accennato di sopra, che il
vescovo d’Ippona (S. Agostino) asserisce che i Pagani erano giunti ad assegnare
quattordici Divinità alla vegetazione del grano. Anzi vi aggiunsero anche un altro Dio,
che schiverei di rammentare, se, oltre Lattanzio, non ne parlasse anche Plinio il
Naturalista ; ed era il Dio Colitur et Italia regi
suo Sterculio o Stercuzio,
così detto perchè aveva inventato il modo di render più fertili i terreni col fimo o
concime. Plinio asserisce che era questi un re d’Italia Sterculius, qui stercorandi agri rationem primus
induxit.Lactant., lib. 1, c. 20.)Stercutio ob hoc inventum immortalitatem
tribuit.Plin., lib. 17, c. 9.)Politeismo, come per esempio, il Dio Robigo, la Dea Ippona, il Dio Locuzio, la Dea Mefiti, ecc. ecc. ; e basta conoscere
l’etimologia e il significato di questi vocaboli per intendere qual fosse l’ufficio di
tali Dei. Non dovrà dunque recar maraviglia che il dottissimo Varrone, contemporaneo ed
amico di Cicerone, abbia annoverati trentamila Dei del Paganesimo, come dicemmo nel
N. III ; e deve parer probabile che fossero aumentati da quell’epoca al tempo in cui
scriveva S. Agostino, cioè in più di quattro secoli, poichè i Pagani avevano libertà di
adottare anche gli Dei stranieri, e poi per mezzo della cerimonia detta l’Apoteosi facevano diventar Divi i loro Imperatori dopo la
morte, e spesso li consideravano tali anche in vitaCorpus Juris dei Romani (le Pandette, il Codice, ecc.) troviamo
rammentati col titolo di Divi quegli Imperatori di cui si citano le
leggi o i rescritti (Divus Julius, Divus Augustus, Divus Traianus,
ecc.).
Anche Senza occuparci della
distinzione che fanno i canonisti della Dante confrontando, nel Canto Inferno, il numero degli Dei degl’ Idolatri con quelli d’oro e
d’argento adorati dai Simoniaci, e dichiarando che questi Dei
son cento volte più numerosi di quelli, accetta per lo meno il computo di Varrone,
poichè così rimprovera i Simoniaci stessiSimonia a pretio, a precibus,
ab obsequio, ci contenteremo della definizione che ne dà l’Alighieri pel 1° capo, cioè per la Simonia a
pretio :le cose di Dio, che di bontatePer oro e per argento adulterate,
« Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento ; « E che altro è da voi all’ Idolatre Chi ha letto almeno una volta tutta la Divina Commediasa bene che vi si trovano più e diversilatinismi, o vogliam dire parole di forma e terminazione latina, come è questaIdolatreinvece diIdolatri; e cosi altroveEresiarche, peccatae simili. Anche adesso nel linguaggio ecclesiastico dicesi lequattro temporainvece dei quattro tempi.« Se non ch’egli uno e voi n’orate cento I Grammatici noteranno in questo verso il pronome ? »egliinvece dieglinoper troncamento della sillaba finale, che nella metrica latina e greca direbbesiapocope; come pure il verboorateperadorate, che è una licenza poetica chiamataaferesi.
Convinti dunque che il numero degli Dei Pagani fosse anzi più che meno di
trentamila I più dotti commentatori di Dante, e tra essi anche
il canonico Bianchi di onorata memoria, interpretano questo passo cosi :
« per quanti idoli adorassero i pagani, voi ne adorate cento volte più, che
vi fate idolo ogni moneta d’oro e d’argento. »
Stando soltanto al numero
di 30 mila Dei dichiarato da Varrone, e moltiplicandolo per cento, come dice Dante,
ne verrebbero 3 milioni di Dei, adorati dai Simoniaci. E non bastavano per saziar
quella Lupa,sine
nomine vulgus, e da spacciarsi in massa, (o come taluni dicono in
blocco) e con poche e generali
considerazioni sul loro comune appellativo, procediamo senza spaventarci ad osservare
anche altre fantasmagorie preistoriche dei nostri più remoti Antenati.
Prima di parlar dell’etimologia del nome di questo Dio e degli ufficii di lui, credo
opportuno di presentarne il ritratto. È una eccezione al mio metodo, che mi par
giustificata dall’ufficio eccezionale e dalla forma particolare di questo Dio. Egli è
mezz’uomo e mezzo bestia : ha le gambe e i piedi di capra, il naso camuso, ossia
schiacciato, le orecchie a sesto acuto, ossia appuntate dalla parte superiore, e due
lunghissime corna gli torreggiano sopra la fronte. Tutte le altre sue membra son di
forma umana, ma coperte di pelo caprino ; e in queste membra semibestiali alberga
l’anima di un Nume immortale. Quantunque abbiamo trovato prima d’ora, e troveremo anche
in appresso, qualche Divinità che, a giudicarne dalla forma, si prenderebbe piuttosto
per un mostro di natura che per un essere soprannaturale, il Dio Pane
richiama maggiormente la nostra attenzione per gli uffici che gli furono attribuiti, e
per quanto ragionan di lui non solo i poeti, ma anche gli storici e i filosofi.
Il nome di questo Dio in greco è Pan che significa tutto ; e gli antichi Mitologi basandosi sul significato di questo vocabolo e
interpretando la forma strana di questo Nume come emblematica dei principali oggetti
della creazione, lo considerarono come simbolo della Natura o dell’Universo. Questa
etimologia e la conseguente spiegazione, furono adottate nei Pan,
declinandolo anche alla greca col gen. in os e l’acc. in a, per distinguerlo dal loro vocabolo panis
significante il cibo quotidiano pane. Il qual compenso non seppero
trovare gl’Italiani ; e perciò per distinzione bisogna dir sempre il Dio
Pane.
Son
queste le precise parole di Bacone nel libro Modernamente un
eruditissimo filologo tedesco (Preller) asserisce che considerato il Dio Bacone da Verulamio, che nel suo libro De Sapientia
Veterum spiegò anche troppo minutamente e sottilmente il mito
del Dio Pane, dichiara che gli Antichi lasciarono in dubbio la generazione
di questo Dio, osservando che non si accordavano i Mitologi ad assegnargli i
genitori, poichè lo stimavano figlio chi di Giove e di Calisto, chi di Mercurio e di
Penelope, ed anche di Urano e di Gea, ossia Tellure. Afferma per altro che tutti eran
d’accordo (e vi si unisce anch’egli) nella etimologia della parola Pan
e nel simbolo indicato da questo Dio che, cioè, significhi il tutto e
rappresenti perciò l’universa naturade Sapientia Veterum
cap. « Antiqui universam Naturam sub persona
E poco più oltre aggiunge :
Panis diligentissime descripserunt. »«
Pan (ut et nomen ipsum etiam sonat), universitatem
rerum sive Naturam repræsentat et proponit. »Pane come il Nume dei Pastori, l’etimologia di questo nome deriva da
pao (io pasco) ; e che pan è perciò una
contrazione di paon.le corna
significano i raggi del Sole e la Luna crescente, i velli gli alberi e
i virgulti del nostro suolo, e i solidi zoccoli caprini la stabilità
della Terra. Risparmierò al cortese lettore altre Pane, che ho
delineato in principio, i distintivi che gli si davano perchè non si confondesse con
altre inferiori divinità di forme presso a poco così graziose come
quella di lui. Sul dorso aveva un mantello o clamide di pelle di
pardo, in una mano la verga pastorale e nell’altra la sampogna. Di
questi tre distintivi non sarà inutile dar la spiegazione, perchè riesce più
concludente. Infatti, essendo il Dio Pane considerato come il
protettore dei cacciatori e dei pastori, ed inoltre l’inventore della sampogna, i tre distintivi preaccennati rammentano chiaramente questi tre
attributi. Della sampogna poi convien raccontare pur anco l’origine
mitologica.
Al Dio Pane avvenne un caso simile a quello di Apollo rispetto a
Dafne. Egli pure voleva sposar per forza una Ninfa di nome Siringa ;
ma essa avendo pregato gli Dei a liberarla da un sì fatto sposo, ottenne soltanto di
esser cangiata in canna, come Dafne in lauro. E il Dio Pane
gareggiando con Apollo ad onorare in quella pianta la prediletta Ninfa, formò di sette
canne di diversa lunghezza, unite fra loro colla cera, un musicale stromento, che in
greco chiamavasi col nome stesso della Ninfa, cangiata in canna, cioè Siringa, in latino fistula e in italiano sampognaPan primus calamos cera conjungere pluresPan curat oves oviumque
magistros. »Virg., Fistula cui semper decrescit
arundinis ordo,calamus cera jungitur usque
minor. »Tib., Siringa in greco significa canna, la somiglianza del nome potè aver dato origine a questa favola, come
dicemmo dei nomi di Dafne, di Giacinto, di Ciparisso ecc.
Sul rozzo stromento della sampogna fanno i Mitologi una infinità di commenti. Non
contenti di eredere che le sette toni della musica, o, come ora direbbesi, le sette note musicali,
immaginarono che rappresentassero l’armonia delle sfere, secondo le idee di
Pitagora.
Dante rammenta la favola di Siringa nel Canto
Purgatorio ; e, com’è suo stile di esser
concisissimo e presentare al lettore più idee che parole, qui è più conciso che altrove,
poichè con una sola similitudine e in soli due versi e mezzo, riunisce due miti, ed allude evidentemente al racconto che ne fa Ovidio
nel lib. Metamorfosi, che cioè Mercurio per
addormentare Argo non solo suonasse la lira, ma gli raccontasse pur anco la favola di
Pane e Siringa :
« S’io potessi ritrar come assonnaro« Gli occhi spietati, udendo di Siringa, « Gli occhi a cui più vegghiar costò sì caro ; « Come pittor che con esemplo pinga « Disegnerei com’ io m’addormentai ; « Ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga. »
Il Dio Pane, mancatagli la sposa che ambiva, si ammogliò in appresso
colla Ninfa Eco, la quale era stata da Giunone cangiata in voce, in
punizione della sua loquacità, e condannata a tacere se nessun le parlava, ed a ripeter
soltanto le ultime voci di chi le dirigeva il discorso : favola ricavata evidentemente
dai noti effetti del fenomeno acustico dell’Eco. Il matrimonio del Dio
Pane con questa Ninfa sembra significare che solo ai
detti suoi l’Eco rispose.
Questo Dio era adorato principalmente in Arcadia come Dio dei pastori, e da quella
regione fu trasportato il suo culto in Italia dall’Arcade Evandro tre secoli e mezzo
prima della fondazione di Roma. Evandro aveva fissata la sua residenza su quel monte che
egli chiamò Palatino dal nome di suo figlio Pallante, ed ove poi fu da Romolo fabbricata
l’eterna città. Anche a tempo di Cicerone, com’egli racconta nelle sue
Dai Romani ebbe questo Dio anche il nome di Luperco (ab
arcendis lupis) dal tener lontani i lupi dal gregge ; e si celebravano le feste
Lupercali, in onore cioè di Luperco, ossia del Dio
Pane, nel mese di febbraio. Son celebri nella storia romana i Lupercali dell’anno 710 di Roma, poichè in quel giorno offrì Marc’Antonio il
regio diadema a Cesare che lo ricusò ; e Cicerone rammenta questo fatto più volte nelle
sue opere, e specialmente nelle filippiche contro lo stesso
Marc’Antonio.
Dal nome del Dio Pane è derivata l’espressione di timor
pànico, che etimologicamenie significa timore ispirato o incusso dal Dio Pane ; e, nella comune accezione, timore che assale all’improvviso e non
ha fondamento o causa razionale o evidente.
« Temer si deve sol di quelle cose « Che hanno potenza di fare altrui male : « Dell’altre no, chè non son paurose, »
diceva Narrando dichiara che questo fatto era più famoso che credibile : « Rem
ausus plus famae habituram ad posteros, quam E nella
Dante nella Divina Commedia ; ma non tutti
gli uomini e non sempre possono ragionare freddamente e conoscer subito la causa delle
cose ; e per casi nuovi o ignorati o non preveduti avviene spesso che si alteri la
fantasia, specialmente del volgo, e si tema ove nessuna ragion v’è di temere. Ma perchè
questo improvviso e mal fondato timore debba chiamarsi pànico, ossia
prodotto dal Dio Pane, anzichè Plutonico, o diabolico, o altrimenti, cerca di spiegarlo la Mitologia ; la quale,
dopo avere asserito che il Dio Pane soggiornando nelle solitudini più
selvagge e piene di sacro orrore, spaventa da quelle colla sua terribil voce i
passeggieri, vi aggiunge, quali prove di fatto, diversi aneddoti riferiti nelle antiche
storie, come per esempio, che il Dio Pane al tempo della battaglia di Maratona parlasse
a Fidippide Ateniese, e miracolaio di Plutarco e da altri
scrittori di minor conto, sono la relazione delle popolari credenze prevalenti a quei
tempi, e non la storica dimostrazione della verità dei fatti. Anche Tito Livio racconta
molti miracoli nella sua Storia Romana, ma non li garantisce, e aggiunge quasi sempre un
si dice, o si crede ; e nella prefazione dichiara
esplicitamente che egli non intende di confermarli nè di confutarliT. Livio che l’augure Accio Nevio tagliò col rasoio
la pietra, cosi dice : « Tum illum haud cunctanter discidisse cotem ferunt.fidei.Prefazione osserva che generalmente gli Antichi spacciavano
molte favole anche in mezzo ai racconti storici : « Quae ante conditam
condendamve urbem, poeticis magis decora fabulis, quam incorruptis rerum gestarum
monumentis traduntur,
ea nec affirmare nec refellere in animo
est. Datur ea venia antiquitati, ut, miscendo humana divinis, primordia
urbium augustiora faciat. »
Ma poichè timor pànico venne posteriormente a significare anche
presso i Pagani una paura senza fondamento, ciò stesso dimostra che si
aveva per una ubbìa e non per un miracolo. Anche Cicerone nelle sue Opere usa almeno due
volte, per quanto mi ricordi, l’aggettivo pànico riferito a timore o
romore, ma lo scrive con lettere greche, perchè greca è l’origine di questo aggettivo al
pari del nome Pan da cui deriva, e perchè quel celeberrimo oratore lo
credeva un neologismo che non avesse ancora acquistato la cittadinanza
romana. È però usato nelle lingue moderne comunemente, e parlando e
E per non chiudere il capitolo con queste quisquilie filologiche, terminerò esponendo
una solenne osservazione filosofica del celebre Bacone da Verulamio sul timor pànico. Egli afferma che ai timori veri e necessari per la conservazion
della vita si aggiungono sempre molti timori vani, da cui tutti gli uomini, chi più, chi
meno, sono assaliti ; e quindi nota come immensamente più dannosa di qualunque altra
vana paura la superstizione, che veramente, com’ egli dice, non è altro che un terror pànico (quœ vere nihil aliud quam panicus terror
est).
Chiunque ha veduti sculti o dipinti i Satiri avrà notato una gran somiglianza di forme
fra essi e il Dio Pane, e riconoscerà quanto graziosamente e concisamente il Redi nel
suo Ditirambo intitolato Bacco in Toscana li abbia definiti :
« Quella che Pansomiglia« Capribarbicornipede famiglia. »
Molti di essi formavano il corteo di Bacco, come dicemmo parlando di questo Dio, ed ivi
notammo che per frastuono, stravizii ed ogni genere di follie non la cedevano alle più
effrenate Baccanti. E a chi si maravigliasse di sì spregevol razza di Dei diremo
soltanto che avendo i Mitologi ammessi anche gli Dei malefici, eran questi di certo
peggiori dei Satiri, per quanto poco esemplari. Siccome poi, come dicemmo fin da
principio, avevan foggiato i loro Dei a somiglianza degli uomini, così dopo averne
ideati dei buoni e dei scioperati e dei fannulloni, come da Esiodo son
chiamati i Satiri. Se questi eran poco esemplari come Dei, e molestavano le Ninfe
campestri e boscherecce, almeno non nuocevano ai mortali. E perciò son rammentati quasi
sempre scherzevolmente dai poeti, e per gli aneddoti che se ne raccontano rappresentati
come i buffoni e i pagliacci delle divinità pagane. Anche la loro
figura e il loro umore bizzarro e petulante si confaceva a tal qualificazione. Con
questo concetto e sotto questo punto di vista furono introdotti i Satiri nelle
Belle-Arti, quando cioè si volle rappresentare qualche cosa di giocoso e di bizzarro.
Gli Artisti per lo più nel rappresentare i Satiri non seguono servilmente le descrizioni
dei Mitologi, e studiansi di renderne meno sconcie le figure riducendole presso a poco
alla forma ordinaria degli uomini ; ma però con fattezze più proprie della razza
etiopica o malese, che della caucasica, e coi lineamenti caratteristici delle persone
rozze e impudenti.
Posson vedersi nella Galleria di Palazzo Pitti i Satiri di Tiziano nel suo quadro dei
Il Varchi nella sua elaboratissima Orazione funebre in
morte del Buonarroti, la quale egli recitò nella Chiesa di S. Lorenzo, così descrive
il gruppo del Bacco e del Satirino : Non sarà inutile l’osservare per chi studia
la propria lingua, che l’espressione ed inoltre è un vocabolo sempre vivente nel
linguaggio comune o dell’ uso. Può dunque convenire ad ogni genere di discorso e di
stile in prosa e in verso.Baccanali ; nella Galleria degli Uffizi il Satirino che di nascosto
pilucca l’uva a Bacco ebrio, gruppo di Michelangiolo, tanto lodato dal Vasari e dal
Varchi« Rarissimo e maravigliosissimo fu un
Bacco che egli, secondo che lo descrivono i poeti antichi,
fece di circa diciotto anni : il quale nella mano destra tiene sospesa in aria una
tazza ; la quale egli guata fiso, e disiosamente con occhi languidi e imbambolati
per berlasi tutta. Ha nel sinistro braccio una pelle indanaiata di tigre, e
co’polpastrelli, cioè colla sommità delle punte delle dita, regge penzo loni un
grappolo d’uva matura ; il quale un Satirino d’allegrissima
vista, che gli sta dai piè, si va a poco a poco, e quasi téma che egli nol vegga,
cautamente piluccando. »indanaiata di tigre,
riferibile a pelle, sebbene accolta e registrata nei Vocabolarii
italiani, putirebbe ora di lucerna e di affettazione, ed equivale alla più semplice
e più dell’uso comune pelle tigrata. Ma il verbo piluccare fu anche usato dall’Alighieri nel Canto
Purgatorio nella seguente
terzina :pilucca ; »cariatidi ; della qual parola dà una
bella spiegazione l’Alighieri nella seguente similitudine :
« Come per sostentar solaio o tetto « Per mensola talvolta una figura « Si vede giunger le ginocchia al petto, « La qual fa del non ver vera rancura « Nascere a chi la vede ; così fatti « Vid’io color, quando presi ben cura. »
Due Satiri posti per cariatidi si vedono in Firenze nella facciata di
un antico palazzo ora appartenente alla famiglia Fenzi. Nelle antiche Guide della Città,
uno di questi due Satiri era attribuito a Michelangelo.
I poeti italiani hanno introdotto i Satiri anche nelle Favole
pastorali, ossia in quelle drammatiche rappresentazioni, i cui personaggi erano
antichi pastori mitologici. Tra queste sono meritamente celebrate l’Aminta del Tasso e il Pastor fido del Guarini, in ciascuna
delle quali Favole trovasi
« …. Semiramis, di cui si legge « Che libito fe’licito in sua legge. »
I Naturalisti danno il nome di Orazio Satiri a certi insetti del genere dei
Lepidotteri diurni ; e i Retori o Letterati
chiamano Satira un componimento che ha per oggetto la censura più o
meno mordace degli altrui detti o fattisatiro, come lo chiama Dante, ossia celebre per le sue Satire, nel parlar di giudizii diversi che ne davano i suoi contemporanei,
così dice :
Sileni dicevansi i Satiri quand’eran vecchi ; e il più celebre di
questi è quel Sileno che fu Aio e compagno di Bacco in tutte le
spedizioni di proselitismo enologico. In pittura e in scultura neppur Sileno si
rappresenta mezzo capro, ma con forme ordinarie d’uomo, e solamente vi si aggiunge
qualche distintivo, come l’ellera, i corimbi, l’uva, i pampini, il tirso, ecc. Tale è
l’antica statua di Sileno col piccolo Bacco nelle braccia, che trovasi nella villa Pinciana, e di cui una copia in bronzo esiste nel primo vestibolo della
Galleria degli Uffizi in Firenze ; e come vedesi pure nel quadro dei Baccanali di Rubens, che è parimente nella stessa Galleria.
Il Dio Momo è da porsi vicino ai Satiri pel suo umor satirico ed
impudente. Il greco nome Momos datogli da Esiodo significa disdoro ossia disonore. Era in fatti spregevolissimo
come fannullone e maldicente ; e molto a proposito fu creduto figlio del Sonno e della Notte. Da prima era stato ricevuto nella corte
celeste come buffone degli Dei, ma poi freddure
che sono una miseria e uno sfinimento a sentirle. Era rappresentato con un berretto
frigio coi sonagli, un bastone ed una maschera in mano, distintivi significanti che egli
con sfrenata licenza plebea e con modi da pazzo censurava tutti, pretendendo di
smascherarne i vizii.
I Fauni erano antiche divinità campestri d’origine italicaFauno si fece derivare dal verbo fari (parlare) e si interpretò canere fata ossia
presagire : quindi si disse che Fauno rendeva gli oracoli, come riferisce anche
Virgilio nel lib. 7° dell’Eneide. La moglie di Fauno chiamavasi Fauna, ed aveva un tempio in Roma sotto il
nome di Dea Bona.Fauna per indicare complessivamente tutti gli animali che vivono in una
data regione, nel modo stesso che dicono la Flora per significare
tutti i fiori che si trovano nella regione medesima.
Anche i Silvani appartenevano alla stessa classe di campestri
divinità, e l’etimologia della parola li manifesta di origine latina (a
silvis). Virgilio nelle Georgiche invoca Silvano tra le divinità protettrici delle campagne, e accenna che per distintivo
portava in mano un piccolo cipresso divelto dalle radiciSilvane,
cupressum. »Virg.,
Nell’antico calendario
romano delle feste pagane il di 21 di aprile presentava queste tre
indicazioni : 1ª 2ª 3ª Anche Cicerone rammenta questo giorno natalizio di Roma
corrispondente alle Pale era la Dea dei pascoli e dei
pastoriPale da palea cioè dalla paglia, e i moderni
filologi tedeschi dal verbo pasco. Ai Critici l’ardua
sentenza !!placida Dea, come la chiama Tibulloplacidam
soleo spargere lacte Palem. »Tib., XI. kal. majas cioè undici giorni avanti le
calende di maggio, che significava, secondo l’uso latino di contare i giorni del
mese, il 21 di aprile.Palilia, vale a dire Feste Palilie, cioè in onore della Dea Pale.Romae Natalis, cioè giorno natalizio di Roma, ossia della sua
fondazione.Feste Palilie : « Urbis etiam nostrae
natalem diem repetebat ab iis Palilibus,
quibus eam a Romulo conditam accepimus. »
Vertunno, che davasi al Dio
delle stagioni e della maturità dei frutti, colla sua latina etimologia a
vertendo, (cioè dai cangiamenti operati dalle stagioni sui
prodotti della terra) dimostra l’origine italica e romana di questo Dio. Le sue feste si
celebravano nell’ottobre quasi in ringraziamento della già compiuta maturità dei più
utili frutti dell’anno. Opportunamente gli era data per moglie la Dea Pomona protettrice dei pomi, ossia dei frutti degli alberi.
Anche i fiori avevano la loro Dea, e questa chiamavasi Flora ad
indicarne col nome stesso l’ufficio. Era la stessa che la Dea Clori
dei Greci, il qual vocabolo fu tradotto con alterazione di pronunzia in quello latino di
Flora come asserisce OvidioChloris eram quae Flora vocor : corrupta
LatinoOvid., Zeffiro e ottenne da esso l’impero sui fiori. Le feste Florali cominciavano in Roma il 28 di aprile e duravano sino a tutto il dì 1° di
maggio, nei quali giorni v’era un gran lusso di fiori, di cui tutti facevano a gara a
cingersi la testa e ornarne le mense e perfino le porte delle case. L’immagine della Dea
Flora è simile a quella della Primavera : ha mazzi di fiori in mano,
una corona di fiori in testa, e fiori spuntano sul terreno ov’ella posa le piante.
Di mezzo alle più graziose fantasie poetiche degli antichi Mitologi ne spunta di tratto
in tratto qualcuna non egualmente felice, ed inoltre poco dignitosa per una divinità,
qual fu l’invenzione del Dio La bizzarria dell’ invenzione
e l’eleganza dello stile hanno fatto trovar posto a questa Satira in tutte le
edizioni anche Priapo. I Greci lo dissero figlio di
Venere e di Bacco e gli attribuirono l’ufficio di guardian degli orti, e perciò di
spaventare i ladri e gli uccelli. Ma gli aneddoti sconci ed abietti che raccontano di
lui servono tutti a ispirar dispregio anzi che venerazione per esso. Aveva Lampsaceno e Nume Ellespontiaco ; ed eragli immolato l’asino, vittima che si credeva a lui
gradita, in soddisfazione di uno sfregio che egli ricevè dall’asino di Sileno,
quantunque la pena ricadesse sugli altri asini innocentiCustodi ruris asellus :Hellespontiaco victima grata Deo. »Ovid., Orazio, in tutta la Satira 8ª
del Deus inde ego,
furum aviumqueMaxima formido ; nam fures dextra
coercet,ad usum Delphini.
Un Nume di origine romana, e simbolo vero e proprio della romana costanza, fu il Dio
Termine. Non era altro che un masso, o uno stipite di pietra
rozzamente squadrata, un Termine dal suo posto per
estendere i proprii possessi a danno di quelli dei vicini. Oltre l’esecrazione
religiosa, corrispondente alla scomunica maggiore, v’era la pena della deportazione in
un’isola e la confisca del bestiame e di una terza parte dei beni del condannato.
Il Dio Termine aveva in Roma una cappella a lui sacra nel tempio di
Giove Capitolino, il quale era situato, come affermano gli archeologi, ove ora esiste la
chiesa di Ara Coeli. Le Feste Terminali eran
celebrate agli ultimi di febbraio, che fu per lungo tempo l’estremo mese dell’anno,
poiché quando Numa vi aggiunse i mesi di gennaio e di febbraio, fece precedere il
gennaio e seguire il febbraio ai dieci mesi dell’anno di Romolo. Con tali feste
terminavano anticamente il loro anno i Romani ; e queste coincidevano in appresso con
quelle della cacciata dei reOrazio accenna
che nelle Feste Terminali sacrificavasi una
agnella :Epod.,
Ovidio
descrive a lungo le stesse Feste nel libro 2° dei Fasti. Ne
riporto alcuni distici dei più notabili per chi studia il latino, o come grata
reminiscenza per chi l’ha studiato :caesa communis Terminus agna,
Nel parlar delle Divinità marine notammo che v’erano seimila Ninfe Oceanitidi e alcune centinaia di Nereidi e di Doridi, oltre all’aver detto anche prima, che Giunone aveva per suo corteo
quattordici Ninfe, Diana cinquanta e Cerere e Proserpina non si quante. Parrebbe dunque
che l’argomento delle Ninfe dovesse essere esaurito. Ma non è così, perchè v’è ancora da
parlare delle Ninfe dei monti, delle valli, delle fonti, dei boschi e perfino degli
alberi. Perciò il loro numero non potrebbero dirlo nemmeno i più valenti Geografi, in
quanto che non sono stati a contar sul globo tutte le fonti, e tanto meno tutti i boschi
e boschetti, a cui pur presiedevano almeno altrettante Ninfe.
Ninfa è parola di origine greca, che fu adottata dai Latini e
conservata dagli Italiani nello stesso duplice Dea inferiore e di giovane donna,
perchè credevasi che le Ninfe non invecchiassero mai. Perciò si trovan sempre
rappresentate come giovinette ingenue, semplicemente vestite, e tutt’al più ornate di
fiorellini campestri come le pastorelle.
Ammettevano per altro i Mitologi un grande assurdo, che cioè queste Divinità potessero
morire ; il che è una contradizione in termini teologici. Erano meno assurdi i
romanzieri del Medio Evo, che avendo inventato le Fate con potenza
soprannaturale benchè limitata, credevano che non morissero mai :
« Morir non puote alcuna fata mai, »
disse l’Ariosto, che di Fate se ne intendeva.
Gli appellativi di Oreadi, Napee, Naiadi e Driadi,
che si diedero alle Ninfe, indicano col loro significato a quali cose queste Dee
presiedevano ; poichè derivano da greci nomi significanti monti, valli,
acque, quercie, e per catacresi, ossia abusivamente o
estensivamente, alberi. Amadriadi poi è un greco vocabolo composto,
che significa insiem colla quercia, o come si è detto di sopra,
coll’albero ; e davasi questo titolo a quelle Ninfe la cui esistenza
era legata alla vita vegetativa di una data pianta ; inaridendosi la quale, oppure
essendo recisa o arsa, periva ad un tempo la Ninfa Amadriade. — Questi
termini essendo significativi degli attributi speciali di quelle Ninfe a cui erano
assegnati, conviene che li tengano a memoria anche coloro che non studiano le lingue
dotte, perchè li adoprano non solo i poeti greci e i latini, ma altresì, benchè più di
rado, gl’ italiani.
Molte di quelle Ninfe a cui fu dato un nome proprio dai Mitologi e dai poeti furono da
noi rammentate sinora : qui torna in acconcio di far parola di qualche altra che non
troverebbe luogo più opportuno altrove. Tra le quali son da rammentarsi pel loro proprio
nome le Ninfe che ebbero Amaltea e Melissa. Queste nutrirono l’infante Nume
col latte di una capra detta comunemente Amaltea dal nome di una di
queste due Ninfe a cui apparteneva. La qual capra fu poi da Giove trasportata in Cielo e
cangiata nella costellazione del Capricorno, segno dello Zodiaco, corrispondente al
solstizio invernale, e che rifulge di sessantaquattro stelle. Alcuni Mitologi dicono che
anche la Ninfa Amaltea fosse cangiata insieme con la sua capra in quella
costellazioneCapra, è detta il Capricorno ; la qual parola
composta starebbe a significare il corno della capra, o la capra con un corno, per alludere alla favola, che alla capra nutrice
di Giove essendosi rotto un corno, Giove ne fece un regalo alle Ninfe che ebbero cura
della sua infanzia, attribuendo al medesimo il mirabil prodigio di versar dalla sua
cavità qualunque oggetto desiderato dalla persona che lo possedeva. Questo corno fu
detto in latino cornucopia, e in italiano più comunemente il corno dell’abbondanza, come significa la parola latina. — A Giove
stesso fu dato dai Greci l’appellativo di Egioco, che alcuni
interpretano nutrito dalla Capra ; il qual termine per altro non fu
adottato dai Latini, e l’usò soltanto qualche moderno poeta italiano.Melissa poi raccontano che fosse stata la prima a scuoprire il
miele in un alveare dentro un albero incavato o corroso dalla
vecchiezza ; e che essa poi fosse cangiata in ape.
La favola della Ninfa Eco cangiata in voce è raccontata anche in un
modo diverso da quello che accennammo nel Cap. XXXIV ; ed è collegata colla favola di
Narciso. E poichè Dante allude ad ambedue queste favole nella Divina Commedia, è necessario il farne qualche cenno.
La Ninfa Eco figlia dell’ Aere e della Terra si era invaghita del giovane Narciso figlio della Ninfa
Liriope e del fiume Cefiso ; il qual Narciso era
così vano della propria bellezza che non amava che sè stesso e disprezzava superbamente
ogni persona. La Ninfa Eco se ne afflisse tanto, e si consumò talmente
dal dolore, che di essa vi rimase la Dante nel
Canto Paradiso coi seguenti versi :
« A guisa del parlar di quella vaga (la Ninfa Eco)« Ch’amor consunse come Sol vapori ; »
e fa questa similitudine per dar la spiegazione che quando compariscono nel Cielo due
Iridi, o come dice Dante :
« Due archi paralleli e concolori « Nascendo di quel d’entro quel di fuori, »
ciò avviene per riflessione dei raggi della luce, come il parlar dell’ Eco per riflessione del suon della voce.
Quanto poi all’orgoglioso amor proprio di Narciso, la Mitologia
inventò molto a proposito che egli ne fu punito coll’essersi innamorato della propria
immagine, veduta nello specchio delle acque di una fonte, e che credendola una Ninfa
stette tanto a guardarla che ivi morì di estenuazione e fu cangiato nel fiore che porta
il suo nome. Dante allude più d’una volta a questa favola, come, per
esempio, nel Canto Inferno, ove un dannato dice ad
un altro :
« Che s’io ho sete, e umor mi rinfarcia, « Tu hai l’arsura e ‘l capo che ti duole, « E per leccar lo specchio di Narcisso(cioè l’acqua)« Non vorresti a invitar molte parole. »
E nel Canto III del Paradiso, descrivendo le anime beate che egli
vide nel globo lunare, dice che gli eran sembrate immagini riflesse dall’
acque nitide e tranquille, anzi che esseri di per sè esistenti, conchiudendo con
la seguente osservazione tratta dalla favola di Narciso :
« Perch’io dentro l’error contrario corsi « A quel che accese amor tra l’ uomoe ‘lfonte; »
cioè tra Narciso e l’immagine sua reflessa dall’acqua.
Galatea è molto rammentata,
specialmente dai poeti latini, come una delle più belle Ninfe ; e dicono che se ne fosse
invaghito quel mostruoso gigante Polifemo che fu re dei Ciclopi ; ma
vedendosi preferito il pastorello Aci, lo uccise gittandogli sopra
dall’ alto di un monte un macigno. Gli Dei cangiarono Aci in fiume che
scorre nella Sicilia. I pittori hanno gareggiato a rappresentar Galatea di bellissime forme, ed una delle più belle è quella che vedesi nella
Galleria degli Uffizi in Firenze.
Le Ninfe oltre ad esser giovani e belle, erano anche generalmente buone e cortesi ; e
perciò tanto nelle lingue antiche quanto nelle moderne, e specialmente nella nostra,
questo termine di Ninfa, anche nel senso traslato, cioè non
mitologico, ha sempre un significato favorevole. Tant’è vero che Dante l’assegnò perfino
alle Virtù Cardinali, che sotto forma ed abito femminile
accompagnavano Beatrice ; e fa dire alle medesime nel canto Purgatorio :
« Noi sem qui Ninfee nel Ciel semo stelle :« Pria che Beatrice discendesse al mondo. « Fummo ordinate a lei per sue ancelle. »
E nel rammentar questo passo il can. Bianchi, che fu segretario dell’Accademia della
Crusca, così lo spiegò : Le virtù morali sono ninfe nella vita mortale, che abbellano e felicitano, operando, l’umanità ; sono
stelle nel Cielo, da cui derivano e dove Dio le premia. » La quale spiegazione dimostra
che ad un teologo, e al tempo stesso elegante scrittore, parve opportunamente adoprata
in verso e in prosa la parola Ninfe anche in argomento religioso.
Tanto più dunque, concluderemo, in soggetti profani.
Infatti, anche gli Scienziati trovarono da far nuove applicazioni del significato di
questo nome e da formarne vocaboli derivati e composti. Gli Zoologi nello studiarsi
d’indicare con nomi diversi le successive metamorfosi di certe ninfa per significare l’insetto nello stato intermedio fra quello
di larva e lo stato estremo o perfetto ; e dimostrarono così di aver
bene inteso che le Ninfe mitologiche non eran perfette divinità, ma in
una condizione media fra quella degli uomini e quella degli Dei supremi. Stabilita la
base, e lieti della prima applicazione bene appropriata, presero coraggio a metterne
fuori anche altre, e diedero il nome di Ninfale a un genere di Lepidotteri diurni della tribù dei Papilionidi ; e poi
al Ninfale del pioppo (N. populea) assegnarono anche
un altro nome più familiare e comune, tratto parimente dalla Mitologia, vale a dire Gran Silvano.
I Botanici anch’essi nel determinare la nomenclatura delle piante aquatiche si
ricordarono di aver trovato nella Mitologia, o in qualche classico, certe Ninfe
dell’acqua, o che stavano nell’acqua, (il nome preciso di Naiadi non
pare che lì per lì lo avessero ben presente) e si affrettarono a chiamar Ninfèa una pianta aquatica (detta altrimenti Nenufar e
volgarmente giglio degli stagni), e ne fecero il tipo della famiglia
delle Ninfacee, ossia delle piante erbacee aquatiche congeneri alla
Ninfèa.
In Architettura poi sin dal tempo dei Classici greci e latini chiama vasi Ninfèo non solo il tempio sacro alle Ninfe, ma altresì una particolar
costruzione architettonica, o fabbrica sui generis, destinata il più
spesso ad uso di bagni, annessa ai palazzi e alle ville dei più doviziosi cittadini,
ove, oltre le acque scorrenti in ruscelli e zampillanti in fontane (e necessariamente le
vasche e i bacini), aggiungevansi per ornamento e statue e vasi e talvolta ancora un
tempietto dedicato alle Ninfe.
Se i Mitologi ed i poeti inventarono le Divinità delle fonti, tanto più è presumibile
che non avranno mancato d’immaginare gli Dei dei Fiumi. E quanto ai nomi li presero
dalla Geografia, vale a dire adottarono quegli stessi nomi che avevano i diversi fiumi
nei diversi paesi. Supposero che questi Dei abitassero negli antri donde usciva la
sorgente del fiume, la quale chiamavasi poeticamente il Tibullo ne dimanda al Nilo
stesso : Parlata del
Tevere ad Enea, quando gli comparve in sogno :capo. Tibullo
si maravigliava che il Padre Nilo nascondesse il suo
capo in ignote terreNile pater, quanam possum te dicere
causa,Padre Nilo si diverta a far capolino tra i monti
dell’Abissinia e si ritiri sempre un poco più in là. Il Padre Tebro
poi, ossia il fiume Tevere, era un personaggio molto serio, ed in
certi casi anche un poco profeta. Nell’Eneide parla divinamente nel
suo linguaggio originale, come lo fa parlare VirgilioEgo sum, pleno quem flumine cernisCœruleus Tibris, cœla
gratissimus amnis.Virg.,
Virgilio inoltre si dà premura di
presentarci ancora il ritratto del Dio Tevere,
« ….. che già vecchio al volto « Sembrava. Avea di pioppo ombra d’intorno ; « Di sottil velo e trasparente in dosso « Ceruleo ammanto, e i crini e ‘l fronte avvolto « D’ombrosa canna . » Ecco l’originale latino :
« Populeas inter senior se attollere frondes « Visus. Eum tenuis glauco velabat amictu, « Carbasus et crines umbrosa tegebat arundo. » ( Æneid. ,viii , v. 32 …)
Tra i Fiumi della Grecia ve n’erano alcuni molto bizzarri. Il fiume invoca nel 1° verso della
famosissima Egloga 4ª le Muse Siciliane : e nell’ultima Egloga la Ninfa
Alfeo, per esempio, essendosi invaghito della Ninfa AretusaVirgilio che nelle sue Egloghe imitò Teocrito’ Siracusano, (e lo dice egli stesso al
principio dell’ Egloga 6ª in questi due versi :Syracosio dignata est ludere versuSicelides
Musœ, paulo majora canamus ; »Aretusa, perchè Dea siciliana :Arethusa, mihi concede laborem. »Guadiana, che dopo 50 chilometri di corso dalla sua
origine sparisce in un canneto presso Tomelioso, e alla distanza di
24 chilometri esce nuovamente dalla terra gorgogliando ; e quelle aperture del terreno
son chiamate gli occhi della Guadiana.Acheloo fu battagliero quanto Rodomonte, e osò venir tre volte a singolar
tenzone con Ercole per ottenere a preferenza di lui Deianira in isposa. E di questa
pugna dovremo parlare altrove più a lungo.
I fiumi poi della Troade eran piccini, ma furiosi. Omero ci racconta che il fiume Xanto (chiamato altrimenti lo ScamandroXanto è il nome più antico, e lo Scamandro il più moderno. Tale è l’opinione di Vibio, di Plutarco e di altri ;
ma Plinio il naturalista afferma che lo Scamandro era un fiume
navigabile diverso dal Xanto. I moderni Geografi, non che i
Letterati e gli Archeologi, per quanto abbiano visitato e studiato diligentemente la
Troade, non si trovano d’accordo nel riconoscere e determinare i celebri fiumi di
quella classica terra. Nè ciò deve recar maraviglia. I fiumi abbandonati a sè stessi
per tanti secoli spesso mutano direzione e si aprono un nuovo corso, o perchè restò
colmato il loro antico alveo dalle piene, o per fenomeni geologici che abbiano
alterato la superficie e la pendenza del terreno.Simoenta, suo fratello, di annegar quell’Eroe nelle loro acque ; ed avrebbe
ottenuto l’intento, se non accorreva Vulcano con una gran fiamma a vaporizzarle. E
poichè è un’alta gloria di tremendissimo Achille, che non aveva paura di
alcuno, non sarà discaro il sentire con quale impetuosa eloquenza il Xanto incoraggiava il fratello Simoenta ; e poi quanto fu
grande lo sgomento di Achille che disperatamente si lamentava, e pietosamente si
raccomandava agli Dei che lo salvassero.
Nel libro Iliade (trad. del Monti) così parla il
Xanto al Simoenta :
« Caro germano, ad affrenar vien meco « La costui furia, o le dardanie torri « Vedrai tosto atterrate, e tolto ai Teucri « Di resister la speme. Or tu deh ! corri « Veloce in mio soccorso, apri le fonti, « Tutti gonfia i tuoi rivi, e con superbe « Onde t’innalza, e tronchi aduna e sassi, « E con fracasso ruotali nel petto « Di questo immane guastator, che tenta « Uguagliarsi agli Dei. Ben io t’affermo « Che nè bellezza gli varrà nè forza « Nè quel divin suo scudo, che di limo « Giacerà ricoperto in qualche gorgo « Voraginoso. Ed io di negra sabbia « Involverò lui stesso, e tale un monte « Di ghiaia immenso e di pattume intorno « Gli verserò, gli ammasserò, che l’ossa « Gli Achei raccorne non potran : cotanta « La belletta sarà che lo nasconda. « Fia questo il suo sepolcro, onde non v’abbia « Mestier di fossa nell’esequie sue. « Disse, ed alto insorgendo, e d’atre spume « Ribollendo e di sangue e corpi estinti, « Con tempesta piombò sopra il Pelide.« ………………… « Levò lo sguardo al Cielo il generoso « Ed urlò : Giove padre, adunque nullo « De’numi aita l’infelice Achille « Contro quest’onda ! Ah ! ch’io la fugga, e poi « Contento patirò qual sia sventura. « Ma nullo ha colpa de’Celesti meco « Quanto la madre mia che di menzogne « Mi lattò, profetando che di Troia « Sotto le mura perirei trafitto « Dagli strali d’Apollo ! Oh foss’io morto « Sotto i colpi d’Ettorre, il più gagliardo « Che qui si crebbe ! Avria rapito un forte « D’un altro forte almen l’armi e la vita. « Or vuole il Fato che sommerso io pera « D’oscura morte, ohimè ! come fanciullo « Di mandre guardïan cui ne’piovosi « Tempi il torrente, nel guadarlo, affoga. »
Avremo da parlar tanto delle prodezze di Achille (invidiato dallo stesso Alessandro il Grande per la singolar fortuna di averne per banditore Omero), che non vi sarà spazio a raccontar questa sua unica paura, che trova qui posto più opportuno, parlandosi delle prodezze e dei vanti dei fiumi della Troade.
Se dovessimo prendere ad esaminare le diverse opinioni degli eruditi intorno a questi
Dei, faremmo un lavoro arduo e poco piacevole, e poi senza alcun frutto, perchè non è
possibile conciliarle tra loro, nè scuoprire chi meglio
Virgilio che nell’Eneide ha eternato co’suoi
impareggiabili versi le origini mitologiche del popolo romano secondo le più comuni
credenze antiche, fa derivare da Troia gli Dei Penati ; e da quel che
egli ne scrive s’intende chiaramente che questi erano speciali Dei protettori della
città, poichè fa dire ad Enea dall’ombra di Ettore, che Troia affida ad
esso i suoi Penati ; e inoltre gli comanda che cerchi loro altre
terre, erga altre murasuosque tibi commendat Troia Penates :his mœnia quære,patrii Penatipatriosque
Penates. »Frigii Penatiphrygiique Penates,
« Era nel mezzo del palagio all’aura « Scoperto un grande altare, a cui vicino « Sorgea di molti e di molt’anni un lauro « Che co’rami all’altar facea tribuna, « E coll’ombra a’ Penatiopaco velo. » « Ædibus in mediisnudoque sub ætheris axe« Ingens ara fuit, juxtaque veterrima laurus « Incumbens aræ, atque umbra complexa Penates. » ( Æneid. ,ii , 512….)
Ma se il capo dello Stato onorava di un culto speciale gli Dei protettori della sua
città e del suo regno, questo fatto non toglie agli Dei Penati il loro
carattere generale e il loro principale ufficio, che essi non avrebber perduto ancorchè
in ogni famiglia avessero ricevuto un simil culto. Infatti non è proibito nemmeno nella
religion cristiana l’eriger private cappelle in onore del santo patrono della città o
dello Stato. Con tal distinzione sparisce ogni dubbio sul vero e proprio ufficio
attribuito dai Pagani agli Dei Penati. Anzi ne deriva al tempo stesso la spiegazione
come avvenga che talvolta in qualche Classico latino si annoverano tra gli Dei Penati
taluni degli Dei superiori o maggiori, come Giove, Marte, Nettuno ecc. Vedemmo altrove
che lo stesso Dante rammenta Marte come il primo patrono di Firenze,
che poi i cittadini divenuti cristiani cangiarono nel Battistanel
Battistaprimo padrone ; ond’ ei per
questoPenati è soltanto un
attributo o aggettivo che corrisponde, non già per l’etimologia, ma pel significato e
per l’effetto creduto, alla parola protettori, o patroni : quindi per tale ufficio poteva scegliersi qualunque Nume dei più noti
e celebri.
« ……. da quel giusto « Figliuol d’Anchise che venne da Troia, »
lasceremo decidere ai solenni filologi di professione se il vocabolo stesso Ecco le precise
parole di Penati discenda in linea retta o collaterale dal troiano linguaggio,
come i Romani dai Troiani. E poichè Cicerone, a cui parrebbe che questa squisitezza
filologica avesse dovuto importare più che a noi, non vi pensa nè punto nè poco, e ci
dice soltanto che la voce Penati deriva da due vocaboli latini
usitatissimi (penus e penitus), senza aggiungere che
questi fossero d’origine troiana, bisognerà per ora starsene a quel che egli ne scrisse,
e credere sulla sua parola che l’etimologia di quel termine fosse latina, e alludesse al
vital nutrimento degli uomini dai Penati protetti, ovvero alla parte più interna dei
tempii e delle case ove questi Dei erano adoratiCicerone, De Nat. Deorum,
lib. « Nec longe absunt ab hac vi dii
Penates, sive a penu ducto nomine (est enim omne
quo vescuntur homines penus), sive ab eo quod penitus insident : ex quo etiam penetrales a poetis
vocantur. »Palladio, sacre reliquie troiane, che nessun vide giammai, ma nella cui
esistenza tutti credevano ; — e quando si tratta di credere, non v’è bisogno di
dimostrazione ; sola fides sufficit. Quindi l’espressione rituale dei
politeisti i sacri penetrali corrisponde al sancta
sanctorum dei monoteisti ; quindi il comun verbo penetrare
significa lo spingersi addentro nei più riposti recessi dei luoghi o dei pensieri.
Chi non è affatto ignaro della lingua latina sa bene quanto differiscano fra
loro le due parole Nella corruzione della lingua
latina Lari, che questi fossero Dei
familiari o domestici non può insorger questione, poichè li consideran tali tutti i
Mitologi ed i poeti latini e pur anco gl’ Italiani : lo stesso Ugo
Foscolo, peritissimo nelle lingue dotte e per conseguenza anche nella Mitologia,
li chiama nel suo Carme I Sepolcri, come abbiamo veduto altrove, i domestici Lari. Sappiamo poi che nelle case dei più ricchi politeisti
romani v’era il Larario, ossia la cappella dei Lari ; e nelle altre,
almeno un tabernacolo colle statue o immagini di questi Dei, le quali spesso ponevansi
ancora dentro certe nicchie nei focolari, parola questa che alcuni
etimologisti notano come composta colla voce Lariignis e focus. Ignis è la
materia combustibile in ignizione, il fuoco : focus è il luogo
dove il fuoco si accende, il focolare. Questa differenza si trova
chiaramente esemplificata in questo pentametro di Tibullo
(lib. Eleg.,focus cominciò ad essere usato invece di ignis, e foculare invece di focus.
Infatti nel dizionario delle parole barbare troviamo spiegata la voce foculare : « locus ubi focus accenditur. »
Questa parola foculare, che era ed è barbara in latino, è divenuta la pura e
schietta parola italiana focolare.
La questione per altro verte intorno all’etimologia del nome ed alla origine di questi
Dei, poichè v’è chi li crede così chiamati, perchè figli della Ninfa Lara o Larunda, ed altri ne derivano il nome da Lar antica parola etrusca che significa capo o principe. Chi non la pretende a filologo è indifferente per l’una o per l’altra
etimologia ; ma quanto all’origine e alla particolar natura di questi Dei nessuno potrà
convenire di dover confondere i Penati coi Lari,
come fanno alcuni Eruditi. Oltre la diversa origine, troiana dei
primi, etrusca o italica dei secondi, e le
caratteristiche bene accertate degli Dei Penati, come abbiamo veduto di sopra, si
potrebbero Penati e dei Lari. Vero è che potrebbe citarsi ancora qualche esempio in contrario ;
ma qualche rara eccezione non distrugge mai la regola generale ; e a sostegno di questa
terminerò coll’ esaminare una filosofica osservazione di Cicerone,
nel lib. Repubblica, ov’egli parla, per dirlo colla
frase del Romagnosi, dei fattori dell’ Incivilimento. Tra questi egli
annovera il culto degli Dei Penati e dei Lari familiari ; e aggiunge
che nella pratica applicazione questi Dei rappresentano i comuni ed i
privati vantaggi della social convivenza. Perciò, oltre al distinguer gli Dei Penati dagli Dei Lari, e decider così la question
mitologica sulla diversa loro personalità, viene ancora a significare che i primi eran
protettori dei diritti del cittadino, ed i secondi di quelli del padre di famiglia ;
senza dei quali, come egli sapientemente dichiara, non può esser buona una
repubblica, nè ben viversi in essasanctis
Penatium deorum Larumque familiarium sedibus, ut omnes et communibus commodis et
suis uterentur, nec bene vivi sine bona republica posset, nec esse quicquam
civitate bene constituta beatius. » — (De Repub., lib. v,
cap. 5).
Non bastò ai Greci ed ai Romani politeisti, dopo aver considerata l’Aria come uno dei 4 elementi del Caos, il farne anche una Dea, che, sposato il
Giorno (sinonimo di luce), produsse Urano, ossia il Cielo ; in quanto che osservando in appresso che nell’aria
esiste
« Quell’ umido vaporche in acqua riede, »
Giove
Pluvio ; ed inoltre, poichè l’aria, movendosi,
« ….. or vien quinci ed or vien quindi, « E muta nome perchè muta lato, »
e produce il fenomeno dei Venti, vollero deificare anche questi.
Riconobbero però facilmente che la maggior parte di questi Dei eran molto turbolenti,
producendo in mare orribili tempeste, e sulla terra bufere e devastazioni ; e che perciò
v’era bisogno che fossero sottoposti a qualche altra più potente divinità che li
raffrenasse ; diversamente, come dice Virgilio,
« ….. Il mar, la terra, e ‘l cielo « Lacerati da lor, confusi e sparsi « Con essi andrian per lo gran vano a volo. « Ma la possa maggior del padre eterno « Provvide a tanto mal ; serragli e tenebre « D’abissi e di caverne e moli e monti « Lor sopra impose ; ed a re tale il freno « Ne diè, ch’ei ne potesse or questi or quegli « Con certa legge o rattenere o spingere. » « Ni faciat, maria ac terras cœlumque pr ofundum « Quippe ferant rapidi secum, verrantque per auras. « Sed Pater omnipotens speluncis abdidit atris, « Hoc metuens ; molemque et montes insuper altos « Imposuit ; regemque dedit, qui fœdere certo « Et premere, et laxas sciret dare jussus habenas. » ( Æneid. , I, v. 58).
Questa regione o carcere dei Venti, secondo lo stesso poeta,
« È nell’ Eolia, di procelle e d’austri« E delle furie lor patria feconda. « Eolo è suo re, ch’ivi in un antro immenso « Le sonore tempeste e i tempestosi « Venti, siccome è d’uopo, affrena e regge. « Eglino impetuosi e ribellanti « Tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito, « Che ne trema la terra e n’urla il monte. « Ed ei lor sopra realmente adorno « Di corona e di scettro, in alto assiso « L’ira e gl’impeti lor mitiga e molce. » « Nimborum in patriam, loca feta furentibus Austris, « Æoliamvenit. Hic vasto rexÆolusantro« Luctantes ventos tempestatesque sonoras « Imperio premit, ac vinclis et carcere frœnat. « Illi indignantes magno cum murmure montis « Circum claustra fremunt. Celsa sedet Æolus arce « Sceptra tenens, mollitque animos, et temperat iras. » ( Æneid. , I, v. 51).
Questa regione dell’Eolia non è già quella dell’Asia Minore situata
fra la Troade e l’Ionia, e detta più anticamente la Misia, ma
corrisponde al gruppo delle isole chiamate ancora oggidì Eolie, o di
Lipari, nel mar Tirreno fra la Sicilia e l’Italia. Il nome stesso di Eolo, che deriva da un greco vocabolo significante vario o mutabile, allude alle successive mutazioni dei venti che predominano in
quelle isole.
Anche Omero, nel libro X dell’Odissea, dice che
Eolo
« …. de’venti dispensier supremo « Fu da Giove nomato ; ed a sua voglia « Stringer lor puote o rallentare il freno. »
Ma gli attribuisce un genere di vita più patriarcale, e gli assegna un soggiorno più
poetico ed ameno, quantunque nella stessa regione insulare. Non è tempo perduto, nè fia senza diletto leggerne o rileggerne l’omerica descrizione :
« Giungemmo nell’ Eolia, ove il diletto« Agl’immortali Dei d’
Ippotafiglio,Perciò i poeti latini usano il patronimico
Hippotades, invece del nome diEolo, come per es.Ovidionel lib.iv delleMetamorfosi:« Clauserat Hippotadesæterno carcere ventos. »Orazio chiama
Eoloventorum pater, volendo colla parolapatersignificareDeus, secondo che abbiamo detto altra volta spiegando il titolo dipadredato ad Apollo anche da Dante ; e per la stessa ragione Virgilio appella Giovepater omnipotens.« Eolo, abitava in isola natante, Abbiamo parlato altra volta delle isole natantiogalleggianti, e precisamente nel N° XVI, a proposito dell’isola diDelo, che Pindaro fu il primo a chiamarnatante. Ora vediamo che anche Omero 4 secoli e mezzo prima di Pindaro aveva notizia delle isolenatanti, e credeva tale una delle 7 isoleEolie.« Cui tutta un muro d’infrangibil rame, « E una liscia circonda eccelsa rupe. « Dodici, sei d’un sesso e sei dell’altro, « Gli nacquer figli in casa ; ed ei congiunse « Per nodo marital suore e fratelli, « Che avean degli anni il più bel fior sul volto. « Costoro ciascun dì siedon tra il padre « Caro e l’augusta madre, ad una mensa « Di varie carca delicate dapi. « Tutto il palagio, finchè il giorno splende, « Spira fragranze, e d’armonie risuona ; « Poi, caduta sull’isola la notte, « Chiudono al sonno le bramose ciglia « In traforati e attappezzati letti « Con le donne pudiche i fidi sposi. »
Alcuni Mitologi dissero che Eolo era figlio di Giove e di Segesta figlia d’Ippota troiano ; e che i Venti fossero figli di Astreo, uno dei Titani, e dell’Aurora ; e quelle loro Venti avessero mosso guerra a Giove ; ma i poeti
trovaron poco spiritosa questa invenzione e la trascurarono affatto. E pochi altri fatti
mitologici ne raccontano, perchè hanno trovato difficile di attribuire ai Venti distinte
personalità e porle in azione. Soltanto del più impetuoso e del più mite fra loro, cioè
di Borea e di Zeffiro, narrano brevemente qualche
fatto. Di Borea dicono che rapì la Ninfa Orizia
figlia di Eretteo re di Atene, e n’ebbe 2 figli chiamati Calai e Zete, di cui dovremo parlare nella spedizione degli
Argonauti. La spiegazione più semplice e più naturale del ratto di Orizia è, secondo Platone, che questa infelice principessa rimanesse vittima di
una tempesta o di un uragano. Di Zeffiro abbiamo già
detto altrove che egli sposò la Dea Flora e le diede potestà sui
fiori ; e questa favola significa soltanto che il tepido vento chiamato Zeffiro o Favonio favorisce la vegetazione delle piante fanerogame, cioè che producono fiori.
Poichè tutti i poeti epici han per costume di descrivere qualche tempesta in cui
inevitabilmente incappano sempre i loro protagonisti o altri dei più
famosi eroi, perciò Eolo ed i Venti figurano molto
in tali descrizioni dei poeti pagani, e principalmente in Omero e in Virgilio. E siccome
i nomi che diedero i Greci e i Latini ai Venti sono per lo più
adottati anche dai poeti italiani, e inoltre ne derivaron o molte denominazioni
geografiche, non sarà inutile il farne brevemente la rassegna.
I 4 Venti principali, rammentati anche da Omero, sono Borea, Noto,
Euro e Zeffiro, nomi adottati dai Latini e conservati nella
poesia italiana ed in alcune denominazioni scientifiche. Corrispondono ai Venti di tramontana, ostro, levante e ponente che spirano dai 4 punti cardinali nord, sud, est,
ovest. Il nome greco è significativo delle qualità distintive di ciascuno di
essi : Borea significa fremente ; Noto, umido ;
Euro, abbronzante ; Zeffiro, oscuro.Ovidio ne determina egregiamente la direzione secondo i 4 punti cardinali
nei 2 seguenti distici :Eurus ab ortu,Zephyrus sero vespere missus
adest.Boreas bacchatur ab Arcto,Notus adversa prœlia fronte gerit. »Argeste (che vuol dir sereno, e secondo altri
grecisti veloce) ; e siccome in quel poeta non si trova nominato il
vento Euro, alcuni Eruditi hanno detto che è sinonimo di questo., Ma
Plinio il Naturalista afferma che l’Argeste greco corrispondeva al Cauro o Coro dei Latini, ossia al ponente-maestro (nord-ovest).
Gli Antichi non conoscevano i 32 Venti notati e distinti dai Geografi
e dai Navigatori moderni, ma soltanto 12 bene accertati, ristrettissima essendo e timida
la loro navigazione, perchè andavano per lo più costeggiando, e poco si azzardavano in
alto mare. Non immaginavano neppure l’esistenza del Grande Oceano ; non avevan mai
passata la linea nell’Oceano Atlantico ; e il non plus ultra delle
colonne d’Ercole li tratteneva ancora dal passar lo stretto di Gades (ora di Gibilterra)
e dall’andar navigando lungo le spiaggie occidentali dell’Affrica.
I Geografi moderni non si accordano nell’assegnare il corrispondente nome latino o
greco ai diversi Venti ora conosciuti e contrassegnati nella così
detta Rosa dei Venti ; e la ragione è questa, che gli Antichi stessi
furono incerti nel determinare da qual punto preciso quei Venti da loro notati e
denominati spirassero ; e poi perchè invece di fare in principio la bisezione
dell’angolo retto fra i punti cardinali e quindi suddividerlo, ne
fecero la trisezione, ossia lo divisero in 3 : quindi è matematicamente impossibile il
far corrispondere i loro punti intermedii a quelli determinati dai ne quid
Respublica detrimenti capiat ! A noi basterà di conoscere in qual quadrante, (come dicono in oggi nelle tavole meteorologiche),
ossia dentro quale degli angoli retti formato dai punti cardinali spirassero quei loro
Venti intermedii.
Fra Borea ed Euro spiravano Aquilone e Volturno ; fra Euro e Noto, Subsolanus e Austro ; fra Noto o Zeffiro, Affrico o Libico e Favonio ; fra Zeffiro e
Borea, Cirico o Iapige e Cauro o Coro. È da notarsi però che talvolta gli
Autori e specialmente i poeti, nominano l’un per l’altro quei Venti
che spirano tra lor più vicini, ossia usano i loro diversi nomi come sinonimi di uno
stesso Vento. Così fanno sinonimi Borea ed Aquilone ;
Austro e Noto ; Zeffiro e Favonio, ecc. Più esatto di tutti è Dante, perchè più scienziato, e inoltre
impareggiabile anche in astronomia. Egli infatti colle indicazioni astronomiche ci fa
conoscere non solo i giorni del suo viaggio allegorico, ma pur anco le ore diverse di
quei giorni. Quand’egli dice nel Canto Inferno,
« Che i Pesciguizzan su per l’orizzonta« E’l Carrotutto sovra’lCorogiace, »
accenna con precisione astronomica che eran due ore prima dello spuntar del Sole in
quel giorno del mese di marzo che aveva prima indicato, poichè appunto in quell’ora che
egli voleva significare appariva la costellazione dei Pesci
sulorizzonte, e inoltre la costellazione del Carro, ossia dell’Orsa maggiore giaceva tutta sovra’l Coro, cioè fra
settentrione ed occidente, ossia presso a poco a ponente-maestro o nord-ovest, come ora direbbesi. E quando nel Canto Purgatorio vuole affermare che i 7 celesti candelabri ardenti non li
spengerebbero i più opposti e gagliardi venti, egli dice
« Che son sicuri d’ Aquilonee d’Austro, »
Divina Commedia anche un cenno della favola di Eolo re dei Venti, secondo ciò
che ne scrive il suo maestro Virgilio nei versi da noi citati in principio di questo
Numero, poichè invece di dire prosaicamente che soffia o spira il vento di Scirocco,
orna ed abbellisce il suo concetto con questa perifrasi mitologica :
« Quand’ EoloScirocco fuor discioglie. »
Questi tre termini di Semidei, Indigeti ed Eroi si
trovano usati talvolta indistintamente l’uno per l’altro, benchè differiscano tra loro
non solo etimologicamente, ma pur anco per certe speciali condizioni, che converrà prima
di tutto accennare.
Semidei, parola latina conservata senza alterazione ortografica nella
lingua italiana, è traduzione del greco vocabolo Emitei ; e in tutte e
tre le lingue significa evidentemente mezzi Dei, e vi si sottintende
e mezzi uomini, non già mezze bestie, come si rappresentavano alcune
delle Inferiori Divinità. Erano figli o d’un Dio e di una donna mortale, quali furono
Perseo ed Ercole ; oppure di una Dea e di un uomo mortale, come credevasi di Achille e
di Enea.
Indigeti è parola di etimologia tutta latina, sia che debbasi
interpretare inde geniti, o in diis agentes, cioè
generati sulla Terra, o ascritti fra gli Dei. E per quanto possa questo vocabolo
sembrare a primo aspetto sinonimo di quello di Semidei, non v’è
compresa per altro come necessaria la condizione che uno dei genitori debba essere una
Divinità. Quindi anche un semplice mortale poteva divenire un Indigete
Dio.
Servio
nel commento all’egloga 4ª di Virgilio deduce il nome di Altri lo derivano da Finalmente alcuni dicono formato il nome Eroi, divenuta tanto comune in
verso e in prosa non solo nelle lingue dotte, ma pur anco nella italiana e nelle altre
lingue affini, è di origine greca ; ed i filologi antichi, incominciando da Servio
commentator di Virgilio, ne danno tre diverse etimologie,Heros da
Hera significante, secondo esso, la Terra : quindi Eroe, secondo Servio, corrisponderebbe a Indigete, che
abbiamo detto di sopra significare indes genitus cioè è terra genitus.Aer, e
fanno così corrisponder gli Eroi ai Genii dell’aria, che nel Medio
Evo furon chiamati spiriti folletti. (Anche Dante usò la parola folletto per anima dannata nel
C. Inferno :folletto è Gianni Schicchi,Heros da Eros significante Cupido ossia
l’amore, alludendo ai connubi delle Divinità cogli esseri umani ; e secondo questa
etimologia verrebbero ad esser sinonimi Eroi e Semidei.Semidei, di Dei Indigeti, e di
uomini divenuti illustri o per dignità o per imprese di sovrumano
valore. Lo stesso Omero l’usa assai spesso in quest’ultimo
significato tanto nell’Iliade quanto nell’Odissea ;
e del pari si adopra comunemente nella lingua italiana tanto in verso quanto in prosa ;
e si applica pur anco agli uomini illustri della storia antica e della moderna, come
pure ai più straordinarii personaggi d’invenzione della fantasia dei poeti. I due
vocaboli Semidei e Indigeti son termini appartenenti
esclusivamente alla Mitologia classica : il vocabolo Eroi, oltre a
poter esser comprensivo degli altri due sopraddetti, si estende dai più antichi e famosi
personaggi ai più moderni e ridicoli Eroi da poltrona proverbiati dal
GiustiIl Poeta e gli Eroi da poltrona.
e in più spirabil aere, e diamo uno sguardo fugace
alla remota Età eroica, che spunta fra le caligini mitologiche e si
estende sino alle serene regioni della Storia. I tempi eroici anche più dei mitologici
formarono il soggetto delle meditazioni dei più grandi filosofi e pubblicisti (e basti
rammentar fra questi il Vico e Mario Pagano), perchè vi si trovano le origini storiche
dei più celebri popoli antichi, frammiste a racconti favolosi, dai quali bisogna
distinguerle e sceverarle. A quest’epoca si riferiscono le più straordinarie imprese
condotte a termine colla forza e col senno degli uomini, assistiti e protetti dalle
Divinità. Principalmente si rammenta e si celebra il liberar la Terra dai mostri e dai
tiranni, e sgombrar così la via dai più grandi ostacoli all’incivilimento dei popoli. E
quanto alla sapienza di quell’epoca ottennero lode sopra gli altri i fondatori delle
religioni e delle città. Se grandi erano le virtù, non meno grandi furono i vizii
consistenti principalmente nell’abuso della forza, o come dicono i poeti, nel viver di
rapina : era per lo più questa la causa delle antiche guerre.
Nel Medio Evo dopo la caduta del romano Impero e le irruzioni dei Barbari, se non si
rinnovò precisamente un circolo similare di tutte le antiche fasi
sociali, come suppone il Vico, poichè vi restò un addentellato della
greca e della romana civiltà, come dice il Romagnosi (e si può aggiungere anche di
quella del Cristianesimo), che aiutarono e sollecitarono il risorgimento, ritornò per altro colla dissoluzione di tutti gli ordini sociali
il predominio della forza in tutto il suo furibondo vigore e il così detto diritto della privata violenza. Ne abbiamo una conferma anche nei racconti delle
leggende, riferibili a quell’epoca dolorosissima ; e da quei fatti leggendarii
s’informarono i poemi romanzeschi che ammettono prodigii non meno strani di quelli
dell’Odissea.
Spiacemi che il mio umile assunto e lo scopo principale tempi eroici, che sono come il Medio Evo fra la Mitologia e la Storia, e che perciò hanno la stessa
importanza per le origini storiche dei popoli antichi che il Medio Evo per le origini
della moderna civil società.
Scendendo ora a parlare dei principali Eroi, e Semidei e Indigeti di quest’epoca, convien prima di tutto
determinare l’estensione, o vogliam dire la durata dell’età eroica ;
ed io l’accennerò prima di tutto colle parole stesse del nostro Giovan
Battista Vico : « Tutti gli
Volendo poi determinare cronologicamente
quest’epoca, non abbiamo dati certi neppure dell’anno preciso della distruzione di
Troia, poichè si trova in taluni Autori la differenza di più di un secolo ; ma seguendo
la Storici, egli dice, danno il
principio al Secolo eroico coi corseggi di
Minosse e con la spedizione navale che fece Giasone in Ponto,
il proseguimento con la guerra Troiana e il fine con gli error degli Eroi, che vanno a terminare nel ritorno di
Ulisse in Itaca. »Cronologia greca più accreditata colle modificazioni di Petit-Radel nel suo Examen critique, troveremo almeno
in qual ordine di tempo vissero gli eroi più antichi di quelli che presero parte attiva
nella guerra di Troia. E a far questo ci aiuteranno diverse celebri imprese a cui
intervennero quasi tutti gli Eroi contemporanei, che i Mitologi ed i Poeti si son dati
cura di rammentare : tali sono la caccia del cinghiale di Caledonia, la spedizione degli
Argonauti, la guerra di Tebe o dei 7 Prodi, e finalmente la guerra di Troia. Ora in
queste diverse imprese trovansi rammentati quasi tutti gli Eroi di cui si ha notizia, e
talvolta in una son nominati i padri e nell’altra i figli ; e di qualche eroe che
intervenne a più d’una è detto in quale Indigeti Dei, oppure
discesi nel regno delle Ombre. Questo può asseverarsi principalmente di Perseo, di
Bellerofonte e di Cadmo, anche secondo la precitata Cronologia greca ; perciò dalle
gesta di questi dovrà cominciare la narrazione dei tempi eroici. Degli altri dirò a mano
a mano che toccherà la lor volta per ordine cronologico ; e di quelli che si trovarono
insieme in una data spedizione prima accennerò brevemente le particolari qualità di
ciascuno di essi, e poi li metterò in azione tutti insieme ; parlando più a lungo del
capo o protagonista di quella impresa nel narrare l’impresa stessa.
Prima di por termine a questo Capitolo convien fare un’altra osservazione generale ; ed
è questa : che attribuendosi oltre che una forza straordinaria, anche una lunghissima
vita a tutti gli Eroi, non devesi calcolare la loro media e la loro probabile esistenza
secondo le moderne tavole di Statistica ; e basta soltanto il sapere
quel che dice Omero del Pilio Nestore, il più
vecchio dei Duci che andarono alla guerra di Troia, che cioè
« Di parlanti con lui nati e cresciuti. « Nell’alma Piloei già trascorse avea« Due vite, e nella terza allor regnava. »
Questo antichissimo Eroe apparteneva al novero dei Ho dato questo cenno in conferma di
quanto osservai nel precedente capitolo, che cioè bisogna cercar le origini storiche
dei popoli antichi nella Mitologia. Infatti la Collegata la Mitologia allo studio delle origini
storiche, forma la necessaria introduzione al Corso della Storia Antica ; e quanto
poi alla Letteratura classica ed alla Archeologia è fondamento
indispensabile ;Semidei, poichè fu
creduto figlio di Giove e di Danae, la quale era
figlia di Acrisio re degli Argiesi. Se gli storici pongono Argo fra le
più antiche città della Grecia, trovano la conferma della loro asserzione nelle
tradizioni preistoriche della Mitologia, poichè abbiamo già veduto nel N. XI, che di Inaco re d’Argo era figlia la Ninfa Io trasformata in
vacca, e poi in Dea, sotto il nome di Iside ; e parimente d’Argo era
re Danao padre delle Danaidi, di cui parlammo nel
N. XXXI ; ed ora troviamo Perseo di regia stirpe Argiva. In appresso
incontreremo Agamennone re d’Argo e Micene, generalissimo della Grecia congiurata ai
danni di Troia ; e finalmente Oreste figlio di lui, col quale termina l’età eroica e
comincia l’epoca storicaCronologia greca
più comunemente seguita, ed anche adottata dallo stesso Cantù
(Ved. i Documenti alla sua Storia Universale), pone Inaco per primo re d’Argo, e come vissuto più di 1900 anni avanti l’era volgare ; e perciò almeno tre secoli più antico di Mosè. Perseo poi è considerato come contemporaneo dei primi Giudici d’Israello.
Vedasi la bellissima Ode 16ª del lib. Di Acrisio avea saputo dall’Oracolo che se
nascesse un figlio da Danae ucciderebbe l’avo. Il solo modo di render bugiardo l’Oracolo
era troppo crudele, cioè di uccider subito la figlia ; e Acrisio non fu così snaturato
come furono in appresso Aristodemo ed Agamennone, i quali non esitarono ad uccider le
loro figlie, non già per salvarsi la vita, ma per ambizione di regno. Acrisio credè invece che bastasse rinchiuder la sua in una torre di bronzo per
impedire che prendesse marito. Ma fu inutile questa precauzione, poichè Giove stesso
trasformatosi in pioggia d’oro discese in quella torre e sposò Danae
che fu poi madre di Perseo. S’intende facilmente che l’oro col quale
furon comprate le guardie da un ricco principe aprì le porte della torre di bronzo, per
la stessa ragione che fece dire a Filippo padre di Alessandro Magno non esservi fortezza
inespugnabile alla quale potesse accostarsi un asinello con una soma d’oroOrazio ; della quale qui cito soltanto quella parte che si
riferisce a quanto ho detto di sopra nel testo :Danae e della pioggia d’ oro parlano ancora e Pindaro nella 12ª delle Odi Pitie e Ovidio nelle Elegie e nelle Metamorfosi,
e inoltre più e diversi poeti italiani. Vi si aggiungono altresì i prosatori antichi
Apollodoro e Pausania, i quali però invece della torre di bronzo rammentano una
camera sotterranea di bronzo come luogo della reclusione di Danae. Ma ai poeti parve
più bella e più poetica la torre.Serifo (una delle Cicladi nel mare Egeo), e ospitalmente accolti dal re Polidette.
Cresceva Perseo e si dimostrava degno figlio di Giove per valore e per senno, talchè
Polidette cominciò a temere che potesse detronizzarlo : quindi per dargli occupazione e
allontanarlo dalla sua reggia lo eccitò, coll’allettamento della gloria che ne
acquisterebbe, ad una impresa stranissima e pericolosissima da eseguirsi nelle isoleGorgadi, situate nell’Oceano Atlantico presso il promontorio che tuttora
dicesi Capo verde ; le quali perciò sembra che debbano corrispondere
alle isole dette ora di Capo verde. Doveva Perseo
tagliare a Medusa la testa cinta di orribili serpenti, che facea
divenir di pietra chi la guardava. I poeti antichi dicono che Medusa
aveva due sorelle chiamate Stenio ed Euriale, e che
da prima eran tutte bellissime, e poi divennero mostruose in punizione della lor vanità,
e furon chiamate le Gorgoni dalla voce gorgon che
era il nome di un orribile mostro affricano. Le credevano figlie di Forco divinità marina, e perciò le chiamavano ancora le Fòrcidi. Più terribile era Medusa per la fatal proprietà di
cangiar gli uomini in pietra. L’impresa di ucciderla sarebbe stata impossibile senza
l’aiuto degli Dei ; i quali per favorire il figlio di Giove gl’imprestarono le loro armi
divine, Marte
Intanto sarà bene notare che poeti e artisti antichi e moderni fecero a gara a
descrivere, dipingere e scolpire la testa di Medusa. Dante asserisce
che a tempo suo la Gorgone era già all’Inferno da lunga pezza ; e ci racconta che egli
ebbe una gran paura, quando nel far laggiù quel suo celebre viaggio, le tre Furie
infernali vedendolo da lontano dall’alto di una torre :
« Venga Medusa, sì ‘l farem di smalto, « Gridaron tutte riguardando in giuso ; « Mal non vengiammo in Teseo l’assalto. »
E non era un timor panico il suo, perchè Virgilio stesso gli disse tosto :
« Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso, « Chè se ‘l Gorgonsi mostra e tu ‘l vedessi,« Nulla sarebbe del tornar mai suso. »
Quanto poi alle belle arti sappiamo che gli antichi rappresentavano la testa di Medusa
nell’Egida, e talvolta nell’usbergo della Dea Minerva ; e Cicerone
rimprovera a Verre, tra gli altri delitti e sacrilegii, di avere involato una bellissima
testa anguicrinita di Medusa, distaccandola dalle porte del tempio di
Minerva in Siracusa«
Gorgonis os
pulcherrimum, cinctum anguibus, revellit atque abstulit : et tamen
indicavit se non solum artificio, sed etiam pretio quæstuque
duci. »Cic. Perseo colla
testa di Medusa in mano, opera egregia in bronzo fuso, di Benvenuto Cellini, che è posta
sotto le loggie dell’ Orgagna in Piazza della Signoria.
Anche i Naturalisti si son ricordati di questo mostro mitologico nel dare il nome di
Meduse a un gruppo di Zoofiti che formano la 1ª
divisione degli Acalefi. Non v’è però da spaventarsi a veder queste
Meduse, perchè son piccoli animali marini gelatinosi, e
fosforescenti durante la notte, nè producono altro maligno effetto, non già a vederli,
ma a toccarli, che quello stesso dell’ortica, e perciò si chiamano ancora volgarmente
Ortiche di mare.
Proseguendo ora il racconto mitologico delle gesta di Perseo, è da dirsi prima di tutto
che dal sangue sgorgato dal teschio di Medusa nacquero molti orribili serpenti, e dal
tronco o busto di essa uscì l’alato caval Pegaso, che servì poi sempre
di cavalcatura a Perseo. Inoltre questo cavallo dando un calcio al terreno presso il
monte Elicona nella Beozia, fece sgorgare una fonte che fu poi sacra alle Muse e fu
chiamata Ippocrene, che vuol dir fonte del cavallo.
La produzione dei serpenti dal sangue della testa anguicrinita di
Medusa è meno difficile a spiegarsi che quella del caval Pegaso nato
dal corpo di essa. E Pindaro, a cui forse piaceva poco questa strana invenzione di
Esiodo, non l’adottò, e disse invece che il caval Pegaso fu mandato dagli Dei a Perseo
mentre egli si disponeva ad uccider la Gorgone. Con questi due potentissimi aiuti, il
Pegaso e il teschio di Medusa, divenne Perseo il più formidabile eroe dell’antichità,
perchè egli solo più di qualunque esercito fornito di qualsivoglia arme più micidiale e
diabolica valeva per velocità e potenza di mezzi di distruzione delle umane esistenze.
Ma per non perdere il vanto del valor personale
Su questi dati mitologici i romanzieri del Medio Evo e i poeti romanzeschi
fantasticarono l’ Il viaggio aereo del mago Atlante sull’Ippogrifo, è
così splendidamente narrato dall’ippogrifo e l’abbagliante e stupefaciente scudo del
mago AtlanteAriosto :Ippogrifo,
Andromeda dall’ Orca. Era Andromeda
figlia di Cefeo re di Etiopia e della ninfa Cassiopea ; e fu esposta ad esser divorata da un mostro marino, perchè o essa o
sua madre erasi vantata di esser più bella delle Nereidi. Nel tempo che l’Orca
avanzavasi per ingoiarla, passò per aria Perseo sul caval Pegaso, e accortosi del
pericolo di Andromeda volò tosto in soccorso di lei ; ma non potendo pervenire ad
uccidere il mostro colla spada, perchè era più duro d’uno scoglio, lo pietrificò col
teschio di Medusa. I genitori che eran presenti diedero in premio al liberatore la
figlia in isposa, e il regno per dote.
Questa mirabile liberazione di Andromeda fu espressa da Benvenuto Cellini nel
bassorilievo di bronzo fuso che vedesi nella base del Perseo ; ma
l’eroe vi è rappresentato volante col petaso e i talari di Mercurio e
non sul caval Pegaso ; con la scimitarra nella destra, e senza la testa di Medusa
nell’altra mano. Nel giardino di Boboli vedesi nella gran vasca detta
dell’isolotto la statua di Perseo sul caval Pegaso e di Andromeda
legata allo scoglio ; ma l’Orca è di così piccole dimensioni da render risibile la paura
di Arianna di poter essere divorata da quel piccolo mostro poco più grosso di un
granchio. Si crede opera degli scolari di Giovan Bologna, del quale è di certo la statua
colossale del Grande Oceano, che ivi si ammira.
Le feste per le nozze di Perseo con Andromeda furono disturbate negli ultimi giorni da
una improvvisa invasione delle truppe del re Fineo, a cui Andromeda
era stata
Dipoi volle Perseo tornar colla sposa a riveder sua madre Danae ; e nel passare dalla
Mauritania gli fu negata l’ospitalità dal re Atlante ; il quale avea
saputo dall’Oracolo, che per quanto egli fosse di statura e di forza gigantesca, dovea
tutto temere da un figlio di Giove. Ma la sua stessa precauzione fu causa del suo male,
poichè Perseo, irritato di tale scortesia, lo raggiunse volando sul caval Pegaso mentre
Atlante andava alla caccia, e mostrandogli la testa di Medusa lo trasformò in quel monte
della Mauritania che tuttora chiamasi Atlante, del quale gli antichi
favoleggiavano che sostenesse il Cielo, e il cui nome hanno dato i moderni, con evidente
allusione mitologica, alla collezione delle carte geografiche e uranografiche.
Giunse Perseo senz’altri incidenti all’isola di Serifo, e trovò che
Polidette voleva costringer Danae a sposarlo ; ed egli per toglier d’impaccio la madre,
lo cangiò in una statua. All’avo Acrisio, che ancor viveva, perdonò,
ed anzi lo rimise nel regno, uccidendo l’usurpatore Preto. Ma poichè
finalmente doveva avverarsi la predizione dell’Oracolo, inventarono i Mitologi che il
nipote, per caso, nel fare esercizi guerreschi uccidesse l’avo.
Compiute Perseo le sue imprese fe’ dono della testa di Medusa a Minerva. Il caval
Pegaso gli sopravvisse e passò in potere di un altro eroe, come vedremo. Si attribuisce
a Perseo la fondazione del regno di Micene ; e si narra che ivi Perseo fu ucciso a
tradimento da Megapente, figlio di Preto, per vendicare la morte di
suo padre.
Perseo, la sua moglie Andromeda, i suoi suoceri Cefeo e Cassiopea, e finalmente qualche tempo dopo il caval
Pegaso. Questi nomi dati dagli Antichi a cinque delle costellazioni
boreali si conservano tuttora dai moderni Astronomi, i quali ci dicono pur anco di
quante stelle è formata ciascuna di queste costellazioni, cioè Perseo
di 65Testa di Medusa.Andromeda di 27 ; Cefeo di 58 ; Cassiopea di 60, e il Pegaso di 91. Aggiungono inoltre che una gran quantità di stelle
cadenti, di cui hanno luogo fiammeggianti pioggie ordinarie circa la metà dell’
agosto e del novembre tutti gli anni, si osserva partirsi di verso la costellazione di
Perseo ; e perciò quelle tali stelle cadenti son distinte col nome
di Perseidi.
Quest’Eroe fu pronipote di Eolo, nipote di Sisifo e figlio di Glauco, della dinastia
dei re di Efira, cioè di Corinto. Il suo vero nome
primitivo era Ipponoo ; ed è soltanto un soprannome quello di Bellerofonte, che gli fu dato dopo che egli per caso uccise Beller suo fratello ; di che rimase poi sempre dolente e mestoBellorophonteus morbus l’ipocondria, che altrimenti direbbesi ægritudo.greca cronologia di questi re ; e forse
perciò aggiungono che fu subito dopo detronizzato da Preto e costretto
a restar come Stenobea ; e Preto per le accuse della
perfida moglie (volendo per altro schivare l’odiosità di farlo morire egli stesso senza
apparente motivo), lo mandò da suo suocero Iobate re di Licia, con una lettera chiusa, che consegnò a Bellerofonte stesso, dicendogli
che era una commendatizia, mentre invece conteneva la commissione di far morire il
latore di quella. D’allora in poi lettere di Bellerofonte furono dette
per antonomasia dai Pagani simili lettere proditorielettere di Uria sono precisamente equivalenti a lettere di
Bellerofonte in linguaggio mitologico.
Iobate non volle macchiarsi le mani nel sangue di un ospite, e impegnò Bellerofonte in
imprese pericolosissime, immaginando che vi sarebbe perito, se egli era reo, oppure
darebbe una prova della sua innocenza se riuscisse vittoriosoIobate eran fondati nei secoli barbari del
Medio Evo i così detti Giudizi di Dio, pretendendosi che la Divinità
dovesse sempre intervenire a dar la vittoria all’innocente e a far perdere il reo.
Quest’ uso barbaro ed empio si estese anche ad altre prove, come a quella del fuoco, la cui sola proposta fanaticamente fattane dagli avversari del
Savonarola ed imprudentemente accettata dai suoi fautori, riuscì funesta al Savonarola
stesso. Il duello che usa tuttora è un avanzo dei secoli barbari, e fa una gran tara
alla tanto vantata civiltà moderna.Chimera, mostro che avea la testa di leone, il
corpo di capra e la coda di serpente, ed inoltre gettava fiamme dalla bocca e dalle
narici. Gli Dei protettori Pegaso
posseduto prima da Perseo ; e con tale efficacissimo aiuto egli potè
velocemente schermirsi da qualunque pericolo e vincere ed uccidere la Chimera. Allora sì
parve a Iobate manifesta l’innocenza di Bellerofonte, e cangiato il sospetto in
ammirazione e benevolenza, gli diede in isposa l’altra sua figlia, che era sorella di
Stenobea. Questa, quando lo seppe, agitata dall’invidia, dalla vergogna e dai rimorsi,
perdè la ragione e si diede la morte.
Bellerofonte, dopo tante ardue prove della sorte avversa, giunto
finalmente a superarle tutte e ad uno stato felicissimo, fu men forte a tollerare la
prosperità che prima l’avversità. Credendo che nulla gli fosse impossibile, montato sul
caval Pegaso, lo spinse verso il Cielo, presumendo che gli Dei dovessero accoglierlo nel
loro consesso ed alla loro mensa. Ma Giove, per punirlo della sua folle superbia, mandò
un tafano a molestare il caval Pegaso, che scosse dalla sua groppa il cavaliere e lo
precipitò dall’alto sulla terra ; e così miseramente finì Bellerofonte i suoi giorni. Il
Pegaso continuò il volo sino al Firmamento, ove fu cangiato nella
costellazione che porta il suo nome, come dicemmo.
La spiegazione più plausibile che suol darsi della Chimera è questa :
che invece di essere un mostro fosse un monte ignivomo della Licia, nella parte più alta
del quale soggiornassero i leoni, a mezza costa le capre selvagge e alle falde i
serpenti. E per quanto a taluni non soddisfi pienamente questa spiegazione, nessuno ha
saputo sinora trovarne una migliore.
I Naturalisti hanno dato il nome di Chimera a un genere di pesci,
notabili per la forma mostruosa della loro testa, e che son classati come appartenenti
alla famiglia degli Storioni. La Chimera artica vive
in mezzo all’ oceano boreale, e si nutrisce principalmente di granchi e di molluschi. È
Regalec, ossia di re delle Aringhe, perchè la trovano sempre
in mezzo alle innumerevoli legioni delle aringhe.
Pochi altri termini mitologici son tanto famigerati e comuni nelle lingue moderne, e
specialmente nella italiana, quanto quello di Anche i poeti latini,
quando volevano significare che una cosa era impossibile o incredibile, o almeno che
essi la stimavano tale, dicevano : Non
ci vuol molto a immaginare i più strani mostri formati di membra diverse di ogni
genere di animali ; ma ne deriva, invece dell’ ammirazione e del diletto, il
disgusto e il ridicolo, come dice Chimera, nel significato
però di cosa insussistente, inverisimile, impossibile ; e così dicasi dell’aggettivo chimerico che ne deriva« Crederò prima che esista la
Chimera. »
Cosi, per esempio, Ovidio nelle Elegie :Chimœram,chimerizzare e i nomi chimerizzatore e chimerizzatrice, i quali sebbene sieno poco usati parlando, pur si
trovano registrati nei nostri Vocabolari. Questo stesso significato che suol darsi
comunemente alla parola chimera dimostra che di tutte le cose favolose
ond’ è piena la Mitologia, questa è stimata la più favolosa di tutte, appunto per lo
stranissimo accozzo animalesco ond’ è composto questo mostroOrazio al principio dell’Arte Poetica :
Non appartiene Cadmo al novero dei Semidei, e
neppur divenne un Indigete Dio ; ma è considerato un Eroe e per l’epoca in cui visse e per quanto oprò. Il racconto della sua vita è
un misto di favole e di fatti storici. Perciò diremo da prima quanto ne riferisce la
Mitologia, e aggiungeremo in ultimo alcune osservazioni riferibili alla Storia.
Cadmo era figlio di Agenore re di Fenicia e
fratello di Europa. Fu questa una bellissima giovinetta, che Giove
rapì trasformatosi in un bianchissimo e placidissimo toro. Europa vedendolo così
mansueto vi era salita in groppa per giovanile trastullo ; ma il toro giunto sulla riva
del mare, si gettò in mezzo alle onde, e nuotando trasportò all’isola di Creta la
giovinetta, ed ivi, riprese le forme divine, la fece sua sposa, e n’ebbe due figli Minos e RadamantoDante rammenta questa favola del ratto di Europa nel Canto Paradiso, dicendo :si fece Europa dolce carco. »Cadmo a
cercarla, con ordine di non tornare a casa finchè non avesse trovato la sorella. Cadmo,
dopo averla cercata invano per Cadmea
dal nome di Cadmo, e poi Tebe, conservandosi però
sempre il nome di Cadmea alla fortezza che fu primamente il nucleo
della città. Il territorio poi fu detto Beozia dal greco nome
dell’animale ivi trovato e sacrificato da Cadmo.
Fondata la città, prese Cadmo per moglie Ermione, o, secondo altri
Mitologi, Armonia, figlia di Venere e di Marte, e dalla medesima ebbe
quattro figlie : Autonoe, Ino, Semele ed Agave, e
inoltre un figlio chiamato Polidoro. Abbiamo già detto altrove che Ino
fu cangiata nella Dea marina Leucotoe, e che Semele fu madre di Bacco. Ma per quanto
In quanto poi ai guerrieri nati dai denti del serpente ucciso da Cadmo, gli Antichi ci
hanno trasmesso anche il nome di quei cinque che sopravvissero ed aiutarono Cadmo a
fabbricare e popolare la città di Tebe ; e i loro nomi son questi : Anche gli altri nobili greci pretendevano di esser
discesi da qualche eroe mitologico, e la maggior parte da Perseo. Una origine
miracolosa e divina si attribuivano pur anco le diverse Echione, Udeo, Ctonio, Peloro e Iperènore. Anzi i nobili
Tebani dei secoli successivi credevano tanto (o fingevano di credere) in così strana
favola, che derivavano la loro nobiltà di sangue dall’esser
discendenti, com’essi vantavansi, di questi prodi guerrieri sì miracolosamente nati ; la
quale illustre prosapia era detta degli Sparti, che significava seminati, alludendosi appunto alla sementa dei denti del serpente ucciso
da Cadmocaste
degli Indiani. Ma poichè in oggi non si ammettono più le origini mitologiche e
miracolose, quindi il Giusti, molto satiricamente, defini la Nobiltà :
coram populo. Ma Orazio nella poetica avverte che non si debbono dare tali
spettacoli, che riescono sconvenevoli nel teatro, perchè, sottoposti all’occhio fedele,
divengono risibiliCadmus in anguem. »Hor., epopea. La trasformazione
di Cadmo in serpente fu narrata così egregiamente da Ovidio, che sembrò mirabile, nonchè
al Tasso, anche a Dante. Anzi Dante, convinto che tali trasformazioni
poeticamente ed ingegnosamente narrate fanno grandissimo effetto sulla immaginazione dei
lettori, volle gareggiare anche in questo cogli antichi poeti, come fece nel Canto
Inferno, detto appunto delle
trasformazioni ; e fu tanto contento e sicuro egli stesso dell’opra sua, che non
potè nasconderlo ai suoi lettori, ed asserì di aver superato Lucano ed anche Ovidio, il
famoso autore delle Metamorfosi :
« Taccia Lucano omai, là dove tocca « Del misero Sabello e di Nassidio, « Ed attenda ad udir quel ch’or si scocca. « Taccia di Cadmoe d’AretusaOvidio,« Che se quello in serpentee questain fonte« Converte poetando, io non l’invidio ; « Chè due nature mai a fronte a fronte « Non trasmutò, sì ch’ambedue le forme « A cambiar lor nature fosser pronte. »
Cronologia Greca verso il 1580 avanti l’èra cristiana. E
quanto alla sua sorella Europa, della quale dicono i Mitologi che ebbe
da Giove il privilegio di dare il nome alla terza parte dell’antico continente che noi
abitiamo, gli storici non sanno dire nulla di più nè di diverso. Che il nome di Cadmea fosse dato alla fortezza di Tebe e conservato pur anco a tempo
della conquista dei Romani è notizia storica confermata anche da Cornelio Nipote nelle
sue Vite degli eccellenti capitani greci. Quanto poi al nome di Tebe, non si contrasta che Cadmo avesse in mira di fare una città simile
alla famosa Tebe di Egitto, e che perciò le desse lo stesso nome ; ma se ne adducono due
motivi diversi : il primo che la stirpe fenicia di Cadmo derivasse dall’ Egitto, come
asseriscono molti ; il secondo che Cadmo stesso non fosse Fenicio, ma Egiziano, come
afferma Pausania.
A questa questione si collega l’altra sull’ origine dell’ Nel 1821 fu pubblicato dal È noto che la
parola Non è per verità molto utile neppure
il conoscere quali furono le lettere inventate da Palamede, e quelle aggiunte da
Simonide, mentre le altre furono attribuite a Cadmo ; tutt’ al più può essere una
curiosità letteraria il sapere questa opinione degli Antichi : ma fu una vera
pedanteria e ridicolezza il pretendere di distruggere il vocabolo Alfabeto in
Europa, del quale si attribuisce a Cadmo che portasse in Grecia le prime sedici
lettereBagnoli
il suo poema epico in venti Canti, intitolato : Il Cadmo, nel
quale l’autore (come è detto anche nella sua prefazione) considera quest’ Eroe
Fenicio non solo come guerriero, ma altresì come « il primo che introdusse
l’alfabeto in Europa, le pratiche religiose e molte di quelle arti che procurarono
l’universale coltura. »
Ma il poema non ebbe credito, perchè vi predomina
la fiacchezza d’ idee e di stile. Al Bagnoli mancava quel che Orazio richiede principalmente in un poeta :Ingenium cui sit, cui mens divinior atque osMagna sonaturum, des nominis hujus
honorem. »alfabeto è composta dal nome delle due prime lettere (alfa e beta dell’alfabeto greco ; e che in
italiano trovasi anche chiamato l’abbiccì dal nome delle prime tre
lettere del nostro alfabeto. Ma che diremo di quegli eruditi che volevano abolir
questi nomi per sostituirvi quello di grammaticario ? Diremo per
lo meno che qui è davvero applicabile la massima attribuita da Fedro a
Giove :stulta est
gloria. »alfabeto adottato nella lingua latina e in tutte le più colte lingue
moderne, con tutti i suoi derivati e composti (alfabetico, alfabetare,
analfabeta ecc.) per sostituirvene un altro di nuova formazione o
etimologia.influenza Fenicia in Europa, C. O. Muller l’ha rigettata,
considerando Cadmo come una Divinità pelasgica. Ed ecco come dalla Mitologia si passa
nel campo della critica storica ; nei quali confini deve arrestarsi il Mitologo. È però
fuori di controversia che la civiltà non meno che la popolazione sia venuta dall’Asia in
Europa, o vogliam dire dall’Oriente in Occidente.
È questa la prima impresa dei tempi eroici in cui si trovino riuniti molti celebri
eroi, e che serve perciò, in mancanza di altri dati cronologici, a stabilire almeno che
quegli contemporanei coloro che vi presero parte.
Calidone o Calidonia era la capitale dell’Etolia a tempo del re Oeneo, circa un secolo prima
della guerra di Troia. Questo re nel fare un sacrifizio agli Dei in ringraziamento per
le buone raccolte ottenute, erasi dimenticato di Diana ; ed essa lo punì mandando un
mostruoso cinghiale a devastare lo stato di lui. Non molto lungi dalla città v’era la
folta selva Calidonia, da cui usciva il cinghiale per devastare ed uccidere, ed ivi
tornava ad imboscarsi ; ed era impresa pericolosissima l’andare ad assaltarlo là dentro.
Perciò il re invitò tutti i più coraggiosi e prodi giovani della Grecia a prender parte
a questa caccia, e ne fe’capo il suo figlio Meleagro. Accorsero
all’invito i più distinti eroi che vivessero in quel tempo : alcuni dei quali divennero
anche più celebri in appresso per altre più importanti e mirabili imprese, come Giasone che fu poi duce degli Argonauti, Teseo
vincitore del Minotauro, Piritoo suo fidissimo amico, Castore e Polluce gemelli affettuosissimi, che poi divennero
la costellazione dei Gemini, l’indovino Anfiarao che
fu uno dei sette prodi alla guerra di Tebe, Nestore ancora nella sua
prima gioventù, Peleo che fu poi padre di Achille, Telamone padre di Aiace e Laerte di Ulisse ; dei quali tutti
dovremo parlare anche in appresso. Degli altri eroi intervenuti a questa caccia, dei
quali non si conoscono fatti più celebri di questo, ne diremo qui brevemente quanto è
necessario a sapersi.
I più notabili erano : Meleagro figlio del re Oeneo e duce di quella
eletta schiera, i suoi zii Plessippo e Tosseo,
fratelli di Altea sua madre, e la sua fidanzata Atalanta
« Trar l’immortalità dalla sua morte « È una sorte meschina, o non è sorte. »
Dopo altre vicende che poco importa narrare, finalmente ebbe Meleagro la gloria di
atterrare quell’immane belva ; e il diritto che egli avea di prender per sè il teschio e
la pelle del cinghiale lo cedè ad Atalanta. Ciò dispiacque ai suoi zii, mal tollerando
che una donna con tal distintivo di onore potesse vantarsi di essere stata più valente
degli uomini ; e volevano toglierle quell’insigne trofeoDante stesso
rammenta nella Divina Commedia. La favola si riferisce al destino
della vita di Meleagro.
Raccontano i Mitologi ed i poeti, e più estesamente di tutti Ovidio
nelle Metamorfosi, che quando nacque Meleagro, le Parche comparvero
nella stanza ove Altea partorì, e, gettato nel fuoco un ramo d’albero, dissero :
« tanto vivrai, o neonato, quanto durerà questo legno ; »
e subito dopo
disparveroDeianira che era
già moglie di Ercole), furon cangiate in uccelli detti Meleàgridi,
nome che da alcuni Ornitologi si dà tuttora alle galline affricane (Numida
Meleagris).
Ho detto di sopra che Danterammenta nella Divina
Commedia la trista fine di Meleagro ; ed eccomi ad accennare in quale occasione.
Dopo aver narrato che i golosi son puniti nel Purgatorio con una fame
canina resa più acuta dal vedersi dinanzi agli occhi, come Tantalo nell’ Inferno pagano,
i pomi e l’acqua senza poterne gustare ; il qual tormento rendeva talmente magre e
scarne quelle anime, che
« Negli occhi era ciascuna oscura e cava, « Pallida nella faccia e tanto scema « Che dall’ossa la pelle s’informava,
cominciò a pensare
« Alla cagione ancor non manifesta « Di lor magrezza e di lor trista squama ; »
e non potendo trovarla da sè, finalmente, fattosi coraggio, domandò a Virgilio :
« ……Come si può far magro « Là dove l’uopo di nutrir non tocca ? »
E Virgilio a lui :
« Se t’ammentassi come Meleagro« Si consumò al consumar d’un tizzo « Non fora, disse, questo a te sì agro. »
Ma accorgendosi Virgilio che con questo esempio pretendeva di spiegare un mistero con un altro mistero, citò ancora un fenomeno fisico :
« E se pensassi come al vostro guizzo « Guizza dentro allo specchio vostra image, « Ciò che par duro ti parrebbe vizzo. »
E per quanto anche il poeta Stazio, a richiesta di Virgilio, gli desse bellissime spiegazioni scientifiche sulla generazione dell’uomo, sull’unione dell’anima col corpo e lo stato di essa dopo la morte, nulladimeno non sembra che Dante rimanesse tanto convinto quanto altra volta che Virgilio gli disse :
« A sofferir tormenti e caldi e geli « Simili corpi la Virtùdispone« Che come sia non vuol che a noi si sveli. »
E così con esempii mitologici, cattolici e scientifici viene a far conoscere che spesso s’incontrano nelle umane cognizioni misteri inesplicabili.
Su questo argomento furon composti due poemi, uno in greco e l’altro in latinoApollonio Rodio compose il poema degli Argonauti in
greco, e Valerio Flacco in latino. Anche Pindaro
fece una lunga narrazione di questa impresa nell’Ode Pitiche.Giasone che fu il duce e il protagonista degli Argonauti, e acquistò maggior
fama di tutti in questa impresa, come Achille nella guerra di Troia. Lo scopo della
spedizione era la conquista del Vello d’oro ; e perciò di questo
convien prima di tutto parlare.
Chiamasi il Vello d’oro la pelle di un montone che invece di lana era
coperta di fili d’oro. S’intende subito che questo montone è favoloso, e perciò convien
cercarne l’origine nei precedenti tempi mitologici.
Atamante re di Tebe, che sposò in seconde nozze Ino
divenuta poi la Dea Leucotoe, aveva della sua prima moglie Nèfele un figlio e una figlia di nome Frisso ed Elle ; che non contenti della matrigna fuggirono dalla casa paterna
portando via un grosso montone col vello d’oro, donato già dagli Dei ad Atamante ; e
montati a cavallo su quell’animale, lo spinsero in mare per farsi trasportar da esso fra
le onde sino alla Colchide. Ma nel passar lo stretto che ora dicesi dei Dardanelli la
giovinetta Elle cadde nel mare e vi Ellesponto che significa mare di Elle. Al desolato
fratello convenne continuar solo il viaggio marittimo che ebbe termine nella Colchide ov’era diretto. Questa regione, situata fra il Ponto Eusino o Mar Nero, il Caucaso e l’Armenia, appartiene ora alla Russia e
corrisponde alle provincie di Imerezia, Mingrelia e Grusia. Fu un prodigioso viaggio quello di Frisso di traversar sull’ aureo montone nuotante l’Arcipelago, lo stretto dei Dardanelli, il Mar
di Marmara, lo stretto di Costantinopoli e tutta la maggior lunghezza del Mar Nero, e
giunger salvo a Colco. Frisso fu benissimo accolto con quel raro e prezioso animale da
Eeta re di quella regione : e volendo mostrarsi grato agli Dei
dell’esser giunto a salvamento ove desiderava, offrì loro in sacrifizio quel bravo
montone che lo aveva sì ben servito, per appenderne come voto l’aureo vello
maraviglioso. Ma gli Dei ricompensarono essi quel povero animale, trasformandolo nella
celeste costellazione dell’Ariete ; e invece dell’aureo vello
l’adornarono di quarantadue fulgidissime stelle, e il Sole l’onorò coll’ incominciar dal
1° grado di esso l’annuo suo corso tra i segni del Zodiaco. Quindi i
poeti alludendo a tal fatto mitologico chiamano questa costellazione l’animal di Frisso ; e Dante l’appella più volte antonomasticamente il Montone, siccome il più buono, il più paziente, il più illustre di
quanti montoni sieno esistiti giammai ; e volendo egli esprimer poeticamente lo spazio
di sette anni, usa questa perifrasi mitologica ad un tempo ed
astronomica :
« … Or va, che il Sol non si ricorca « Sette volte nel letto che il Montone« Con tutti e quattro i piècopre ed inforca,« Che cotesta cortese opinïone « Ti fia chiovata in mezzo della testa « Con maggior chiovi che d’altrui sermone. »
vello d’oro rimasto nella Colchide fu
consacrato, secondo alcuni, a Giove, e, secondo altri, a Marte, e custodito
religiosamente, e assicurato con molte cautele e magiche invenzioni, di cui parleremo in
appresso.
Alla pericolosa conquista di quest’aureo vello fu diretta la
spedizione degli Argonauti ; e non la considerarono essi una impresa di rapina, ma come
l’esercizio di un diritto imprescrittibile, di riacquistar ciò che è suo, essendo che
l’aureo montone appartenesse originariamente alla Grecia e precisamente alla real
famiglia di Tebe, come abbiam detto di sopra. Ma gli Eroi di questa impresa per far lo
stesso viaggio marittimo che fece Frisso sulla groppa del suo
impareggiabile montone, furon costretti a costruire ed armare una nave che fu creduta la
prima inventata dagli uomini, e celebrata perciò con lodi interminabili da tutti gli
antichi. La nave fu chiamata Argo, e quindi Argonauti gli Eroi che navigarono in quella. Se le fosse dato questo nome da
quello dell’architetto che la costruì, o dall’esser fabbricata in Argo, oppure da un greco vocabolo, che secondo alcuni etimologisti significa veloce, o da altro ortograficamente poco dissimile, ma che significa
l’opposto, lascerò deciderlo ai solenni filologi : con tante idee
poetiche e storiche che desta questa spedizione, non mi sento disposto ad arrestarmi a
quisquilie filologiche.
All’invito di Giasone accorsero gli Eroi da tutte le parti della Grecia, alcuni dei
quali eran già stati con lui alla caccia del cinghiale di Calidonia, cioè Teseo, Piritoo, Castore, Polluce e Telamone ; ed altri di cui
non si è ancora parlato, cioè Calai e Zete figli di
Borea, Ercole, Orfeo, Linceo, Tifi, Tideo, ecc. È ben facile che alla
primitiva tradizione, di cui fa cenno anche Omero, non che Esiodo, siano stati aggiunti
in appresso nuovi eroi dei diversi Stati della Grecia per accomunar la gloria di questa
impresa a tutta la Nazione, poichè si fanno ascendere, come abbiam detto, almeno a Argo una
nave di cinquanta remi. In questa comune e nazionale impresa per altro il solo Giasone è quello di cui si raccontano fatti straordinarii e
maravigliosi, degni di poema ; gli altri Eroi vi rappresentan soltanto una parte molto
secondaria ; ma appunto per questo vi è maggiore unità e si rende più facile e più breve
la narrazione.
Giasone era figlio di Esone re di TessagliaÆsonides, cioè figlio di Esone, e coll’aggettivo Pagasaeus da Pagasa (ora Armiro,)
città marittima della Tessaglia, rammentata anche da Plinio il naturalista, ed ove
Valerio Fiacco dice che fu costruita la nave Argo. Quindi anche la
nave è chiamata Pagasœa puppis, e Medea Pagasœa
conjux.Pelia ; perciò essendo egli ancor fanciullo, per salvarlo dalle in sidie dello
zio, fu mandato ad educare altrove, e dicono presso il Centauro Chirone. Ma divenuto
adulto e prode ritornò arditamente in Tessaglia per ridomandare allo zio il regno
paterno. Pelia non osando di dargli un aperto rifiuto, lo seppe talmente allucinare
colle idee della gloria e dell’onor nazionale, che lo impegnò a riconquistare il vello d’oro che ap parteneva alla Grecia, e gli promise di restituirgli
il regno al suo ritorno, ma sperando in cuor suo che sarebbe perito in quella
impresa.
Fu costruita la nave per questa spedizione coi pini del monte Pelio e colle quercie
della selva di Dodona sacra a Giove, e, aggiungono i poeti, sul disegno dato da Minerva
stessa, per significarne la perfetta costruzione. Riuniti a Giasone i cinquanta eroi, la
nave salpò per la Colchide, che allora chiamavasi la terra di Eea, vocabolo d’incerta e vaga significazione, indicante soltanto una
terra lontana, come l’Oga Magoga della Bibbia e il paese di Cuccagna e di Bengodi dei nostri novellieri. Gli
Argonauti sapevano soltanto che quel paese era fra settentrione ed oriente, e in quella
Giasone, il pilota Tifi, ed a prua stava Linceo di vista acutissima, (come significa il suo nome derivato da lince, per osservare se v’eran sott’ acqua scogli e sirti, ove corresse rischio
di frangersi o arrenare la nave. Orfeo interrompeva la monotonia del
viaggio rallegrando i compagni col canto e col suon della cetra : tutti gli altri Eroi
costituivano la ciurma che eroicamente remava. Convenne far diverse fermate per prender,
come suol dirsi, paese, ossia per avere a mano a mano opportune notizie riferibili al
luogo e allo scopo del loro viaggio, ed anche per rinnovare le loro provvisioni da
bocca, perchè Ercole, oltre ad essere il più forte e robusto eroe, era anche il più gran
divoratore, e mangiava per cinquanta, bevendo ancora in proporzione ; e perciò gli
avevan messo il soprannome di Panfago, che vuol dir mangia-tutto.
La prima fermata fu nell’isola di Lenno,
« Poi che le ardite femmine spietate « Tutti li maschi loro a morte dienno, »
come dice Dante ; e vi giunsero appunto dopo l’atroce fatto che le
donne di quell’isola, malcontente delle leggi e dei trattamenti degli uomini, li
uccisero tutti per costituirsi in repubblica femminile. La sola Issipile, figlia del re Toante, con pietosa frode salvò la
vita a suo padre ; e meritava perciò una miglior sorte di quella che si racconta di
essa, poichè giunto in quell’isola insieme cogli altri Argonauti Giasone,
« Ivi con segni e con parole ornate « Issifileingannò la giovinetta,« Che prima tutte l’altre avea ingannate ; »
e poi traditane la buona fede la lasciò alle persecuzioni delle sue crudeli compagne,
che scoperta la sua pietà filiale, le tolsero il trono e la cacciarono dal regno.
Inoltre fu presa Nella sua schiavitù ebbe cioè la fontana detta Licurgo re di TraciaIssipile a custodire il piccolo figlio di Licurgo,
chiamato Ofelte, o altrimenti Archemore ; ed
avendolo lasciato solo in un prato per mostrare ad Adrasto e
a’suoi compagni la fontana Langia non molto distante, al suo
ritorno trovò il bambino morto pel morso velenoso di un serpente ; ed oltre al
dispiacere provato avrebbe dovuto subire anche la morte, se non la di fendevano
Adrasto e i suoi compagni. Dante in un sol verso accenna questo
fatto, anzi ne fa una perifrasi del nome di Issipile, o Issifile, dicendo nel Canto Purgatorio :Langia, »Langia, ad Adrasto e a’compagni di lui.Dante, amico non timido amico al vero ed al rettolassistilassisti i moralisti o casisti poco scrupolosi, detti volgarmente di maniche larghe.Giasone nella prima bolgia dell’Inferno fra i
dannati che eran puniti
« Da queiDimon cornuti con gran ferze« Che li battean crudelmente di retro ; »
e soggiunge :
« Tal colpa a tal martirio lui condanna, « Ed anche di Medea si fa vendetta. « Con lui sen va chi da tal parte inganna. »
Dopo questo episodio, poco cavalleresco a dir vero, proseguirono gli
Argonauti il loro viaggio. Troppo lungo e Fineo dalle Arpie.
Le Arpie eran mostri che Dante dipinge così :
« Ale hanno late e colli e visi umani, « Piè con artigli e pennuto il gran ventre, « Fanno lamenti in sugli alberi strani. »
E bisogna aggiungere quel che ne dicono i poeti greci e i latini, che cioè questi
mostri avevano l’istinto di rapire i cibi dalle mense e di contaminarle con escrementi
che fieramente ammorbavano. Il loro stesso nome di Arpie deriva da un
greco vocabolo (arpazo) che significa rapireVirgilio così descrive le Arpie nel
lib. Eneide :Fineo re di Tracia
in punizione delle sue crudeltà verso i proprii figli, e vi fu aggiunta pur anco la
cecità. Approdati gli Argonauti nella Tracia o bene accolti da Fineo, vollero per
gratitudine liberarlo dalle Arpie, ed oltre a cacciarle dalla reggia colle armi, le
fecero inseguire per aria da Calai e Zete, figli di
Borea, che avevano le ali come il loro padre ; i quali le respinsero fino alle isole Strofadi, ove poi furono trovate da Enea nel venire in Italia, come a
suo luogo
Ma poichè l’Ariosto, coll’immaginare che il Senàpo
imperatore dell’Etiopia avesse ricevuto una punizione simile a quella di Fineo, ha
riunito in poche ottave tutte le classiche reminiscenze degli antichi poeti su questo
fatto mitologico, aggiungendovi di suo altre invenzioni medioevali, riporterò prima
l’imitazione degli Antichi, e dipoi il diverso modo di liberazione da lui
immaginato :
« Dentro una ricca sala immantinente « Apparecchiossi il convito solenne, « Col Senàpos’assise solamente« Il Duca Astolfo, e la vivanda venne.« Ecco per l’aria lo stridor si sente, « Percosso intorno dall’orribil penne : « Ecco venir le Arpiebrutte e nefande,« Tratte dal cielo a odor delle vivande. « Erano sette in una schiera, e tutte « Volto di donne avean pallide e smorte, « Per lunga fame attenuate e asciutte, « Orribili a veder più che la morte. « L’alacce grandi avean, deformi e brutte, « Le man rapaci e l’ugne incurve e torte, « Grande e fetido il ventre, e lunga coda « Come di serpe che s’aggira e snoda. « Si sentono venir per l’aria e quasi « Si veggon tutte a un tempo in su la mensa « Rapire i cibi e riversare i vasi ; « E molta feccia il ventre lor dispensa, « Tal che gli è forza d’otturare i nasi, « Che non si può patir la puzza immensa. « Astolfo, come l’ira lo sospinge, « Contra gl’ingordi augelli il ferro stringe. « Uno sul collo, un altro su la groppa « Percuote, e chi nel petto e chi nell’ala ; « Ma come fera in su un sacco di stoppa, « Poi langue il colpo, e senza effetto cala : « E quei non vi lasciâr piatto nè coppa « Che fosse intatta ; nè sgombrâr la sala « Prima che le rapine e il fiero pasto « Contaminato il tutto avesse e guasto. »
A questo punto l’Ariosto lascia l’imitazione degli Antichi, e con le invenzioni del
Medio Evo, di cui si era valso in altri luoghi del suo poema, narra la liberazione del
Senàpo dalle Arpie in modo più maraviglioso di
quello dei poeti classici greci e latini. I mezzi che egli adopera sono due l’ Ippogrifo, di cui abbiamo riportato altrove la descrizione stessa
fattane dall’Ariosto, e l’altro non meno straordinario e mirabile, di cui riporterò
parimente la descrizione coi versi stessi dell’Ariosto ;
« E questo fu d’orribil suono un corno« Che fa fuggire ognun che l’ode intorno. « Dico che ‘l corno è di sì orribil suono « Ch’ovunque s’oda, fa fuggir la gente. « Non può trovarsi al mondo un cor sì buono, « Che non possa fuggir come lo sente. « Rumor di vento e di tremuoto, e ‘l tuono, « Al par del suon di questo, era nïente. »
Conosciuti i mezzi, ecco in qual modo l’Ariosto li fa porre in opera dal duca Astolfo
per la liberazione del Senàpo dalle Arpie :
« Avuto avea quel re ferma speranza « Nel duca, che l’ Arpie gli discacciassi ; « Ed or che nulla ove sperar gli avanza, « Sospira e geme e disperato stassi. « Viene al duca del corno rimembranza, « Che suole aitarlo ai perigliosi passi ; « E conchiude tra sè, che questa via « Per discacciare i mostri ottima sia. « E prima fa che ‘l re con suoi baroni « Di calda cera l’orecchio si serra, « Acciò che tutti, come il corno suoni, « Non abbiano a fuggir fuor della terra. « Prende la briglia e salta su gli arcioni « Dell’ Ippogrifoed il bel corno afferra ;« E con cenni allo scalco poi comanda « Che riponga la mensa e la vivanda. « E così in una loggia s’apparecchia « Con altra mensa altra vivanda nuova. « Ecco l’Arpie che fan l’usanza vecchia : « Astolfo il corno subito ritrova ; « Gli Augelliche non han chiusa l’orecchia,« Udito il suon, non puon stare alla prova ; « Ma vanno in fuga pieni di paura, « Nè di cibo nè d’altro hanno più cura. « Subito il paladin dietro lor sprona ; « Volando esce il destrier fuor della loggia, « E col castel la gran città abbandona, « E per l’aria, cacciando i mostri, poggia. « Astolfo il corno tuttavolta suona ; « Fuggon l’Arpie verso la zona roggia, « Tanto che sono all’altissimo monte, « Ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte. « Quasi della montagna alla radice « Entra sotterra una profonda grotta, « Che certissima porta esser si dice « Di chi all’inferno vuol scender talotta. « Quivi s’è quella turba predatrice « Come in sicuro albergo ricondotta, « E già sin di Cocito in su la proda « Scesa, e più là, dove quel suon non s’oda. »
E così l’Ariosto collega l’antico col moderno, e fingendo che Astolfo nell’800 dell’èra volgare avesse spinto le Arpie nell’Inferno, ove Dante, 500 anni dopo Astolfo, dice di averle trovate, mette d’accordo, come se fossero una storia vera, le fantasie di tutti gli altri poeti col racconto di sua invenzione.
Da Fineo ebbero gli Argonauti notizie e consigli sul miglior modo di
schivare i pericoli della loro navigazione ; e partiti da lui colmi di ringraziamenti e
di doni proseguirono il loro viaggio per l’Ellesponto e la Propontide. Prima di entrar
nel Ponto Eusino perderono la compagnia di Ercole, il quale avendo
mandato il suo valletto Ila a prender dell’acqua sulle coste della
Misia, e non vedendolo ritornare, scese a terra a cercarlo e non volle seguitare il
viaggio. Per quanto cercasse, non lo trovò più ; e fu detto dai poeti che le Ninfe Naiadi avevano rapito il giovinetto Ila ; il che in
prosa significherebbe che era annegato in quella fonte ov’egli andò ad attingere
l’acqua. Gli Argonauti non furon troppo dolenti di perder la compagnia del loro
carissimo Panfago, perchè poteron procedere più speditamente,
alleggerita di quel grave peso la nave, e senza doversi così spesso fermare a far nuove
provvisioni da bocca.
Tutti gli altri incidenti che avvennero avanti che gli Argonauti giungessero nella
Colchide sono di lieve importanza in confronto dei già narrati e dell’azione principale, scopo del loro viaggio ; quindi ci affretteremo a parlare di
questa. E sebbene la presenza e il braccio di tanti famosi Eroi rendesse sicura
qualunque impresa da compiersi colla forza, trovaron per altro che questa non bastava a
conquistare il Vello
d’oro : bisognava ancora vincer gl’incanti, nelle quali arti i Greci eran novizii in confronto dei
ColchiColchici.Maga che lo
aiutasse a superare ogni ostacolo soprannaturale. Con tale aiuto potè egli solo compier
l’impresa, rimanendo spettatori e pieni di maraviglia gli stessi Eroi suoi compagni.
Ecco perchè d’ora in avanti anche i nostri sguardi dovranno esser principalmente rivolti
su Giasone e la Maga Medea.
Re della Colchide al tempo che vi giunsero gli Argonauti, cioè 13 secoli avanti il
Cristianesimo, era Eeta, il quale aveva una figlia nubile chiamata Medea ed un piccolo figlio chiamato Absirto. I Colchi eran celebri nell’antichità per l’arte magica, e Medea
apparteneva al novero
« Di quelletriste che lasciaron l’ago,« La spola e ‘l fuso, e fecersi indovine ; « Fecer malìe con erbe e con imago. »
Fra tutti gli Argonauti distinguevasi Giasone per avvenenza e per
regale aspetto ; e Dante che lo pose nell’ Inferno
come ingannatore di femmine, non tace però di alcune sue egregie doti, facendo dire a
Virgilio :
« ….. Guarda quel grandeche viene« E per dolor non par lagrima spanda : « Quanto aspetto realeancor ritiene !« Quegli è Iason che per cuore e per senno« Li Colchi del monton privati fene. »
Dicono gli scrittori
antichi che alla foce del fiume E i Naturalisti confermano quel che
dice il vello d’oro. Le difficoltà erano straordinarie : conveniva entrare
in uno steccato difeso da tori spiranti fiamme, aggiogarne due ad un aratro spingendoli
quindi a fare un solco ; e, seminati i denti del serpente ucciso da Cadmo, combattere
coi guerrieri che nascevano da quelli ; e finalmente uccidere il drago alato che
vegliava a guardia dell’aureo vello. Medea coll’arte magica premunì talmente Giasone che
vinse ogni prova, e, impadronitosi dell’ambito tesoro, partì subito cogli eroi compagni
e colla sua fidanzata per imbarcarsi nuovamente sulla nave Argo
ancorata nel fiume FasiFasi v’era una città omonima che
apparteneva al regno della Colchide. Perciò Medea da Ovidio è chiamata ancora Phasis (la donna del Fasi o Fasso). Dalle rive del Fasi furono portati dagli Argonauti
i fagiani in Grecia, e dalla Grecia vennero col greco nome a Roma
e furono perciò chiamati Phasiani.Marziale, in
un epigramma intitolato Phasianus, lo fa dire a questo
volatile :fagiano di Marziale ; poichè chiamano Fagiano
del Fasi la specie più comune che si conserva e moltiplica nelle fagianiere.Dante allude a questo fatto mitologico nel Canto
Paradiso, dicendo :
« Quei glorïosi che passaro a Colco « Non s’ammiraron, come voi farete, « Quando Jasonvider fatto bifolco. »
Così termina Ovidio l’elegia ; ma prima
ha raccontato poeticamente tutto l’atroce delitto di Medea, ed asserito con
sicurezza che questo nome di I Geografi moderni credono che l’attuale città di Eeta li avrebbe fatti inseguire, e perciò condusse seco come in ostaggio per
qualunque più tristo evento il suo piccolo fratello Absirto ; e quando
vide che il padre stesso li inseguiva con un esercito, invece di fidare nel valore degli
Argonauti, ove mai s’impegnasse la mischia, uccise il fratello Absirto e ne gettò le
membra sparse sulla via per cui passar doveva suo padre, affinchè questo ferale
spettacolo lo ritardasse, arrestandolo a rendere alla salma dell’ estinto figlio i
funebri onori. Con questo orrendo delitto ottenne l’intento, e dimostrò a tutti, non che
allo sposo, di qual tempra ella fosseOvidio,
che fu relegato nell’antica città di Tomi sul Mar Nero presso
Odessa, ci dice in una elegia (Trist. Tomi,
greco vocabolo che significa dissezione (e dal quale fu composto
pur anco il nome di Anatomia) :consecuisse sui. »Tomi lo aveva il territorio anche
prima che vi fosse fabbricata la città :Constat ab Absyrti cœde fuisse
loco. »Ovidiopol, fabbricata da Caterina II verso la foce del Dniester, sia
sul luogo stesso dell’antica Tomi dove fu relegato Ovidio, e che
perciò fosse chiamata Ovidiopol (città d’Ovidio)
Quanto alla strada che tennero gli Argonauti per ritornare in Grecia, vi sono tre
opinioni diverse, che sarebbero poco divertenti a raccontarsi e a udirsi, perchè dopo
tutto, non si può accertare qual sia la vera ; e fortunatamente poco importa il saperlo.
Si accordano però i diversi Mitologi ad asserire che volendo gli Argonauti ritornare in
Grecia per Mar Rosso, e chi il Mare Adriatico ; e su questa fatica che
ora direbbesi erculea (benchè vi mancasse, come sappiamo, l’aiuto di
Ercole che aveva lasciati molto prima i compagni), si estendono con
molte amplificazioni i poeti antichi, come faranno i futuri poeti che
questo tempo chiameranno antico, narrando il passaggio del general Bonaparte e
dell’artiglieria francese sulle nevose cime delle Alpi. Quella antica è probabilmente
una invenzione poetica per encomiar quegli Eroi che non ebber nulla da fare nella
conquista del vello d’oro : la narrazione del fattò vero moderno parrebbe non meno
favolosa, se si perdessero i documenti storici.
Rientrati gli Argonauti nei mari della Grecia accompagnarono Giasone e Medea in Tessaglia, ed ivi si divisero da loro per andare a compiere altre illustri imprese, delle quali parleremo fra breve in altri capitoli. In questo convien continuare il racconto di Giasone e Medea.
Poco lieto di questo ritorno fu Pelia usurpatore del regno di Giasone, poichè aveva sperato di essersi tolto di mezzo per sempre il nipote ; ed ora lo vedeva tornare colmo di gloria col prezioso vello ed una fiera moglie di lui più tremenda. E qui ricominciano gli atroci fatti e le magiche frodi.
È una invenzione di alcuni poeti, e specialmente di Ovidio, che Medea col sugo di certe
erbe trasfuso nelle vene del vecchio Esone lo ringiovanisse,trasfusione del sangue, se non per ringiovanire, almeno per riacquistare le
forze illanguidite dalla vecchiezza, e viver più a lungo. Disgraziatamente la Storia
ci fa sapere che questo barbaro metodo curativo (il quale, generalmente, scorciava o
troncava la vita ai giovani a cui toglievasi il sangue senza prolungare quella dei
vecchi a cui s’infondeva) fu posto in pratica più volte per alcuni principi e potenti
della Terra. Anche nel 1600 fu tentata dai medici francesi la trasfusione del sangue
umano come mezzo curativo delle emorragie ; ma si dovè ben presto abbandonarla per
l’incertezza dell’effetto e la responsabilità dei mezzi. Anzi nel 1668 fu proibita e
condannata anche per legge. Non ostante si asserisce da alcuni autori che di tanto in
tanto i medici francesi ne abbiano ritentato la prova. Peraltro la trasfusione del
sangue di una bestia nelle vene dell’ uomo o della donna non è proibita ; ed anche in
Italia, e precisamente in Napoli, fu eseguita nel mese di novembre 1872 con prospero
successo l’operazione della trasfusione del sangue di un agnello nelle vene di una
signora non anco trentenne, in caso di anemia grave per ripetute emorragie. (V. il
giornale La Nazione del 23 novembre 1872). È da sapersi inoltre che
il Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere in Milano, pubblicò
tra gli altri temi di concorso anche il seguente Tema per l’anno
1875 : La trasfusione del sangue nell’uomo, studiata nel concetto di
innesto ematico ; e promise un premio di lire 1500 e una medaglia d’oro di lire
500.
Giasone dopo essere stato qualche anno in perfetto accordo colla moglie ed avutine due
figli, ricominciò una vita errante in cerca di straordinarie avventure ; ed essendosi
fermato lungamente alla corte di Creonte re di Corinto, si sparse la fama che egli
avrebbe sposato Glauca figlia del re, e ripudiato Medea. Questa appena
lo seppe, corse a Corinto coi figli ; e trovando che la fama non era stata bugiarda,
finse rassegnazione e di voler fare anch’essa un dono alla novella sposa, e le diede un
abito ed anche un cinto spalmati di magici succhi, che divamparono in fiamme
nell’appressarsi della sposa all’ara ardente e alle vampe delle faci nuziali ; e la
misera Glauca, o come altri la chiamano Creusa, morì carbonizzata, e l’incendio si
comunicò anche alla reggia. Nè Egeo padre di Teseo. Quel che ivi macchinasse sarà detto nel racconto
particolare della vita di questo Eroe. Giasone colpito cru- delmente nelle sue più care
affezioni tornò affranto dal dolore nel suo regno di Tessaglia ; e di lui null’altro più
si racconta che la trista fine. Si narra che la nave Argo dopo il
famoso viaggio fu collocata sulla riva del mare sopra una base come un glorioso trofeo,
e che Giasone frequentemente all’ombra di essa arrestavasi ripensando ai dì che furono,
quando egli duce dei più degni Eroi, varcava su quella incogniti mari. Ma un giorno,
come volle il suo fato funesto, dalla nave sconquassata nel lungo viaggio e corrosa
dalle intemperie, cadde una trave sulla testa dell’Eroe e lo uccise. E forse per questa
fine ingloriosa non ebbe egli dopo la morte quegli onori divini che solevano prodigarsi
agli altri Eroi. Invece fu onorata ben più la stessa nave, che i poeti asserirono
assunta in cielo e trasformata in quella costellazione che ne porta tuttora il nome, e
nella quale i moderni astronomi coi loro telescopii hanno contato 127 fulgidissime
stelle.
Per quanto gli Antichi si affaticassero a dire che Argo fu la prima
nave inventata dagli uomini, nessuno dei moderni vorrà credere che non ve ne fossero
state altre anche avanti. Si può bene ammettere che fosse la prima di quella particolare
ed egregia costruzione, ma non già che gli Argonauti fossero i primi navigatori. Le
isole stesse dell’ Arcipelago greco, per quanto vicine tra loro, non che le più distanti
negli altri mari, non avrebbero potuto esser popolate da gente che vi si fosse
trasportata a nuoto ; e sappiamo dalla Storia della scoperta dell’America, che anche i
selvaggi di Frisso ed Elle ;
mentre poi per l’ aureo vello intendono un ricco tesoro trasportato
nella Colchide, ove gli Argonauti andarono per ricuperarlo.
I poeti per altro prescelgono sempre quel che è più maraviglioso, ancorchè sia men
vero, e vi aggiungono particolari incidenti per renderlo verosimile. Lo stesso Cicerone
nelle sue opere filosofiche riporta una scena della tragedia degli
Argonauti di Lucio Accio, nella quale il poeta finge, che un pastore
che non aveva mai prima veduto una nave, nello scorgere dall’alto di un monte il
vascello degli Argonauti traversare i flutti, daprima si maraviglia e resta attonito
credendolo un soprannaturale prodigio ; ma quando vede i giovani Eroi e ode il suon
della cetra e i nautici canti, comincia a sospettare che sia quella una nuova invenzione
maravigliosa dell’umano ingegno. E Cicerone afferma che i primi filosofi dovettero
imitar questo pastore nell’osservare i fenomeni dell’Universo, per giunger poi a
scuoprire col raziocinio qual ne fosse la causa e l’autore« Ergo ut hic (pastor) primo aspectu inanimum
quiddam sensuque vacuum se putat cernere, post autem signis certioribus quale sit
id, de quo dubitaverat, incipit suspicari,
— (sic philosophi
debnerunt, si forte eos primus aspectus mundi conturbaverat, postea, quum
vidissent motus ejus finitos et æquabiles omniaque ratis ordinibus moderata
immutabilique constantia, intelligere inesse aliquem non solum habitatorem in hac
cœlesti ac divina domo, sed etiam rectorem et moderatorem et tamquam architectum
tanti operis tantique muneris. »De. Nat.
Deor.
Ma di tutte le invenzioni mitologiche di cui fu abbellito il racconto della spedizione
degli Argonauti, nessuna divenne più popolare di quella del fiero Nel lib. x poi il retore latino dalle lodi della tragedia
passando a quelle dell’ Autore, dice : carattere di Medea. I Drammatici Greci e Latini vi trovarono un argomento
eminentemente tragediabile, per dirlo col vocabolo usato
dall’Alfieri ; ed anche nel secolo di Augusto sembra che si recitassero frequentemente
tragedie sui fatti atroci di Medea, poichè Orazio nella poetica
avverte che nelle tragedie di tale argomento non si deve introdurre Medea ad uccidere i
figli sulla scena (coram populoMedea, perchè tutti i più celebri
scrittori latini ne parlano con tante lodi da far credere che fosse un capo
lavoro dell’arte tragicaQuintiliano,
nel lib. Istituzioni Oratorie, nel
lodare questa tragedia ne riporta un sol verso, che è tanto citato ed analizzato dai
retori e dai logici, ed è il seguente posto dal poeta sul labbro di
Medea :« Ovidii
— Medea
videtur mihi ostendere, quantum ille vir præstare potuerit, si ingenio suo
temperare quam indulgere maluisset. »E Ovidio
stesso, che per lo più rammenta modestamente altre sue Opere, e di
talune confessa ancora i difetti, parla poi più volte con gran convinzione e
sicurezza del suo valore tragico, come, per esempio, nei seguenti
versi :
La forza del braccio e degli stromenti meccanici inventati dall’uomo può abbatter
mostri e tiranni, ruinar città, devastare e spopolar territorii, ma non creare la civiltà. Questa deriva ed è prodotta soltanto dalla persuasione e
dalle arti di pace. Quindi la guerra è giustificata soltanto quando non vi è altro
mezzo per poter vivere in pace e progredire senza ostacoli nel perfezionamento
economico, morale e politicoCicerone
scriveva : Parandum est bellum, ut in pace vivatur ; e Tito Livio : Iis bellum est justum, quibus est
necessarium, massima commentata da Machiavelli ne’suoi Discorsi, e poi nello stesso secolo Alberigo Gentile nel suo trattato De Jure Belli e
nell’altro De Legationibus, coi quali trattati egli gettò le prime
basi e delineò il campo del Diritto Internazionale, per cui meritò e merita il
glorioso titolo di Precursore di Grozio.
Civiltà e civile
derivano da città e cittadino, e stanno ad
indicare nel primitivo loro significato il modo di vivere della città, ossia dei
cittadini ; quindi, secondo questa etimologia e questo primitivo significato, diconsi
guerre civili quelle tra cittadini della stessa città o dello
stesso Stato ; le quali guerre son tutt’altro che civili nel senso
morale, essendo invece le più incivili e immorali di tutte, e segno
manifesto di decadenza della civiltà ; poichè questa se non è
accompagnata dalla moralità, non è altro, secondo la frase del
Romagnosi, che una barbarie decorata. La civiltà infatti com’ebbe
origine dalla concordia degli uomini a stare uniti per comune vantaggiocivitas non est quam concors hominum
multitudo. » — (S. August., De Civ. Dei,
Sallust., Jugurth. x.)Orfeo ed Anfione, la cui esistenza appartiene ai tempi
eroici più remoti. Essi sono da annoverarsi tra i Semidei, anzichè
tra i semplici Eroi, e, secondo il sistema del Vico, altro non sarebbero che caratteri
poetici dei primi civilizzatori dei popoli.
Essendo incerto chi di loro due esistesse prima, comincierò da Anfione, del quale è più breve il racconto.
Anfione fu creduto figlio di Giove e di Antiope (o secondo altri di
Mercurio), e che fosse re di Tebe. Di lui si narra un solo fatto mirabile, che val per
mille ; e quasi nessun poeta tralascia di accennarlo, e tra questi anche Dante. Dicono
che Anfione col suon della cetra e col canto facesse scender dal
monte Citerone i macigni, che per udirlo si disposero in giro Hor., Saxa Cithœronis,
Thebas agitata per artemPropert., Dante le Muse a dare alla sua poesia una efficacia
pari a quella di Anfione :
« Ma quelle donne aiutino il mio verso, « Che aiutaro Anfione a chiuder Tebe,« Sì che dal fatto il dir non sia diverso. »
Se quest’ Anfione era quel desso che fu marito di Niobe, come dice OvidioOvidio nel
lib. Metamorfosi fa dire a Niobe, tra le altre millanterie, anche queste :fidibusque
mei commissa maritiMœnia cum populis a me
viroque reguntur. »
Di Per non dover ritornare altrove su questo stesso argomento (poichè si
tratterebbe di un’epoca meno remota di quella Ma invece di sole nove stelle, come ne vedevano gli
Antichi ad occhio nudo, se ne vedono diciannove col telescopio.Orfeo creduto figlio di Apollo e della Musa Calliope si narrano
innumerevoli maraviglie operate col suono e col canto, e prima e dopo la spedizione
degli Argonauti, non in terra soltanto, ma pur anco nell’Inferno. Oltre i massi e le
quercie egli traevasi dietro ad ascoltarlo anche le tigri e i leoni : il che, secondo
Orazio, significava che ei seppe distogliere gli uomini selvaggi e antropofagi dalle
stragi e dalla eroica), parlerò
qui brevemente della principal maraviglia che gli Antichi raccontavano di Arione, vissuto sei in sette secoli prima dell’ èra volgare, ossia
verso i tempi di Tarquinio Prisco. — Ritornando Arione dalla
corte di Periandro re di Corinto, colmo di ricchezze acquistate
col canto e col suono, i marinari che lo riconducevano a Metimna
sua patria nell’isola di Lesbo, congiurarono di ucciderlo per impadronirsi dei
suoi tesori. Egli accortosene, cominciò a cantare e suonare per commuoverli ; ma
vedendo mancare l’effetto sperato (perchè l’esecranda fame dell’oro chiude il
cuore a tutti i più nobili e delicati sentimenti), si gettò in mare, ove un delfino, attirato dalla dolce armonia, lo salvò portandolo sul
dorso sino alla costa del Peloponneso. Di questo fatto mitologico che credevasi
accaduto in tempi storici parlano anche Erodoto e Cicerone, non che i poeti : tra
i quali Ovidio lo racconta a lungo nel lib. Fasti, e chiude la sua narrazione con le lodi del delfino e col premio che ebbe dagli Dei di esser cangiato nella
costellazione che porta quel nome :Delphina recepitcivilizzatori dei popoliOrpheus ;Hor.,
Narrano i poeti, e tra questi più splendidamente di tutti Virgilio, che Orfeo nel giorno stesso destinato alle sue nozze colla Ninfa Euridice, perdè la sua sposa che morì per essere stata morsa in un piede da
una vipera. La desolazione di Orfeo è indescrivibile : basti il dire che egli osò
scendere nelle Can
Cerbero ne rimase ammaliato, e le Furie cessarono di tormentare i dannati per
ascoltarlo, e Plutone e Proserpina inteneriti gli accordarono la grazia implorata di
riprender la sua diletta Euridice. Vi aggiunsero per altro una condizione (sic erat in fatis), che precedendola nel suo ritorno non si voltasse mai a
guardarla, finchè non fossero giunti alla superficie della terra. Orfeo promise e si
avviò ; ed Euridice lo seguiva. Ma quando furon vicini allo sbocco dell’Inferno presso
il promontorio di Tenaro, Orfeo udì del romore, e temendo per Euridice, si voltò a
mirare ; ed allora Euridice diè un grido di dolore, e gli disse per sempre addio. Fu inutile correre per raggiungerla, o tentar nuovamente di
penetrare nel regno delle Ombre : il Destino vi si opponeva per, la violata condizione
espressa. Inconsolabile e disperato si ritirò solitario a pianger la perduta Euridice
sul monte Rodope nella nativa Tracia, e rifiutò
qualunque nuovo connubio che gli fosse offerto. Il che fu causa della sua fine
funesta, perchè le Tracie femmine indispettite dei suoi rifiuti, percorrendo nel
giorno delle feste di Bacco quelle regioni, trovarono Orfeo, e furibonde lo fecero a
brani. Il capo di lui ruotolando giù per le balze del Rodope cadde nel sottoposto
fiume Ebro ; ed anche così com’era spiccato dal busto e trasportato
dalla fiumana ripeteva pur sempre il nome di Euridice. Fu poi raccolto dai Lesbii e
datogli onorevole sepoltura ; e la sua lira fu presa dalle Muse e
cangiata in quella costellazione boreale che ne porta tuttora il nome e vedesi
fregiata di 21 stella.
Al racconto mitologico di Euridice trovasi sempre congiunto nei
poeti quello di Aristeo, che fu il primo Apicultore dell’Antichità. Egli era figlio della Ninfa Cirene, e perciò fu da taluni considerato come uno dei Semidei. Ambiva Proteo, che dopo i soliti
sutterfugii di molteplici trasformazioni finalmente gli disse di sacrificar quattro
giovenche in espiazione della sua colpa, e che lasciandone putrefare le carni, ne
sorgerebbero nuovi sciami a ripopolare i suoi alveari. Quel che disse il vecchio
profeta si avverò. Ed ecco una nuova metamorfosi mitologica non mai osservata in
natura, che cioè i vermi della putredine si cangino in api melliflue. Così bene spesso
gli Antichi alle leggi naturali della creazione sostituivano i fantasmi della loro
immaginazione.
Il nome e la forza d’Ercole hanno fama tanto divulgata e generale,
che non v’è persona che l’ignori : tant’è vero che il volgo dice che è un Ercole chiunque sia dotato di robustezza e forza straordinaria. Ma le imprese
che si attribuiscono al greco Eroe son tante, perchè tanti furono gli eroi di questo
nome, e ad un solo Ercole si ascrissero le imprese di tutti.
Fra i molti Eroi di questo nome (Cicerone ne conta 6 e Varrone 43) fu il più
fortunato quello Tebano, perchè arricchito delle spoglie di tutti
gli altri. Egli era figlio di Anfitrione
re di Tebe e di Alcmena sua moglie ; ma fu detto che era figlio di
Giove, per render più credibili, secondo le idee di quei tempi, le sue straordinarie e
prodigiose gesta. Le quali generalmente si afferma che fossero 12, conosciute sotto il
nome di fatiche d’Ercole, ed imposte ad esso dal re Euristeo suo
cugino ; ma però molte altre ancora ne compiè spontaneamente dovunque trovasse da
uccider mostri o tiranni.
Ammesso che egli fosse figlio di Giove e di Alcmena v’è da aspettarsi che Giunone lo
perseguiterà. Infatti si racconta che questa Dea cominciò a perseguitarlo prima che
egli nascesse. Era scritto nel libro del Fato che regnerebbe in Tebe quello dei due
Sebbene Ercole sia
celebrato da tutti i più antichi poeti, incominciando da Omero che accenna a
cantici e poemi antichissimi in onore di questo Eroe, troviamo per altro in cugini (altri dicono gemelli) che prima nascesse
nella Corte Tebana. Giunone come Dea dei parti fece in modo che nascesse prima
Euristèo, e perciò Ercole fosse a lui sottoposto. Nato che ei fu ed essendo ancora in
culla, Giunone gli mandò due grossi serpenti a strangolarlo ; ma il fanciullo, che,
per quanto dicono i poeti, anche in culla era degno di Giove, strangolò loro. Questo
fatto divenne tanto famigerato, che anche i pittori, e principalmente gli scultori si
dilettarono di rappresentare Ercole infante che stringe in ciascuna mano un serpente e
sta in atto di strangolarli entrambiPindaro la prima narrazione della favola dei serpenti. Ne
riporterò due strofe della prima Ode delle Nemee :Saturnia, lacerato il senoVia lattea ; la quale invece di esser Galassia la chiamavano i Greci in lor linguaggio, che
significa lo stesso che Via lattea nel nostro ; e col greco nome la
rammentò Dante descrivendola nei seguenti versi della Divina Commedia :
« Come distinta da minori e maggi « Lumi biancheggia tra i poli del mondo, « Galassiasì, che fa dubbiar ben saggi.
Ercole può dirsi veramente, secondo il linguaggio del Vico, il carattere poetico
dell’eroismo greco, avendogli attribuito i Greci tutte le più straordinarie e mirabili
prove, in premio delle quali acquistossi l’immortalità e un seggio tra gli Dei nel
Cielo. Il suo nome in greco fu Heracles, che in quella lingua
significa reso illustre da Era, ossia da Giunone, vale a dire per le
persecuzioni di questa Dea. I Latini con poca differenza di ortografia lo dissero Hercules che noi traduciamo Ercole. Chiamavasi anche Alcide, o dall’avo suo Alceo, come asserisce Erodoto, o da un greco vocabolo significante forza e per traslato virtù, come affermano gli
etimologisti. La forza che Ercole manifestò sin dalla prima infanzia andò sempre
talmente crescendo da sembrare indomabile e irresistibile. Quindi si procurò
d’infrenarla e dirigerla coll’eduzione ; ed Ercole ebbe maestri ed occupazioni non
solo in ogni genere di esercizii ginnastici e guerreschi, ma pur anco nelle scienze,
nella poesia e nella musica. E dell’indole sua impetuosa ci tramandarono un tristo
esempio gli Antichi, il solo che sia a disdoro di quest’eroe, che cioè rimproverato
dal suo maestro di musica chiamato Lino, gli ruppe la testa colla
lira Lino fu creduto figlio di Apollo e
della Musa Terpsicore e nato qualche anno prima di Orfeo. I poeti li considerano
entrambi, e maestro e discepolo, valentissimi nel suono e nel canto ; ma di Lino
non hanno saputo inventare aneddoti maravigliosi. Virgilio
nella celebre Egloga
Orphei Calliopea, Lino
formosus Apollo. »Virtù, e si rassegnò al voler del Fato
di star sottoposto ad Euristeo. A questo tempo della sua vita si
riferisce il moralissimo racconto di Ercole al Bivio, in cui si
finge che il giovane eroe, invece di sceglier la via della Voluttà,
per quanto sembrasse amena e piacevole, ma che induceva all’oblio dei proprii doveri e
della fama, preferì quella ardua e malagevole della Virtù che guida
al bene della umanità ed alla gloria.
Accenneremo prima le 12 imprese impostegli da Euristeo, e conosciute sotto il nome di
fatiche d’Ercole, e poi le altre non meno celebri da lui
spontaneamente compiute. Le dispongo in quell’ordine in cui si trovano rammentate da
Cleonœi tolerata ærumna Leonis.Lernœam ferro et face
contudit Hydram.Erymantheum vis
tertia perculit Aprum.Stymphalidas
pepulit volucres discrimine quinto.Threiciam sexto spoliavit Amazona balteo.Augiœ stabulis impensa
laboris.expulso numeratur adorea Tauro.Diomedeis victoria nona quadrigis.Geryone extincto decimam dat Iberia
palmam.mala Hesperidum destricta
triumpho.Cerberus extremi suprema est meta
laboris. »
Colla clava, e secondo alcuni Mitologi, soffocandolo tra le sue braccia, uccise
Ercole il Leone della selva Nemea, e gli tolse l’irsuto vello, che portò sempre in
dosso per manto e come il suo primo trofeo di gloria. Questi due distintivi, la
clava e la pelle del leone, oltre la robusta e gigantesca corporatura dell’Eroe
fanno riconoscere Ercole nelle molte statue che di lui vedonsi ovunque. L’estinto
Leone, non si sa per quali suoi meriti, fu cangiato nella
costellazione che ne porta il nome, ed è uno dei 12 segni del Zodiaco, adorno di 93
stelle.
La parola Idra derivando da un vocabolo che significa acqua è il nome che davano gli Antichi ai serpenti aquatici. I
Naturalisti moderni, invece, lo hanno dato ai polipi di tentacoli di
questi alle molteplici teste dell’Idra favolosa. Agli Antichi non bastò il dire che
la loro mitologica Idra fosse insanabilmente velenosa, ma vi
aggiunsero che avea sette teste, e (maggior maraviglia), che recisa una testa ne
rinascessero due. Questa Idra avea per soggiorno la palude di Lerna in Grecia. Quanto fosse difficile e pericolosa impresa l’uccidere un
tal mostro se ne accorse Ercole quando vide raddoppiarsi all’Idra tutte le teste che
egli tagliava. Adoprò allora anche il fuoco per ristagnare il sangue che sgorgando
dalle ferite produceva quel terribile effetto ; e Giunone per impedirgli di compier
l’impresa gli mandò un enorme Cancro a morderlo nelle gambe,
affinchè l’Eroe, voltandosi, fosse ferito dall’Idra il cui veleno era letale. Ercole
fu costretto a chiamare in aiuto il suo servo o amico Jolao che lo
schermisse dalle offese di uno dei due nemici, in mezzo a cui si trovava : schiacciò
prima il Cancro, e poi finì di tagliar le teste all’Idra, e nel sangue di essa tinse le sue freccie che divennero in appresso
tanto famose anche nei poetici racconti della guerra di Troia. Il Cancro per questo maligno e sciagurato servigio prestato a Giunone fu
trasformato nel segno del Zodiaco di tal nome e fregiato di 85 stelle. Anche l’Idra fu trasportata nel firmamento, e dagli Astronomi antichi
chiamata l’Idra femmina, costellazione boreale adorna di 52
stelle, la più grande e lucente delle quali fu detta e dicesi ancora il
cuor dell’Idra. Gli Astronomi moderni dopo la scoperta dell’America e del
Capo di Buona Speranza avendo osservate le costellazioni australi non mai viste
dagli antichi, diedero il nome di Idra maschio ad una di esse
composta di sole 8 stelle.
Questo cinghiale uscito dalle selve del monte Erimanto menava
stragi e devastazioni come il cinghiale di Calidonia.
Non sarebbe stata una gran fatica se Ercole avesse dovuto uccidere un sì timido
animale, che abitava sul monte Mènalo in Arcadia ; ma poichè
questa cerva era sacra a Diana, stimavasi un sacrilegio l’ucciderla ; ed avendo
inoltre un mirabile distintivo, cioè le corna d’oro, ed alcuni
aggiungono anche i piedi di bronzo, Euristeo voleva possederla viva ; perciò
convenne ad Ercole inseguirla per un anno intero, e finalmente la raggiunse in un
angolo o lingua di terra alla foce del fiume Ladone.
Questi mostri furono descritti da noi colle parole di Virgilio e di Dante nel
parlare della spedizione degli Argonauti, quando raccontammo che Calai e Zete ne
avevano liberato Fineo. Ma sembra che la fatica d’Ercole, riferibile alle Arpie,
fosse compiuta prima di quel tempo, poichè in questo fatto le Arpie son chiamate uccelli stinfalidi, dall’abitar che facevano presso il lago Stìnfalo in Arcadia. Ercole le scacciò da quel territorio, ed esse
fuggirono in Tracia a tormentar Fineo ; discacciate anche di là da Calai e Zete si
fermarono nelle Isole Stròfadi, come dicemmo, ove poi le trovò
Enea, come diremo.
Le Donne antiche eran più fiere delle moderne. Oltre quelle che nell’isola di Lenno
« Tutti li maschi loro a morte dienno, »
e si costituirono in repubblica, troviamo ora un regno tutto di donne, le quali non
solo avevano ucciso tutti li maschi
loro, come fecero quelle, ma divenute
abilissime a tirar d’arco, spinsero le loro spedizioni guerresche nell’Asia Minore,
non che nella Grecia sino all’Attica ed alla Beozia. Furon chiamate le Amazzoni, del qual nome si danno 5 diverse etimologie ; ma il lettore non si
spaventi : io riporterò soltanto la più comune e adottata generalmente, che fa
derivare la parola Amazzone da due vocaboli greci che significano
senza mammella, ed allude a quel che raccontano di queste
guerriere i Mitologi, che cioè per esser più spedite a tirar d’arco, si tagliavano o
bruciavano da bambine la mammella destra. Abitarono da prima nella Sarmazia presso
il fiume Tanai (ora il Don,) quindi nella Cappadocia sul fiume Termodonte.Ad Ercole fu imposto di
combatter con esse per togliere ad Ippolita loro regina un
preziosissimo cinto di cui si era invogliata Admeta figlia di
Euristeo. Coloro che dissero che Ercole oltre a togliere il cinto ad Ippolita la
uccidesse, non pensarono che questa stessa Amazzone fu data da Ercole in moglie al
suo amico Teseo, e ne nacque Ippolito tanto
celebrato dai poeti e specialmente dai tragici antichi e moderni.
L’esistenza delle Amazzoni è da riporsi tra le favole : non
ostante era creduta non solo anticamente, ma anche dopo la scoperta dell’America, e
fu dato il nome di fiume delle Amazzoni al più gran fiume di quel
nuovo continente e del mondo, perchè si prestò fede al racconto di Orellana compagno
di Pizzarro, che nel 1540, quand’egli primo vi penetrò, avesse trovato su quelle
rive una repubblica di AmazzoniBuffon diede il nome di Amazzoni ai pappagalli colle
estremità delle ali colorate di rosso e di giallo, i quali vivono lungo le rive
del fiume delle Amazzoni. In Mineralogia fu chiamata Amazzonìte quella specie di pietra preziosa (feldspato)
ordinariamente di colore verdastro o olivastro, che si scava nelle regioni
prossime a quel gran fiume.
Augìa era un re d’Elide, che possedendo tremila
bovi, (altri dicono trentamila) non aveva mai fatto in dieci anni nettarne le stalle
che eran vicine alla città. Dal puzzo che ne usciva temevasi una infezione, tanto
lasciandovi quanto asportandone le immondezze. Ercole trovò un compenso da valenti
ingegneri : deviò il corso del fiume Alfeo, e ne fece passar la corrente per quelle
stalle e trasportarne al mare ogni sozzura. Allusivamente a questo fatto mitologico
dicesi ancora oggidì, come in antico, che par la stalla di Augia
qualunque abituro ove sia poca nettezza.
Dopo che Ercole ebbe ucciso il Leon Nemeo e l’Idra di Lerna, e preso vivo il
Cinghiale di Erimanto, non dovè sembrargli una straordinaria fatica il liberar Creta
da un Toro furioso mandato da Nettuno ai danni di quel popolo. Se poi lo prendesse
vivo o lo uccidesse, Mythologi certant, et adhuc sub judice lis
est ; e poco c’importa che sia data la sentenza definitiva.
Mostri peggiori delle fiere crudeli sono i tiranni ; ed Ercole da
par suo non li risparmia. Seppe che Diomede re dei Bistonii in
Tracia pasceva di sangue e di carne umana certi suoi strani cavalli carnivori, ed
egli andò a far visita a quel tiranno, lo prese gentilmente per la vita e lo diede a
divorare ai suoi cavalli stessi ; dei quali poi s’impadronì e li regalò ad
Euristeo.
I tiranni non son mai mancati in qualsivoglia regione del mondo : anche Dante diceva,
« Che le terre d’Italia tutte piene « Son di tiranni, ed un Marcel diventa « Ogni villan che parteggiando viene. »
Ci vorrebbe sempre un Ercole
« Valente di consiglio e pro’ di mano, »
come l’antico, a purgarne la Terra.
Ercole aveva saputo che nella Spagna esisteva un re di statura gigantesca e di forma mostruosa, con tre corpi, tre teste e sei ale ; e più mostruoso era l’ animo suo crudele che dilettavasi di straziare i popoli, e dar, come Diomede, la carni umane in cibo alle sue giovenche. Ercole lo uccise e s’impadronì di tutte le mandre, varcando con esse i Pirenei e le Alpi per ritornare in Grecia.
Di questo viaggio che diede occasione ad altre straordinarie imprese di Ercole, non
comandate a lui da Euristeo, parleremo fra poco. Qui convien dire che quando egli fu
giunto allo stretto, che ora dicesi di Gibilterra e allora di Gades, ivi arrestò il corso delle sue spedizioni dalla parte di ponente, e,
secondo i Mitologi, pose in questo stretto due colonne coll’ iscrizione : Non più oltre. Fu creduto che fosse questo un avvertimento, che dava
Ercole ai naviganti, di non avanzarsi nell’Oceano Atlantico. Anche Dante rammenta
quello stretto con una perifrasi esprimente questo fatto mitologico, facendo dire ad
Ulisse :
« Io e’compagni eravam vecchi e tardi, « Quando venimmo a quella foce stretta,« Ov’Ercolesegnò li suoi riguardi,« Acciocchè l’uom più oltre non si metta. »
Perciò poco più oltre, fino al tempo di Colombo, si azzardarono gli uomini ad
avanzarsi nell’Atlantico ; e l’iscrizione Non plus ultra delle colonne d’Ercole divenne un assioma di colonnati.
Non deve credersi per altro che le così dette colonne d’Ercole
fossero fatte come quelle delle monete spagnole o di uno dei quattro o cinque ordini
dell’architettura, ma erano due montagne sullo stretto di Gibilterra, chiamate Abila e Calpe, la 1ª appartenente all’Affrica, e
la 2ª all’Europa.
Da Espero fratello di Atlante deriva il patronimico di Espèridi che perciò significa le figlie di
Espero ; le quali erano tre, chiamate Egle, Aretusa ed EsperetusaEspero fu cangiato in quella stella omonima che prima comparisce la sera
dalla parte di occidente : dalla qual voce Espero derivò poi la
parola vesper in latino e vespero in italiano.
Ma questa stella non è veramente altro che il pianeta di Venere. Infatti, troviamo
che anche Cicerone nel lib. De Nat. Deor. lasciò scritto : « Infima est quinque
errantium, terræque proxima « stella Veneris, quæ
— I Greci chiamavano
phosphoros
græce, latine lucifer dicitur, quum« antegreditur solem, quum
subsequitur autem, Hesperus. »Esperia l’Italia, perchè vedevano da questa parte la stella
Espero, ed ultima Esperia la Spagna, perchè
più lontana dalla stessa parte.
Questa fatica doveva compiersi nell’Inferno ; ed Ercole vi si accinse ben più
volentieri che alle altre, perchè trattavasi di liberar l’amico suo Teseo, il quale
per secondare il Acònito, dalle cui foglie estraesi l’aconitìna che spiega una potente azione velenosa sull’economia animale.
Dante ci fa supporre che Cerbero trascinato da Ercole tentasse di resistere, e
puntasse il muso in terra come fanno i cani di questo mondo, quando non voglion
seguir chi li tira ; ma l’irresistibil forza del braccio d’Ercole lo trascinava suo
malgrado, facendogli rimaner pelato il mento e il gozzo, secondo
le parole stesse di DanteCerbero vostro, se ben vi
ricorda,
Oltre le dodici fatiche impostegli da Euristeo, compì Ercole di proprio moto e di
spontanea volontà anche altre imprese non meno importanti e celebri, nel percorrere
le diverse regioni dell’antico continente. Queste imprese spontanee furon chiamate
dai Greci con una sola parola composta parerga, cioè fatiche di giunta o di soprappiù ; delle quali converrà almeno accennare le
più note e famose.
Combattè Ercole spontaneamente col Libico gigante Antéo figlio di
Nettuno e della Terra ; e benchè l’Eroe
Di questa favola dà la seguente spiegazione il Machiavelli nel
cap. 12 del lib. Discorsi sulla prima
Deca di Tito Livio : « Anteo re di Libia assaltato da Ercole Egizio fu
insuperabile, mentre che lo aspettò dentro a’confini del suo regno ; ma come e’ se
ne discostò per astuzia di Ercole, perdè lo Stato e la vita. E ne deduce questo
politico insegnamento, che quando i regni sono armati, come era armata Roma, e
come sono i Svizzeri, sono più difficili a vincere quanto più ti appressi a loro ;
perchè questi corpi possono avere più forze a resistere ad uno impeto che non
possono ad assaltare altrui. »
Questo Anteo è uno di quei giganti che Dante dice di aver veduto
nell’Inferno, anzi fu quello stesso che pregato da Virgilio prese colle sue mani i
due poeti in un fascioun fascio era egli ed
io. »lievemente da una grande
altezza nel profondo dell’Inferno :
« Ma lievemente al fondo che divora « Lucifero con Giuda ci posò ; « Nè sì chinato lì fece dimora, « E com’albero in nave si levò. »
Caco. È questo
un vocabolo greco che significa cattivo o malvagiocacofonia (cattivo suono) ; cacografia (cattiva forma di scritto) ; cacodèmone
(cattivo genio o spirito) ecc.Evandro che abitava sul prossimo colle, che poi fu
detto il Palatino. In questo tempo Caco rubò ad
Ercole nascostamente (perchè con lui non osava affrontarsi) quattro giovenche ; e le
tirò a ritroso, ossia per la coda, nella sua caverna, perchè non si avesse indizio
dalle orme dei piedi verso qual parte fossero andate. Ercole però se ne accorse dai
muggiti delle giovenche rubate che rispondevano a quelli delle loro compagne ; ed
aperta a forza la caverna, a colpi di clava uccise Caco che
inutilmente gettava contro di lui fumo e fiamme dalla bocca e dalle narici. Tutti i
vicini ne furono talmente contenti, che eressero ad Ercole un’ara appellata Massima ed ivi gli fecero sacrifizii come a un Nume. Questo culto
per Ercole fu accolto e si conservò in appresso in Roma sino agli ultimi tempi del
Paganesimo. Tutte le più minute particolarità di tale avvenimento furono a gara
descritte da Virgilio e da Ovidio ; e Dante che vide Caco
nell’Inferno lo fa rammentar concisamente da Virgilio stesso :
« Lo mio Maestro disse : Quegli è Caco« Che sotto il sasso di monte Aventino « Di sangue fece spesse volte laco. « Non va co’suoi fratei per un cammino, « Per lo furar frodolente ch’ei fece « Del grande armento, ch’egli ebbe a vicino : « Onde cessâr le sue opere biece « Sotto la mazza d’Ercole, che forse « Glie ne diè cento, e non sentì le diece. »
Alcuni Mitologi raccontano che Ercole per far riposare Atlante dalla fatica di sostenere la volta del Cielo colle spalle, si sottopose a quel peso per un giorno ; e suppongono che l’Eroe Tebano fosse già adulto a tempo di Perseo, il quale per mezzo della testa di Medusa cangiò Atlante nel monte di tal nome, come dicemmo. Non apparisce però da altri fatti o invenzioni della Mitologia che Ercole fosse contemporaneo di Perseo.
Non staremo a narrar la mischia che ebbe Ercole coi Centauri,
perchè nulla di straordinario vi fu, oltre le ferite e le morti, solito e necessario
effetto di tutte le risse e di tutte le guerre. Diremo soltanto che i Centauri erano mezzi cavalli e mezzi uomini ; cavalli dalle estremità dei
piedi sino al collo ; invece del quale avevano il petto, le braccia e la testa di
uomo. Così rappresentati posson vedersi in pittura e in scultura ; ed è celebre il
gruppo di Ercole e del Centauro sotto le loggie dell’Orgagna in Firenze, scultura di
Gio. Bologna.
Di altra più tremenda e famosa pugna de’Centauri converrà parlare nella vita di Teseo. Quanto poi alla liberazione di Esìone,
figlia di Laomedonte re di Troia, dall’esser divorata da un mostro marino, e alla
vendetta di Ercole perchè non gli furono da quel re spergiuro osservati i patti,
sarà più a
È tempo ormai che Ercole abbia un poco di riposo dalle sue molteplici e sovrumane fatiche, e che noi assistiamo alle nozze di lui, senza trascurar però di notare in appresso qualche sua debolezza che in ultimo fu causa della sua morte ; la quale per altro egli incontrò con un eroismo pari a quello mostrato in tutto il corso della sua vita.
Sposò da prima Mègara figlia del re Creonte tebanoMègara móglie di Ercole esiste in
greco un elegantissimo Idillio del poeta Mosco, che fu tradotto
squisitamente da quel sommo ingegno del Leopardi.Deianira figlia di Oeneo re d’Etolia e
sorella di Meleagro. I Mitologi gli attribuiscono molte altre mogli da lui sposate
in Grecia, ed anche una in Italia, e questa dicono che fu la figlia di Evandro. Ebbe
perciò molti figli, che nella Mitologia e nella Storia Greca son tutti compresi
sotto il nome di Eràclidi, patronimico significante figli e
discendenti di Eracle, che è il greco nome, come abbiam detto, di
Ercole. Ma fra tutte le mogli di lui merita special menzione Deia-nira, perchè per essa Ercole dovè combattere, per essa dovè
morire.
Dovè combattere per Deianira col Dio del fiume Acheloo, il più
gran fiume della Grecia, e perciò da Omero chiamato il re dei fiumi. Questi fu il
solo pretendente che non cedesse al nome ed alla fama del valore di Ercole, il solo
che osò cimentarsi con lui in singolar tenzone, fidandosi forse nel privilegio che
avea di trasformarsi in toro e in serpente. Infatti combattè anche sotto queste due
forme, oltre che in quella di Nume fluviatile ; ma Ercole avvezzo a strangolar
serpenti fin dalla culla e poi ad uccider mostri e giganti, vinse con molta facilità
Acheloo sotto qualunque forma, e cornucopia a lui donato dalle NinfeMetamorfosi di Ovidio,lib.
Ercole vincitore e trionfante sposò lietamente Deianira ; e dopo le feste nuziali
postosi in via per ritornar colla sposa a Tebe, trovò il fiume Evèno sì gonfio di acque da non potersi guadare. Sopraggiunto il Centauro
Nesso si offrì di passar Deianira all’altra riva sull’equino suo
dorso ; ma appena l’ebbe in groppa tentò di rapirla correndo in altra direzione.
Ercole lo raggiunse con una delle sue freccie tinte nel sangue dell’Idra di Lerna ;
e Nesso sentendosi mortalmente ferito si vendicò col persuader Deianira che quella
sua veste insanguinata sarebbe un talismano per conservarle l’affetto di suo marito.
E infatti quella veste o camicia di Nesso fu in ultimo la causa della morte di
Ercole, come diremo. Dante ci ricorda questo fatto in due versi e
mezzo, facendo dire a Virgilio :
« …………Quegli è Nesso« Che morì per la bella Deianira,« E fe’ di sè la vendetta egli stesso. »
Ercole dopo qualche tempo ricominciò la sua vita randagia e di avventure, e la Fama
divulgò che a menomar la gloria delle sue imprese eroiche, avesse avuto la debolezza
di filare, vestito da donna fra le ancelle di Onfale regina di
Lidia ; e fu detto inoltre che egli voleva sposare la bella e giovane Jole figlia di Eurito re dell’Oecalia. Deianira credè
giunto il momento decisivo di provar l’effetto del talismano di Nesso. Ne fece
lavare l’insanguinata tunica o camicia, e insieme con altre vesti la mandò al
marito. Ercole fu trovato dal messaggiero Lica sul monte Oeta
nella Tessaglia mentre disponevasi a fare un sacrifizio a Giove ; gradì le Lica che impaurito erasi nascosto
dietro una rupe, credè ch’ei fosse reo ; lo afferrò per un piede e roteandolo come
una fionda lo scagliò tre miglia lontano nel mare, ove fu cangiato in uno scoglio
che si chiamò e tuttora chiamasi Lica. Ma trovando inefficace ogni
rimedio, volle morir da forte com’era vissuto, e acceso il rogo preparato per arder
la vittima, vi si pose sopra come vittima egli stesso, e insieme vi stese il vello
del Leon Nemeo e la sua clava. Lasciò soltanto le freccie tinte nel sangue dell’Idra
di Lerna all’amico Filottete che era presente, imponendogli però
di sotterrarle e di non manifestarne il luogo ad alcuno. Il suo corpo fu ridotto in
cenere dalle fiamme ; il suo spirito fu accolto in Cielo come Indigete
Dio, ed ivi ebbe in moglie Ebe Dea della Gioventù.
Gli Astronomi antichi diedero il nome di Ercole ad una delle
costellazioni boreali che è composta di 128 stelle ; e gli Astronomi moderni,
incominciando da Herschel, dicono che il nostro Sole con tutto il cortèo dei pianeti
è attratto da forza preponderante verso quella costellazione.
Le Belle Arti non si sono mai stancate a rappresentarci Ercole sculto, o dipinto, o
inciso. Basterà rammentare l’Ercole Farnese, scultura greca ; l’Hercules furens, gruppo di Canova, ove Ercole tenendo
sospeso Lica per un piede, sta in atto di scagliarlo nel mare, e
l’Ercole appoggiato alla clava, inciso da Benvenuto Cellini nel sigillo di Cosimo I
granduca di Toscana.
I poeti cantarono concordemente inni a quest’EroeVirgilio nel lib. Eneide afferma cantato nelle feste di Ercole.
« Non già perchè figliuol fosse di Giove, « Ma per mille che ei fece illustri prove Vedasi la canzone di . »Fulvio Testiintitolata :La virtù più che la nobiltà fa l’uomo ragguardevole.
L’ origine mitologica di V’era anche un altro proverbio in latino : Càstore e Pollùce è
delle più strane e incredibili : ciò non ostante, o forse appunto perciò, è delle più
famigerate presso gli Antichi. Storicamente Castore e Polluce son figli di Tindaro re di Sparta e di Leda sua moglie ;
mitologicamente son figli di Giove, di cui fu detto che comparve a Leda sotto la forma
di Cigno. Inventata questa trasformazione di Giove in cigno, i
Mitologi fantasticarono che Leda avesse partorito due uova ; che in
uno vi fossero Polluce ed Elena, e nell’altro Castore e Clitennestra. I più antichi affermarono che Polluce ed
Elena, nati dallo stesso uovo, eran figli di Giove, e perciò Semidei, mentre Castore e
Clitennestra, che uscirono dall’altro uovo, eran figli di Tindaro, e perciò semplici
mortali. Orazio poi asserisce che Castore e Polluce nacquero dall’ uovo stessoovo prognatus eodem
Pugnis. » — (Hor., Epist.)Tindàridi, e se
figli di Giove Diòscuri, essendo il vocabolo Dios
uno dei greci nomi di Giove, sinonimo di Zeus. Nè questa disparità
di asserzioni dovrà uovo divenne tanto popolare che se ne formò il proverbio latino ab ovo per significare dalla prima origine, alludendosi
all’origine della guerra Troiana, che derivò da un uovo, da quello
cioè da cui nacque la bella Elena, la quale fu la vera causa di
quella guerra, come vedremoOrazio nella Poetica volendo dar precetti sul modo di ordinare e comporre il
poema epico non fa altro che portar l’ esempio del modo tenuto da Omero, del quale
egli dice tra le altre cose :gemino bellum Troianum orditur ab ovo ;ab ovo usque ad mala, che voleva significare dal principio alla fine ; ma
questo proverbio alludeva al principio e alla fine dei pranzi antichi romani, che
incominciavano coll’ imbandigione delle uova e finivano colle
frutta.
Castore e Polluce diedero il più grande e celebre
esempio di amor fraterno. Erano sempre insieme in tutte le imprese per aiutarsi
scambievolmente : li abbiamo trovati insieme nella spedizione degli Argonauti, nè mai
si disgiunsero in qualunque altra occasione sino alla morte di Castore. Divennero
eccellenti ambedue negli esercizii ginnastici : Polluce nel
pugilato, e Castore nel domare i cavalli ; perciò eran considerati
protettori delle palestre e dei giuochi circensi. È lodata in generale la loro abilità
e valentia in questi esercizii, ma non si narrano molti fatti particolari della loro
vita nel mondo.
Oltre la spedizione degli Argonauti a cui presero parte, come dicemmo, si racconta
che mossero guerra agli Ateniesi per ritogliere ad essi la loro sorella Elena che era stata rapita da Teseo ; ma avendola trovata
nella città di Afidna con Etra madre di
Teseo, le condussero via entrambe senza incontrare verun ostacolo. L’impresa più utile
che fecero a vantaggio della umanità fu di purgare il mare dai pirati ; quindi i
Mitologi li considerarono ancora come Dei protettori della navigazione ; e perciò
Orazio li invoca propizii al suo amico Virgilio che andava per mare nell’Attica.
Ebbero poi a sostenere un duello coi pretendenti delle spose che avevano scelte. Eran
queste due sorelle chiamate Febèa ed Ilaìra o Talaìra, e che dai parenti erano state promesse a due fratelli Linceo ed Ida. L’esito del duello fu questo, che Linceo uccise Castore, e che Polluce, per vendicar
la morte del fratello, uccise l’uccisore di esso. Ida fu poco dopo
fulminato da Giove. I poeti classici lodano molto quelle due spose per l’affetto
costante ai loro sposi, e principalmente Ilaira o Talaira che serbò fede sino alla morte all’ombra di Castore. Polluce, per
ultimo e impareggiabil tratto di amor fraterno, volle anche comunicare la propria
immortalità all’estinto fratello, e ottenne dagli Dei di star per lui la metà
dell’anno nel regno delle Ombre, e che egli a vicenda stesse per sei mesi nel
Cielo.
Gli Astronomi antichi aggiunsero che questi due affettuosissimi fratelli furon
cangiati nella costellazione dei Gemini, o Gemelli, che è quel segno del Zodiaco in cui, secondo l’antico linguaggio
astronomico, entra il sole nel mese di maggio. In questa costellazione si vedono col
telescopio sino a 85 stelle, ma quasi tutte piccolissime, meno che due di prima
grandezza, le quali perciò si scorgono benissimo anche ad occhio nudo. Queste furono e
son chiamate Castore e Polluce ; e quindi ebbe il
nome di Gemelli l’intera costellazione. Perciò questi due fratelli,
oltre all’esser rappresentati con cavalli bianchi e con un’asta in mano, si vedono
spesso, specialmente in pittura, con una stella sopra la fronte. Credevano gli Antichi
che quando compariva questa costellazione, si rasserenasse il Cielo e cessassero le
tempeste, come dice Orazio nell’Ode 12ª
del lib. puerosque Ledœ,equis, illum superare pugnisHor., Od. stelle di Sant’Elmo (come le chiamano i marinari),
fenomeno di luce elettrica che sovente si osserva sulle punte delle antenne e degli
alberi dei bastimenti dopo la tempesta. Le rammenta anche il Redi
nel suo Ditirambo Bacco in Toscana :
« Allegrezza, allegrezza ! io già rimiro, « Per apportar salute al legno infermo, « Sull’antenna da prua muoversi in giro « L’oricrinite stelle di SantermoQuesto fenomeno elettrico è chiamato il .fuoco di S. Elmoanche in fisica e meteorologia ; e si manifesta non solo per mare, ma anco talvolta per terra. In questo stesso anno 1875, il dì 27 febbraio fu osservatoun fuoco di S. Elmoa Monte Cassino. Il parafulmine situato sulla cupola della chiesa era illuminato da luce fosforescente, e non la sola punta, ma anche l’ asta ed una parte della catena. Salla punta degli altri 12 parafulmini non si vide nulla. Però è da notare che il parafulmine della cupola si eleva molto al di sopra degli altri. Il fenomeno incominciò alle ore 8 e 45 minuti e finì alle 9 50. La mattina seguente fu osservato che le punte del parafulmine del telegrafo avevano perduto la doratura, e che v’ erano dei segni azig-zagsulla lamina che comunica col suolo. I contadini delle vicinanze dissero che una mezz’ ora prima che incominciasse la bufera, i buoi muggivano tanto da far paura, e tentavano con ogni sforzo di svincolarsi per fuggire. Questo fenomeno delfuoco di S. Elmoè stato osservato in Monte Cassino ora per la prima volta dal 1828 in poi, nel quale anno vi furono messi i parafulmini. Ne ha data un’ esatta descrizione il professor S. Camposeo nellaRivista Scientifico-Industrialedel marzo 1875.
Dante parla più volte della
costellazione dei Gemelli nella Divina Commedia,
perchè egli nacque nel mese di maggio, e perciò, secondo il linguaggio astrologico,
era sotto l’influenza di questa costellazione. La rammenta da prima col nome di Castore e Polluce nei seguenti versi del Canto il
del Purgatorio :
« …..Se Castore e Polluce « Fossero in compagnia di quello specchio « Che su e giù del suo lume conduce Dante chiama specchioil Sole, considerandolo come un riflesso della luce divina.« Tu vedresti il Zodiaco rubecchio « Ancora all’Orse più stretto rotare, « Se non uscisse fuor del cammin vecchio. »
La chiama poi il segno che segue il Tauro, quando racconta che
questa fu una delle sue stazioni nell’ascendere al Paradiso :
« ……………io vidi il segno« Che segue il Tauro, e fui dentro da esso. »
Al qual segno o costellazione, rivolge un saluto ed un rendimento di grazie col linguaggio astrologico di quei tempi, e intanto ci fa sapere ch’ei nacque nel mese di maggio sotto quella costellazione :
« O glorïose stelle, o lume pregno « Di gran virtù, dal quale io riconosco « Tutto, qual che si sia, il mio ingegno ; « Con voi nasceva, e s’ascondeva vosco « Quegli ch’è padre d’ogni mortal vita, « Quand’io senti’ da prima l’aer Tosco. »
bel nido di Leda nella seguente terzina del C. Paradiso :
« E la virtù che lo sguardo m’indulse, « Del bel nido di Ledami divelse,« E nel ciel velocissimo m’impulse. »
Dicemmo nel N° XXX che Minosse era figlio di Giove e di Europa, la
quale fu rapita da Giove stesso trasformato in toro, e trasportata nell’isola di
Creta. In quell’isola nacque e crebbe Minosse e divenne ottimo re e sapiente
legislatore di quel popolo. Nella sua vita pubblica appartiene più alla Storia che
alla Mitologia ; ed all’opposto nella vita privata, o di famiglia, più alla Mitologia
che alla Storia. La Cronologia greca fissa l’epoca della sua
esistenza nei secoli Tusculane e nei libri della Repubblica ; e quasi tutti gli
scrittori antichi (tranne qualche autore drammatico ateniese), si accordano a dire che
fu giustissimo ; e perciò si credè che dopo la morte divenisse il primo dei tre
giudici dell’Inferno pagano. Le sue leggi sono encomiate, non solo perchè regolavano
equamente i diritti del mio e del tuo, ma perchè erano ancora
dirette alla educazione della gioventù, imponendo di abituarla alle fatiche affinchè
divenisse forte e costante, e ad obbedire alle leggi affinchè divenisse morigerata e
civile.
Nella vita privata o di famiglia, per altro, egli fu poco fortunato ; ma le sue
sventure domestiche furon di certo
Minosse prese in moglie Alcuni Mitologi inventarono
ancora che Dedalo facesse a Pasifae una vacca di legno tanto al naturale che i
tori mugghiavano intorno ad essa credendola viva. e poco più oltre aggiunge : e nel Canto Pasifae, una delle figlie del Sole, dalla
quale ebbe un figlio che fu chiamato Androgeo e due figlie di nome
Arianna e Fedra. Dipoi i Mitologi aggiunsero,
che Pasifae, avendo veduto un bel toro bianco ed essendole molto piaciuto, partorì un
mostro che era mezz’uomo e mezzo toro ; il quale fu chiamato il Minotauro, parola composta dei nomi di Minosse e di Tauro, ossia toroE Dante
allude a questa invenzione nel Canto Purgatorio, ove dice :Pasife ; »Inferno parla del Minotauro,
Era il Labirinto una fabbrica di un gran numero di stanze e anditi
tortuosi (alcuni dicono tre mila) talmente a bella posta disposti da non poter chi vi
entrava ritrovar la porta per uscirne. Gli Antichi rammentano quattro labirinti : 1° quello di Egitto, il più grande di tutti ; 2° questo dell’isola
di Creta fatto a somiglianza di quello, ma molto più piccolo ; 3° il labirinto dei Cabiri nell’isola di Lenno ; e 4° quello di
Chiusi, attribuito al re Porsena. Quest’ultimo, per gli avanzi che ancor ne restano,
pare che fosse un ipogeo come le catacombe dei primi Cristiani :
degli altri 3 è più difficile indovinare Dedalo,
ingegnoso architetto e meccanico, il quale costretto ad esulare da Atene sua patria
erasi rifugiato nella suddetta isola, ov’ebbe in principio liete ed onorifiche
accoglienze. Ma poscia caduto in disgrazia del re, perchè secondava troppo tutte le
stravaganze della regina Pasifae, fu chiuso insieme col suo figlio Icaro nel labirinto. Per altro egli trovò il modo di uscirne. Fingendo di
voler costruire qualche nuovo meccanismo per offrirlo alle figlie del re, si fece dare
della cera e delle penne, e costruite le ali per sè e pel figlio volò via con esso
traversando il mare per andar nell’Asia Minore. Aveva prima dato ad Icaro saggi
avvertimenti di tenersi, volando, in una via di mezzo ; ma il giovinetto li trascurò,
e per boria fanciullesca essendosi troppo avvicinato al sole, la cera delle sue ali si
squagliò, e, cadute le penne, cadde anch’egli nell’acqua e rimase annegato in quel
tratto del mare Egeo che bagna le isole Sporadi e
la prossima costa dell’Asia Minore : il qual mare dagli antichi fu perciò chiamato Icario dal nome di questo incauto giovinetto che vi annegòIcarus Icariis nomina fecit
aquis. »Ovid.
I classici antichi encomiano tanto l’ingegno inventivo di Ennio appella Dedalo,
che del suo nome formarono un aggettivo che significa mirabilmente
ingegnosoDœdalam
Minerva, Lucrezio la Terra e Virgilio la maga Circe. Orazio poi
adopra l’aggettivo Dœdalea nella seguente celebre strofa in lode
di Pindaro :ope DœdaleaDedalo Architetto chi costruì il gran palazzo di gemme e d’oro che il
Duca Astolfo trovò nel mondo della Luna. Dante
nel Canto Inferno usò il nome di Dedalo per significar volatore, o uomo volante a somiglianza
e coll’arte di Dedalo, facendo così dire a Capocchio :
« Ver è ch’io dissi a lui parlando a giuoco : « Io mi saprei levar per l’aere a volo ; « E quei che avea vaghezza e senno poco, « Volle ch’io gli mostrassi l’arte, e solo « Perch’io nol feci Dedalo, mi fece« Ardere a tal che l’avea per figliuolo. »
Dante rammenta anche il volo d’Icaro là dove
assomiglia la sua paura a quella di questo giovanetto,
« …..quando Icaro miserole reni« Sentì spennar per la scaldata cera « Gridando il padre a lui : Mala via tieni . » « Icare ! clamabat ; pennas aspexit in undis. » ( Ovid.,Metam. viii, v . 233.)La caduta d’Icaro fu dipinta dal
Domenichinoin un quadretto che vedesi nella Galleria Farnese.
Alcuni Mitologi attribuiscono a Dedalo un grave delitto a cui lo spinse l’invidia,
quello cioè di aver precipitato dalla fortezza di Atene il suo nipote Lo stesso nome greco di questo giovinetto (Perdice che dimostrava con nuove invenzioni ingegnosissime di dover divenire
eccellente nelle arti stesse di cui gli era stato maestro lo zio. Sin qui potrebbe il
racconto esser considerato come perfettamente storico ; ma entra nel dominio della
Mitologia, quando si aggiunge che Minerva protettrice degl’ingegni cangiò quest’pernice, animale che
vola terra terra, perchè memore, come dice Ovidio, dell’antica
cadutaPerdix) fu dato anche in latino alla pernice,
come noi chiamiamo questo volatile, con piccola alterazione ortografica
dell’ablativo latino ; ed altresì il nome francese Perdrix
deriva dalla stessa sorgente. — Ovidio nel lib. Metamorfosi, colla sua solita facilità di verso e di
locuzione, accenna, tra le altre somiglianze che diedero motivo alla
trasformazione del giovinetto Perdice in pernice, anche le seguenti :
Di Minosse raccontasi ancora che liberò i mari vicini dai pirati ;
ma questa impresa, frequentemente necessaria a quei tempi, è attribuita anche ad altri
Eroi, tra i quali ai gemelli Castore e Polluce, come abbiamo già detto. Notabilissima
per altro è la guerra che Minosse fece agli Ateniesi non tanto per la causa che la
fece sorgere, quanto e più ancora per gli straordinarii effetti che ne derivarono.
Androgeo figlio di Minosse ed erede del trono era così valente
negli esercizii della palestra che superava tutti i competitori nei pubblici giuochi
della Grecia ; perciò fu ucciso per invidia dagli Ateniesi ; e Minosse per vendicare
la morte del figlio fece loro la guerra, e avendoli vinti impose ad essi un tributo di
sangue, esigendo cioè che fossero mandati in Creta 7 giovanetti e 7 giovanette
Ateniesi per servir di cibo al Minotauro ; il qual tributo dovea rinnovarsi ogni 9
anni finchè il Minotauro vivesse. Per ben due volte gli Ateniesi soddisfecero gemendo
a questa orribile condizione imposta loro dal vincitore. La terza volta però ne furon
liberati da Teseo riconosciuto come figlio del loro re Egeo.
A questo punto cessano i fatti notabili della vita particolare di Minosse, e tutte le altre vicende della sua famiglia dipendono dalle gesta di Teseo ; perciò le rammenteremo qui appresso nel parlare di quest’Eroe.
Gli Ateniesi ambirono che il loro Eroe Teseo a cui tanto è
debitrice l’Attica civiltà ne’suoi primordii, avesse un’aureola di poetica gloria non
inferiore a quella di Ercole ; e perciò a forza d’invenzioni favolose splendidamente
narrate dai loro egregii scrittori lo resero famoso non meno dell’Eroe TebanoSallustio dei fatti storici degli Ateniesi :
« Atheniensium res gestæ, sicuti ego existumo, satis amplæ magnificæque
fuere ; verum aliquanto minores tamen, quam fama feruntur. Sed quia provenere ibi
scriptorum magna ingenia, per terrarum orbem Atheniensium facta pro maximis
celebrantur. »
— (Catilin. miracolaio ed inserisce nelle sue
celebri Vite degli Uomini illustri tanti insulsi prodigii, scrivendo
la vita di Teseo per farne il parallelo con quella di Romolo, si trova molto impacciato a sceverarne il vero dal falso o mitologico.
Ecco la sua dichiarazione colle sue stesse frasi tradotte dal Pompei : « Ora mi
fosse possibile purgare il racconto da quanto v’ha di favoloso e ridurlo a prendere
aspetto di Storia !
E di certo neppur la decima parte di quel che egli narra di Dove però non si possa renderlo in alcun modo
credibile, nè voglia farlega alcuna colla probabilità, mi sarà d’uopo avere
uditori benigni che accolgano senza rigore ciò che si narra intorno a fatti sì
antichi. »Teseo è da considerarsi come verità istorica, essendo tutto il
rimanente da riporsi tra le favole.
Più volte prima d’ora abbiamo avuto occasione di rammentar questo Eroe : i suoi
concittadini lo hanno introdotto Non senza Teseo, per alludere a qualche persona che
sempre si trova in tutte le comitive, o Comitati, che prende parte
in tutte le imprese o speculazioni. Ora siam giunti a dover
raccontarne per filo e per segno la nascita, la vita, la morte e i pretesi
miracoli.
Non bastò agli Ateniesi che Teseo fosse figlio di un loro re, ma dissero che era figlio di Nettuno, e così lo fecero appartenere al numero dei Semidei. Per altro poco giovò a quest’Eroe l’esser figlio di un Dio, chè anzi, come vedremo in appresso, gli nocque. Contenti dalla boria che il loro Eroe fosse di origine divina, non vollero per altro minorare la fama delle sue imprese coll’attribuirne il merito ad una special protezione soprannaturale.
Egeo re di Atene, figlio di Pandione e nipote di Cecrope, aveva
sposato Etra figlia di Pitteo re di Trezene nel
tempo che era ospite in casa di lui ; ma dovendo partir per la guerra, lasciò ad Etra una spada che essa dovea consegnare al figlio quando fosse
adulto ; al qual segnale lo avrebbe riconosciuto per suo. Questo figlio fu chiamato
Teseo ; il quale nel crescere diede segni manifesti di gran forza
e coraggio ; e sentendo encomiare le gesta di Ercole n’ebbe invidia, e agognava di
poterlo imitare. Quando poi egli seppe la sua vera origine ed ebbe la spada lasciata
dal padre, si mosse tosto per andarlo a trovare. L’avo e la madre avrebber voluto che
egli andasse ad Atene per mare con viaggio più breve e più sicuro ; ma egli preferì di
viaggiar per terra desiderando non già di schivare, ma di affrontare i pericoli dei
masnadieri e dei mostri che infestavano quelle regioni. E qui incominciano i suoi
fatti eroici ; dei quali accenneremo soltanto i più straordinarii che si distinguono
per qualche singolarità da quelli degli altri Eroi.
Perifete, che era armato di una clava di rame ; Teseo lo
uccise, e presa quella clava la portò sempre come il suo primo trofeo, a imitazione di
quel che fece Ercole della pelle del Leon Nemeo. In Eleusi vinse ed uccise nella lotta
Cercione che era stimato invincibile. Avanzandosi nell’Attica
incontrò il masnadiere Procuste, che costringendo i passeggieri a
prendere ospizio in casa sua, li legava in un letto, e poi se eran più lunghi di
quello tagliava loro le gambe che sopravanzavano, e se eran più corti li faceva
giungere alla misura di quel letto tirando e dislocando le loro membraBenedetto Menzini nella sua Poetica assomiglia al letto di Procuste il Sonetto,
perchè dev’essere di soli quattordici versi, nè più nè meno ; e notando le
difficoltà di chiuder bene e senza sforzo un bel concetto poetico in un Sonetto,
dissuade dal cimentarvisi chi non sia nato poeta :di Procuste orrido lettoincognito (come ora direbbesi nelle gazzette), ossia senza
farsi conoscere, aspettava l’occasione che il re Egeo da sè stesso lo riconoscesse per
figlio.
Era giunta da qualche tempo alla corte d’Atene la Maga Medea,
fuggita da Corinto dopo essersi crudelmente vendicata di Giasone, come dicemmo ; ed
avendo acquistato molta autorità per mezzo delle sue malìe (o vogliam dire raggiri)
sull’animo del vecchio re Egeo, gli fe’nascere il sospetto che
quello straniero volesse impadronirsi del regno ; e quindi lo persuase a toglierlo
insidiosamente di vita avvelenandolo in
Trovò Teseo tutto il regno in iscompiglio ed in lutto, perchè appressavasi il tempo
di mandar per la terza volta il tributo di sangue a Minosse. Il giovane Eroe, come
erede del trono, credè suo dovere di liberare il suo popolo da questo vergognoso
tributo, o morire. Volle esser messo anch’egli (per quanto Egeo vi si opponesse), nel
numero dei giovani destinati per cibo al Minotauro. La nave che
portava a Creta queste innocenti vittime aveva in segno di lutto le vele nere. Egeo
ordinò che al ritorno, se era reduce il figlio, vi si mettessero di color porpureo ad
annunziargli da lontano la lieta novella e liberarlo quanto prima di pena.
Giunse la nave a Gnosso capitale dell’isola di Creta il giorno
avanti i funebri giuochi che Minosse faceva celebrare in onor del suo estinto figlio
Androgeo ; compiuti i quali, chiudevansi le Ateniesi vittime nel
labirinto. Teseo chiese ed ottenne di prender parte anch’egli a quei giuochi ; e destò
ammirazione in tutti gli spettatori col suo avvenente e nobile aspetto, e più per la
destrezza e il valore con cui superò i più famosi competitori ; e a tutti dispiacque,
e più che agli altri ad Arianna figlia di Minosse, che quel giovane
Eroe dovesse sì tosto miseramente perire. Arianna pensò di salvarlo, sperandone in
premio di esser fatta sua sposa e quindi regina di Atene. Due erano i pericoli di
morte per chi fosse entrato nel labirinto : quello d’incontrare il Minotauro ed esser
da lui divorato, e l’altro di morir di fame per non poter ritrovare l’uscita. Dal
primo, era ben sicura Arianna che Teseo avrebbe saputo difendersi ; provvide dunque al
secondo con un mezzo semplicissimo a sua disposizione. Diede a Teseo un gomitolo di
filo, perchè fissandone l’un dei capi
L’invenzione del filo di Arianna divenne tanto famigerata, che anche nelle lingue
moderne vi si allude metaforicamente nelle familiari espressioni il filo
delle idee ; il filo del discorso o del ragionamento e simili. Del Minotauro e
del filo di Arianna parla anche Dante nell’Inferno, ove afferma che egli trovò il Minotauro a guardia del 7° cerchio dei
violenti ; ed al qual mostro, perchè lasciasse loro libero il
passo, fa dire da Virgilio :
« ……………….. Forse « Tu credi che qui sia ‘l Duca d’Atene,« Che su nel mondo la morte ti porse ? « Partiti, bestia, chè questi non viene « Ammaestrato dalla tua sorella,« Ma vassi per veder le vostre pene. »
Se gli Dei stessi del Paganesimo avevano difetti e vizii, come abbiamo notato più
volte, non è sperabile di trovar perfetti i Semidei e gli Eroi mitologici. Teseo
commise un atto di perfidia e di barbarie, da non potersi in modo alcuno scusare,
contro la troppo semplice e pietosa Arianna, alla quale pur doveva la sua salvezza ;
ed egli invece l’abbandonò sola nella deserta isola di Nasso.
Fortunatamente per essa giunse il giorno stesso in quell’isola Bacco, che la fece sua
sposa, come dicemmo parlando di questo Dio. Intanto Teseo si avanzava per mare senza
ricordarsi di cangiar le vele alla nave. Egeo che tutti i giorni
andava sopra una Mare Egeo quello che ora chiamasi l’Arcipelago. La letizia di Teseo nel giunger salvo ad Atene si cangiò subito in
lutto e in rimorso. Con tal funesto augurio incominciò egli a regnare.
Molte però furono le opere egregie di lui ; ma non tutto gli andò a seconda, come
vedremo. E parlando in prima dei più celebri fatti felicemente da lui compiuti,
rammenteremo che egli prese vivo il cinghiale di Maratona e lo sacrificò ad Apollo ;
combattè una seconda volta colle Amazzoni colle quali aveva prima
combattuto in compagnia d’Ercole ; e poi, secondo quel che dice Plutarco, « uccise
Di questo nuovo genere di duello ad imitazione degli arieti, e
prescelto in questo caso da Tèrmero cozzando insieme col
capo. »Teseo, ci dice il perchè Plutarco stesso : « perchè percuotendo
Tèrmero col
capo suo nel capo di coloro co’quali s’incontrava, mandavali a morte ; così pur
Teseo andò gastigando i ribaldi usando contro di loro quella violenza che essi
usavano contro degli altri ; onde nel modo stesso col quale ingiustamente operavano,
fossero giustamente punitila pena del taglione. Notino peraltro i giovani studiosi, che
sebbene anticamente fosse creduta tale, e sia anche proclamata dalla legge
Mosaica, fu poi riconosciuta in molti casi aberrativa ed inapplicabile ; e perciò
non trovasi oggidì in nessun Codice dei popoli civili ; tranne la pena di morte in
caso di omicidio premeditato.
Alcuni Mitologi asserirono che Teseo uccidesse ancora Falàride
tiranno di Agrigento in Sicilia. Questo tiranno propose un premio a chi inventasse un
nuovo e più tormentoso genere di supplizio ; e un tal Perillo
valente artefice Perillo. E ciò fu dritto, come dice Dante, ossia
fu pena ben meritata dall’iniquo artefice che si fece ministro di crudeltà del più
efferato tiranno. Ecco come Dante riferisce questo fatto in una
similitudine nel Canto Inferno :
« Come ‘l bue Cicilian che mugghiò prima « Col pianto di colui (e ciò fu dritto), « Che l’avea temperato con sua lima, « Mugghiava con la voce dell’afflitto, « Sì che, con tutto ch’e’fosse di rame, « Pure el pareva dal dolor trafitto. »
Toccò poi al tiranno Falaride a entrar dentro il toro di rame, o
ciò fosse per opera di Teseo, come dicono alcuni Mitologi, o per sollevazione e
vendetta popolare, come afferma CiceronePhalarim, cujus est præter ceteros nobilitata crudelitas, universa
Agrigentinorum multitudo impetum fecit. » — (Cic., De Off. nobilis taurus, quem crudelissimus omnium tyrannorum Phalaris habuisse dicitur, quo vivos supplicii causa
demittere homines et subiicere flammam solebat. » — (Cic.,
in Verrem.,
Si raccontano ancora diverse imprese di Teseo compiute in compagnia del suo maggiore
amico Piritoo ; ed ecco prima di tutto come nacque la loro amicizia.
Piritoo re dei Làpiti
Quando Piritoo sposò Ippodamia, s’indovina
facilmente che Teseo fosse il primo ad essere invitato alla festa nuziale ; e fu utile
assai la sua presenza e l’opera del suo forte braccio per impedir che all’amico fosse
tolta la sposa e la vita dai Centauri convitati anch’essi al banchetto di nozze.
Storicamente i dice Centauri eran popoli della Tessaglia che primi
impresero a domare i cavalli e sottoporli ai loro servigii ; e chi per la prima volta
da lontano li vide cavalcare, credè che uomo e cavallo fossero un solo animale
mostruoso composto di queste due forme o naturenature son
consorti. »Dante nel Canto Inferno, parlando della figura dei Centauri.Centauri erano mezzi
uomini e mezzi cavalli, ma si aggiunse che eran nati dalle Nuvole ;
e per quanto sia strana questa invenzione, anche Dante la riporta
nella Divina Commedia, e trova il modo di farla rammentare nel Purgatorio in questi versi :
« Sì tra le frasche non so chi diceva : « Ricordivi, dicea, de’maladetti « Ne’nuvoli formati, che satolli« Teseo combattêr co’doppi petti. »
I principali di essi invitati alle nozze di Piritoo, quando furono
al termine del pranzo, essendo riscaldati dal vino, manifestarono la loro natura più
bestiale che umana, tentando di rapire la sposa ed altre donne convitate : onde che
nacque una tal mischia così terribile e sanguinosa, che quasi tutti i poeti (tra
questi anche Dante come abbiam veduto) o la descrivono o almeno vi alludonoOrazio nell’Ode 18ª del
lib. modici transiliat
munera Liberi,Centhaurea monet cum Lapithis rixa super
meroOvidio ha descritto
molto a lungo questa pugna nel lib. Metamorfosi, e la fa raccontare al vecchio Nestore che vi
si era ritrovato presente e vi avea preso parte.Chirone, che fu il più umano e il più sapiente e dotto,
non solo fra i Centauri (il che non sarebbe un gran vanto) ma fra tutti gli antichi
Eroi ; e di lui dovremo parlare particolarmente altrove.
Dante ha posto nell’Inferno
« ….. i Centauri armati di saette « Come solean nel mondo andare a caccia, »
a saettar colaggiù i violenti (tiranni ed assassini) immersi per pena nella riviera del sangue :
« Dintorno al fosso vanno a mille a mille « Saettando qual’anima si svelle « Del sangue più che sua colpa sortille. »
Tralasciando di parlare di altri fatti che nulla hanno di straordinario o singolare,
la maggior prova d’impareggiabile amicizia fra Teseo e Piritoo si trova nell’essersi
aiutati scambievolmente nelle più strane e perigliose imprese che o all’uno o
all’altro venisse in idea di tentare. E la più strana davvero e la più pericolosa fu
quella di Piritoo di andare all’Inferno per rapir Proserpina moglie di Plutone ; e
Teseo ciecamente lo secondò. Ma, come dicemmo parlando di Ercole, Piritoo fu lacerato
dal Can Cerbero, e Teseo dovè soltanto ad Ercole la sua liberazione
dall’InfernoVirgilio peraltro asserisce
nel lib. Eneide che Teseo non fu liberato, e
che resterà eternamente nell’Inferno :Infelix Theseus. »
Restano ora da raccontarsi soltanto le vicende domestiche di Teseo e la sua morte. Da
prima aveva sposato Ippolita regina delle Amazzoni a lui concessa da
Ercole per averlo aiutato in quella guerra. Da Ippolita (secondo
alcuni chiamata Antiope) gli era nato un figlio a cui diede il nome
di Ippolito. Dipoi rapì la bella Elena, ma gli fu
ritolta da Castore e Polluce, come dicemmo. In appresso sposò Fedra,
sorella di Arianna, da lui abbandonata nell’isola di Nasso : e qui
non si sa intendere come Fedra, dopo quel che era accaduto alla sorella, non
sospettasse della fede di Teseo. Ma, sposatolo, fu essa a lui causa di gravissimo
lutto. Essendo già adulto Ippolito, parve da prima che Fedra, deposto il madrignal talento, come direbbe l’Alfieri,
lo vedesse di buon occhio ; ma poi sembrandole altero e scortese, cangiata in odio e
femminile stizza la benevolenza, lo calunniò con tal Cicerone riferisce questa favola colle seguenti
parole : « Nettuno aveva promesso a Teseo di appagare tre suoi desiderii :
desiderò Teseo irato la morte del figlio, ed avendola impetrata, cadde in gravissimo
lutto. »
Il che dice il romano oratore per dimostrare che non debbonsi
mantener le promesse quando le cose dimandate sono dannose a chi le richiede« Potest autem accidere promissum aliquod et conventum, ut
id effici sit inutile, vel ei, cui promissum sit, vel ei, qui promiserit. Nam
si, ut in fabulis est,
— (Neptunus quod Theseo
promiserat non fecisset, Theseus Hippolyto filio non esset
orbatus. Ex tribus enim optatis, ut scribitur, hoc erat tertium, quod de
Hippolyti interitu iratus optavit : quo impetrato in maximos luctus
incidit. »Cic., De
Off. Dante applica questa
stessa distinzione anche ai voti imprudenti, e fa così dire a
Beatrice nel Canto Paradiso :vóto
a ciancia :ed a ciò far non bieci (non
inconsiderati)Che, servando, far peggio ;
e così stoltoVirbio (quasi bis vir) due volte
uomoDante ammette che Ippolito fosse
costretto a partir d’Atene per le calunnie della sua matrigna Fedra ; ed egli
facendosi predire il suo esilio, assomiglia sè stesso all’innocente figlio di
Teseo. La predizione è posta sulle labbra del suo trisavolo Cacciaguida nel Canto
Paradiso :Ippolito d’AteneRacine, intitolata Fedra.
Anche Teseo finì miseramente i suoi giorni ; in lui già avanzato negli anni si avverò
la favola del Leone vecchio ; poichè discacciato dal regno da Menesteo, si ritirò alla corte di Licomede re di
Sciro, ed ivi fu ucciso o col ferro, o coll’esser precipitato da un’altura in un
baratro. La sua morte rimase per lungo tempo ignota, o fu udita con indifferenza. In
Atene per altro dopo la morte dell’invasore Menesteo, i figli di Teseo, tra i quali il
più noto chiamavasi Demofoonte, ricuperarono il regno paterno. Ci
vollero per altro miracoli e risposte di Oracoli per eccitare il popolo a ricercar le
ossa di Teseo e riportarle con onore ad Atene. E allora, come dice Plutarco,
« gli Ateniesi pieni di allegrezza le ricevettero con splendida pompa e con
sacrifizi, come se stato fosse Teseo medesimo che ritornasse. »
Ogni anno
poi facevangli un grandissimo sacrificio nel giorno stesso in cui
egli era ritornato da Creta coi giovani liberati dal Minotauro ; ed
inoltre l’onoravano agli otto pure di ogni altro mese.
La città di Tebe per fatti storici straordinari è meno rammentata
di Atene e di Sparta, ma per racconti mitologici non cede il primato a nessun’altra
città della Grecia. Bacco ; di sangue Tebano furono
la Dea Leucotoe e il Dio Palemone ; di Atamante re
di Tebe era l’ariete col vello d’oro ; Tebano fu Ercole, il più forte e il più famigerato degli antichi Eroi. Ora sono da
raccontarsi atroci fatti della corte Tebana, fiera materia di
ragionare, come direbbe il Certaldese.
Fra i successori di Cadmo, circa due secoli dopo la fondazione di Tebe, troviamo
nella Cronologia Greca Laio II ; e della vita di questo re
raccontansi soltanto due fatti : il primo, che egli avendo saputo dall’Oracolo di
dover essere ucciso dal figlio di cui era incinta Giocasta sua
moglie, diede ordine di farlo perire appena nato ; il secondo, che non ostante non
potè sfuggire il suo destino, e fu ucciso dal figlio miracolosamente salvato. Ed ecco
in qual modo : Nato appena il figlio, invece di essere ucciso immediatamente nella
reggia, fu esposto in un lontano bosco, perchè lo divorassero le fiere, ed appeso per
un piede a un ramo d’albero. Ma invece di una fiera crudele passò prima di là un
pietoso pastore, che lo prese e lo portò alla sua capanna e lo tenne come suo figlio,
chiamandolo Edipo, che significa piede gonfio,
perchè aveva enfiato il piede pel quale fu sospeso all’albero. Cresciuto Edipo si
accorse o seppe che il pastor Forba (o secondo altri Polibo) non era suo padre, e andò a interrogare intorno ai suoi genitori
l’Oracolo di Delfo ; il quale gli rispose di non cercarne, perchè avrebbe ucciso il
padre e sposata la madre. Ma egli non potendo tollerare un’umile ed oscura condizione
di vita, si diè a percorrer la Grecia in cerca di avventure, e incontratosi in Laio in una strada stretta di una solinga campagna venne a questione
col cocchiere di lui e lo uccise : e poichè Laio voleva difendere o
vendicare il cocchiere, Edipo uccise anch’esso senza conoscer chi fosse. Così
avverossi nella prima parte la risposta
Creonte fratello di Giocasta, dopo la morte di
Laio prese le redini del regno ; e poichè in quel tempo infestava
le vicinanze di Tebe un mostro chiamato la Sfinge, che aveva ucciso
molte persone e sbigottito tutti, fu promesso con pubblico editto a chi liberasse da
quel mostro il paese, la mano della regina vedova, e per conseguenza il possesso del
regno, poichè non v’erano figli eredi del trono.
La Sfinge era un mostro col capo e le zampe di leone alato, e col
petto e la testa di donna. Essa fermava i passeggieri e proponeva loro un enigma ; e
se non lo indovinavano li strangolava ; il nome stesso di Sfinge che
le fu dato dai Greci significa Strangolatrice. Era però voler del
destino che se qualcuno indovinasse il suo enigma, sarebbe toccato ad essa a morire.
Edipo passò di là, e la Sfinge lo fermò e gli diede a indovinar quest’enigma : Qual è quell’animale che la mattina va con quattro piedi, a mezzogiorno con
due, e la sera con tre ? Edipo rispose : l’uomo ; e ne diede
la spiegazione che il nostro poeta Berni ha messa in versi :
« ………… L’umana creatura « Prima con quattro piè comincia andare ; « E poi con due, quando non va carpone ; « Tre n’ha poi vecchio, contando il bastone. »
La Sfinge, com’era suo fato, si precipitò dalla rupe del monte Citerone, e morì.
Edipo, essendosi guadagnato il promesso premio, sposò Giocasta e fu proclamato re di
Tebe. Gli nacquero in appresso due figli che furono chiamati Eteocle
e Polinice, e due figlie Antigone ed Ismene.
Dopo qualche anno, una fiera pestilenza devastava il regno ; e dall’Oracolo fu
risposto che per farla cessare circostanze del tempo e del luogo in cui fu ucciso Laio,
come pure dai connotati della persona dell’estinto scuoprì che ne
era stato egli stesso l’uccisore ; e inoltre riandando le memorie della sua infanzia e
confrontando le relazioni del pastor Forba e quelle del servo che aveva esposto nel
bosco il regio infante, comprese che egli era figlio di Laio e parricida, e che
Giocasta era sua madre. Allora inorridito di questo suo perverso destino, esclamò,
come dice Sofocle : 0 Sole, io t’ho veduto per
l’ultima volta ! e si acciecò ; e lasciato il regno ai suoi figli perchè
alternativamente lo governassero un anno a vicenda, andò ramingando per la Grecia,
accompagnato e condotto dalla pietosa sua figlia Antigone ; e Giocasta si diede la
morte.
I tristi casi di Edipo furono il soggetto di molte tragedie ; ed ogni scrittore li modificò o alterò secondo la sua fantasia e lo scenico effetto che ne sperava : tutti però si accordano nel dire che egli morì lungi da Tebe di disagio e di cordoglio.
Intanto Eteocle come primogenito incominciò a regnare in Tebe, e
dimostrò subito indole da despota e non da re che dopo un anno doveva diventar
suddito ; quindi inventò pretesti per altercare col fratello e negargli alla fin
dell’anno il possesso del trono. Polinice si trovò costretto ad
esulare, e ricoveratosi alla corte di Adrasto re degli Argiesi ne
sposò la figlia Argia, e così impegnò anche di più quel re, divenuto
suo suocero, ad aiutarlo a ricuperare il regno. La guerra che ne seguì fu detta dei
sette Prodi, perchè sette furono i valorosi capi o generali di
questa guerra, cioè : Adrasto, Polinice, Tideo, Capaneo, Ippomedonte,
Anfiarao e Partenopeo. Ma poichè i fatti d’arme di questa
guerra, per quanto sanguinosi e strenui, non produssero l’effetto ultimo desiderato, e
tutto terminò con un duello tra i due fratelli, ci
Eteocle, quantunque non ignorasse questo apparato di guerra, non
volle prestare orecchio a nessuna transazione o accordo ; e istigato dallo zio Creonte, che sperava di profittare della discordia dei nipoti per
impadronirsi del regno, si preparò anch’egli alla guerra ; e dopo molte battaglie
combattute sotto le mura di Tebe, restando sempre indecisa la sorte delle armi,
consentì ad accettare un duello definitivo, o, come suol dirsi, all’ultimo sangue, con
Polinice. Eteocle cadde mortalmente ferito : e in quegli ultimi
istanti di vita fingendo di volersi riconciliare col fratello, ma furente in cuor suo
di lasciarlo in vita vincitore e re, chiese di abbracciarlo per l’ultima volta ; e,
raccolte tutte le sue forze, con un pugnale, che portava sempre nascosto fra le vesti,
uccise proditoriamente Polinice, e vedendolo morto prima di lui, con questa infernale
soddisfazione spirò.
I poeti inventarono che posti i corpi di entrambi i fratelli ad ardere nello stesso
rogo, le fiamme della pira si divisero, segno sensibile che l’avversione degli animi
loro erasi comunicata a tutte le molecole dei loro corpi. E di questo mitologico
prodigio fa menzione anche Dante là dove parlando della duplice
fiamma che ricuopre nell’Inferno le anime di Ulisse e di Diomede, egli dice che quella
fiamma
« ……. par surger dalla pira « Ove Eteòcle col fratel fu miso. »
Il solo Creonte gioì della morte dei nipoti, dei quali aveva fomentato l’odio e la
discordia per impadronirsi del regno ; e divenne tosto uno dei più esecrati tiranni. E
per primo atto inumano proibì che fossero seppellite le ceneri di Polinice,
dichiarandolo traditore e ribelle. Non curando il barbaro divieto Antigone sorella e
Argia vedova di Polinice, Emone essendo invaghito di Antigone, e non potendo salvarla dalla
crudeltà di suo padre, si uccise per disperazione. Anche Ismene
volle subire la stessa sorte della sorella Antigone dichiarandosi complice della
medesima. Così rimase solo Creonte nell’orrida e luttuosa reggia di Tebe.
Su questi atroci fatti esiste un poema latino intitolato la Tebaide, esistono tragedie antiche e moderne. E per parlare soltanto di queste,
chi non conosce il Polinice e l’Antigone d’AlfierLes Frères
Ennemis di Racine ? Troppo lungo sarebbe l’enumerare
soltanto i poeti che rammentano queste atrocità Tebane. E basterà citar Dante che
molte volte ne parla o vi allude. Oltre l’esempio riportato di sopra, l’Alighieri immaginò di avere incontrato nel Purgatorio il
poeta Stazio autore della Tebaide, con cui parla di questo poema, e
fa dire all’autore stesso :
« Cantai di Tebe e poi del grande Achille ; »
e da Virgilio fa chiamare Eteocle e Polinice la doppia tristizia di
Giocasta, e narrare che trovansi nel Limbo
« Antigone, Deifile ed Argia « Ed Ismene sì trista come fue. »
Dei prodi generali che aiutarono Polinice nella guerra di Tebe
parleremo separatamente nel prossimo numero, perchè le loro vicende, e domestiche e
guerresche, non furono d’alcun momento nel determinar le catastrofi della real
famiglia Tebana che abbiamo già raccontate.
Adrasto re degli Argiesi o Argivi aveva soltanto due figlie di nome
Argìa e Deifile, le quali teneva guardate con
diligentissima cura senza farle mai uscir di città, perchè l’Oracolo gli aveva
predetto (o egli l’aveva sognato), che sarebbero state rapite da un leone e da un
cinghiale. Ma venuti contemporaneamente alla corte Argiva Polinice e
Tideo, e chiesto di sposare queste due principesse, Adrasto vi
acconsentì volentieri, perchè trovò in questi sposi la spiegazione della risposta
dell’oracolo (o del sogno che fosse), che tanto lo aveva tenuto in sospetto e timore
per le sue figlie. E la spiegazione era questa : Poichè Polinice, essendo discendente
d’Ercole, portava sulle spalle per distintivo, e quasi per manto, una pelle di leone,
e Tideo come fratello di Meleagro una pelle di cinghiale, Adrasto interpretò che le
parole dell’Oracolo si riferissero a questi due giovani Eroi, che gli avrebbero rapite
le figlie sposandole e conducendole nei loro regni. Per altro in quel momento erano
ambedue privi del regno e della patria ; Polinice, per le cause già dette nel
precedente numero, e Tideo per avere ucciso un illustre personaggio della sua patria,
e secondo alcuni, il proprio fratello. Ma Adrasto prese l’assunto di riconquistare ad
entrambi col proprio esercito l’avito regno ; e cominciò da quello di Polinice, la
causa del quale era molto più urgente e più giusta. Prima per altro di dichiarar la
guerra ad Eteocle volle tentare se egli veniva a qualche equa transazione col
fratello ; e vi mandò per ambasciatore plenipotenziario Tideo,
l’altro suo genero. Bisogna credere che Adrasto non conoscesse bene
« …………… rose « Le tempie a Menalippo per disdegno, »
come dice Dante, assomigliando ad esso il Conte Ugolino quando
nell’Inferno rodeva il cranio all’Arcivescovo Ruggieri. Non poteva
dunque Tideo aver molta attitudine a fare il diplomatico, ma piuttosto l’Antropofago :
infatti invece di conciliare, inasprì sempre più, perchè non solo altercò, ma diede di
piglio alla spada nella reggia stessa ed al convito di Eteocle ; e poi inseguito da
una schiera di soldati, li mise in rotta ed in fuga egli solo, lasciandone molti sul
terreno malmenati od estinti. Dichiarata dunque la guerra e incominciate le regolari
battaglie, fece prodigii di valore, e la destra sua valeva per cento mani ; ma
finalmente colpito da uno strale avvelenato morì sotto le mura di Tebe. Ebbe da Deifile un figlio che fu il famoso Diomede, il più
valoroso, dopo Achille, fra tutti i capitani greci che andarono alla guerra di
Troia.
Di Ippomedonte è da dirsi soltanto che egli era nipote di Adrasto e
valorosissimo ; ma di lui non si narrano fatti straordinarii degni di particolar
menzione. Egli pure morì alla guerra di Tebe.
Capanèo era un Argivo arditissimo, che primo inventò di dar la
scalata alle fortezze. Al suo ardire univa un insolente ed empio disprezzo per gli
Dei ; e giunse perfino a vantarsi di prender Tebe egli solo a dispetto di Giove, i cui
fulmini, a quanto egli diceva, non gli facevano maggior paura dei raggi del Sole sul
mezzogiorno. Ma Giove gli fece conoscer la differenza che v’era, fulminandolo mentre
egli dava la scalata alle mura di Tebe, e precipitandolo nell’Inferno. Dante che aborre gli empi senza alcuna religione, e violenti contro Dio, ci narra che egli vide Capaneo nell’Inferno sotto una pioggia di fuoco che cadeva
dall’alto
« ……….. in dilatate falde, « Come di neve in alpe senza vento ; »
e aggiunge che anche laggiù quell’anima dannata sfidava il supremo dei Numi, dicendo
che quantunque Giove lo sættasse di tutta sua forza,
« Non ne potrebbe aver vendetta allegra. »
A questo punto Dante fa che Virgilio gli rintuzzi severamente la sua impotente stizza con queste parole :
« O Capaneo, in ciò che non s’ammorza « La tua superbia, se’ tu più punito : « Nullo martirio, fuor che la tua rabbia, « Sarebbe al tuo furor dolor compito. »
Quest’uomo bestiale aveva una moglie affettuosissima chiamata Evadne che non volle sopravvivere ad esso, e si gettò nel rogo mentre
rendevansi al marito i funebri onori. Dal loro connubio era nato un figlio di nome Stènelo, che fu poi uno dei più valorosi guerrieri all’assedio di
Troia. Orazio lo dice : Pugnæ Sthenelus sciens.
Poche ed incerte notizie si hanno di Partenopeo. Alcuni lo credono
fratello di Adrasto, ed altri figlio di Atalanta, la famosa
cacciatrice che fu la prima a ferire il cinghiale di Calidonia. Per quanto fosse
valoroso, anch’egli perì nella guerra di Tebe.
Molto invece fu narrato di Anfiaraoe della sua famiglia. Essendo egli indovino, previde che sarebbe stato tutt’altro che felice l’esito della spedizione contro Tebe, e per lui stesso funesto ; e perciò non voleva prendervi parte, quantunque fosse cognato del re Adrasto, avendone sposato la sorellaErìfile: quindi per fuggire qualunque molesta insistenza e sollecitazione, si nascose. Ma Polinice a cui stava a cuoreche non mancasse in quella impresa un così saggio e provvido capitano, regalò una preziosissima collana ad Erifile pregandola di persuadere Anfiarao di accompagnarlo alla guerra. Erifile non potendo indurvi il marito colle parole, tradì il segreto di lui, scuoprendo il posto o nascondiglio ov’egli si era celato. Costretto allora Anfiarao per punto di onore e per comando del re a partir cogli altri per la guerra, e sicuro di dovervi perire, lasciò detto al figlio Alcmeone, che appena udita la sua morte lo vendicasse. Perì di fatti sotto le mura di Tebe ed in un modo straordinario e mirabile, a quanto raccontano i pœti. Mentre egli osservava gli astri, per trame, come gli Astrologi, argomento di predizioni, gli si aperse sotto i piedi la terra che lo inghiottì, e vivo precipitò nel regno delle Ombre. Gli antichi dissero che non andò al Tartaro ma agli Elisii, e che in Grecia aveva un Oracolo dei più celebrati e rendeva responsi dei più veridici. Ma « Subductaque suos manes tellure videbit « Vivus adhuc vates. »( Ovid.,Metam. ix , v. 405.)Danteche non credeva concessa all’uomo la facoltà d’indovinare il futuro, e che perciò stimava un’impostura l’arte dell’Indovino, lo pone nell’Infernocon tutti gli altri pretesi Indovini antichi e moderni. Dice di averlo veduto egli stesso, e che Virgilio glielo indicò dicendo :
« Drizza la testa, drizza, e vedi a cui« S’aperse, agli occhi de’Teban, la terra, « Perchè gridavan tutti : Dove rui, « Anfiarao? perchè lasci la guerra ?« E non restò di ruinare a valle « Fino a Minòsche ciascheduno afferra.« Mira che ha fatto petto delle spalle : « Perchè volle veder troppo davante,« Dirietro guarda, e fa ritroso calle. »
Alcmeone appena udita la morte del
padre, per vendicarlo com’egli desiderò, uccise la madre ; e fu come accennano i pœti
antichi pio e scellerato ad un tempoNatus, erit facto pius et sceleratus
codem. »Dante esprime lo stesso concetto in una similitudine del Canto
Paradiso :
« Come Alcmeoneche di ciò pregato« Dal padre suo, la propria madre spense, « Per non perder pietà si fe’ spietato. »
E nel Canto Purgatorio rammentò
« Come Alcmeone a sua madre fe’caro « Parer lo sventurato adornamento. »
E a questo adornamento diè opportunamente l’Alighieri l’epitelo di
sventurato, perchè oltre all’essere stato causa della morte di Anfiarao e di Erifile, riuscì funesto anche al
figlio Alcmeone che ne fu l’erede. Ne fece egli un dono alla sua
prima sposa Alfesibea ; ma poi ripudiatala per isposar Callirœ, questa desiderò di possedere la famosa collana di Erifile ; ed
Alcmeone per contentar la nuova sposa, pretendendo di ritogliere il prezioso monile
alla ripudiata Alfesibea, fu ucciso dai fratelli di lei.
Così la discordia dei figli di Edipo produsse una serie infinita di
guai e di sciagure che di conseguenza in conseguenza durarono per molti anni. Poichè
Adrasto, il solo dei Sette Prodi rimasto in vita, quantunque per
causa di quella guerra avesse perduto ambedue i suoi generi ed una delle sue due
figlie, non che il fratello e la sorella, il cognato e il nipote ; senza contare le
sventure dei sudditi e lo sperpero delle forze del regno, volle imprendere un’altra
guerra contro Prodi. Questa seconda guerra fu perciò chiamata degli Epìgoni, ossia dei rampolli, o discendenti ; ed ebbe luogo dieci anni dopo la prima per aspettar che questi rampolli fosser cresciuti ed atti alle battaglie. Ma dei fatti d’arme
e degli effetti ultimi di questa guerra scarseggiano e sono incerte le notizie :
devastazioni e stragi non ne mancarono ; e v’è chi afferma che fu anche saccheggiata
la città di Tebe e che Tersandro figlio di Polinice ne prendesse il
governo ; e inoltre che molti Tebani prima del saccheggio preferirono di andar
profughi dalla patria in cerca di nuove sedi. Quest’ultimo fatto è rammentato ancora
dall’Alighieri, ov’egli parla dell’indovino Tiresia, di Manto figlia di lui, e dell’origine di Mantova patria di
Virgilio. Noi avremo occasione di tenerne proposito in un altro Capitolo destinato
esclusivamente a parlare degli Indovini.
Dalle atrocità degli Eraclidi convien passare agli orrori dei Pelòpidi. Questi pure furono argomento prediletto degli antichi
tragici e delle antiche plebi ; ed alcuni non hanno cessato di comparire anche sui
moderni teatri francesi ed italiani. Basterà citare la Pelopea di
Pellegrin e l’Atreo di Crebillon e di Voltaire ; il Tieste di
Ugo Foscolo, l’Agamennone e l’Oreste di Alfieri. Inoltre appartenenti a questa stirpe
dei Pelopidi furono due dei principali personaggi del l’Iliade di Omero, a istigazione dei quali s’imprese e si
condusse a termine la guerra di Troia. È dunque indispensabile nella classica
letteratura di tutti i popoli e di tutti i tempi il conoscere almeno i fatti
principali di questa stirpe funesta e troppo famosa per infami delitti.
Pelope fu Tantalo condannato
alle pene del Tartaro per avere ucciso questo suo figlio, e imbanditene le carni per
cibo alla mensa dei Numi da lui convitati ; e inoltre che Pelope fu restituito alla
sua pristina forma corporea e risuscitato da Giove. Ora è a dirsi che egli sposò Ippodamia figlia di Enomao, re d’ Elide e PisaStrabone nel lib. Pelopidi. Ma il modo con cui Pelope ottenne la sposa non è senza delitto.
Si racconta che Enomao era riluttante dal maritare la sua unica
figlia Ippodamia, perchè aveva saputo dall’Oracolo che il genero sarebbe causa della
morte del suocero ; e per allontanare i pretendenti proponeva loro condizioni
durissime, cioè o di superarlo nella corsa dei cocchi (ed egli co’ suoi cavalli figli
del Vento era insuperabile), o di essere uccisi se perdevano. E già più d’uno aveva
inesorabilmente pagato colla vita il fio della sua folle speranza. Pelope senza essere
scoraggiato da sì funesti esempi, lasciò la Frigia sua patria, e volle tentare
anch’egli il periglioso arringo ; ma cercò di uscirne vittorioso colla frode e col
tradimento. Promettendo qualunque premio (fosse anche la metà del regno) a Mìrtilo cocchiere diEnomao, lo indusse a toglier
dall’asse il ferro che riteneva le ruote del cocchio del re ; e così Enomao nella gara
del corso precipitando a terra morì. Pelope rimase senza contrasto
vincitore, e divenne sposo di Ippodamia e re di Elide. Quanto poi al premio promesso a
Mirtilo non solo mise in pratica la massima d’insidiosa
politica
« Lunga promessa coll’attender corto, »
Morea, e che dal nome di Pelope fu detta dagli antichi Peloponneso.
Da Ippodamia ebbe sei figli che tutti divennero re, ma i più noti
per fama infame furono Atreo e Tieste. L’inimicizia e la perfidia impareggiabile di questi due mostruosi
fratelli furono rese più orribili dalle amplificazioni degli antichi pœti. Basti il
dire che Atreo sospettando che la sua propria moglie fosse segretamente d’accordo con
Tieste, uccise i due più giovani figli, Tantalo e Plistene, e ne imbandì le carni a Tieste stesso, e poi perchè sapesse qual
cibo aveva mangiato gli fece portare in tavola i teschi delle due misere vittime. I
pœti aggiungono che in quel giorno il Sole inorridito ritornò indietro dal suo corso.
All’opposto la plebe antica dilettavasi di veder rappresentato sulle scene questo
ferale spettacolo. Orazio nella Pœtica dà per
precetto agli scrittori di tragedie di non far cuocere al nefando Atreo le carni umane
sul palco scenico alla presenza del pubblicoAut humana palam coquat
exta nefarius Atreus. »Hor.,
Cicerone nel De Officiis riferisce che in una
tragedia latina si faceva dire ad Atreo : « È sepolcro ai suoi figli il padre
loro
« Ut si Æacus aut Minos diceret :
— Oderint dum metuant ; aut : Natis sepulcro ipse est
parens, indecorum videretur, quod eos fuisse justos accepimus : at, Atreo
dicente, plausus excitantur : est enim digna persona oratio. »Cic., De Off.
L’odio esecrando di Atreo e di Tieste non solo durò finchè vissero questi fratelli,
ma si comunicò in ambedue le linee Egisto, nato d’illegittime e
vietate nozze ; e poichè fu allattato da una capra ebbe quel nome
che in greco indica un tale allattamento. Di Atreo nacquero Agamennone e Menelao, e perciò furon chiamati gli
Atridi. Degli Atridi si dovrà d’ora in poi parlar molto a lungo
nel rimanente della Mitologia, e spesso troveremo implicato Egisto nei loro domestici
casi. Infatti occorre prima di tutto di dover dire che Egisto uccise a tradimento Atreo suo zio, e quindi con Tieste suo padre s’impadronì del regno di
Micene e ne cacciò Agamennone e Menelao legittimi eredi. Questi si rifugiarono a
Sparta nella corte del re Tindaro, di cui sposarono le figlie Clitennestra ed Elena ; quindi colle truppe
ausiliari del suocero ritornarono a Micene e ne cacciarono gl’invasori Tieste ed
Egisto, ricuperando il paterno regno ; del quale per patto di famiglia divenne re il
solo Agamennone, essendo Menelao erede del trono di Sparta, poichè eran già morti e
divenuti Dei ed Astri Castore e Polluce.
Lasciamo che per pochi anni i due famosi Atridi godano in pace del
loro regno e del fido coniugio ; ben presto saranno costretti a subire aspri travagli
e amari disinganni ; e intanto prepariamo alcune altre delle molte fila ond’ è formata
la lunga epica tela della guerra di Troia.
Dopo esserci contristati gli occhi e ’l petto nel leggere e
nell’intendere gli orrori degli Antenati di Agamennone e Menelao, ci sorride la
speranza di confortarci nel riandar la vita e le gesta degli Antenati di Achille, di
quell’Erœ che fu invidiato da Alessandro Magno, perchè ebbe per banditore delle sue
lodi Omero.
genus ab Jove summo ; poichè Eaco suo avo era figlio di Giove e di Egina. Eaco nacque in quell’isola
dell’Arcipelago che portò anticamente il nome di sua madre, e che ora con poca
differenza di suono chiamasi Engía o Enghía.
Quest’isola fu donata da Asopo re di Beozia a sua figlia Egina, e
perciò divenne il regno di Eaco. Ma la stizzosa e vendicativa Giunone, usa a
perseguitar sempre famiglie e popoli per cui Giove mostrasse qualche predilezione,
mandò una sì spaventevole pestilenza in quell’isola, che morirono tutti i sudditi ed
anche la regina, e vi rimase soltanto il giovinetto Eaco divenuto re senza sudditi.
Giove per altro, alle preghiere del figlio, ripopolò quel regno in un modo
miracoloso : fece uscire da un tronco di quercia una gran quantità di grosse formiche,
le quali appena toccata terra divennero uomini tutti di ferro e di valore
armati. Così raccontano i pœti, i quali erano in quell’epoca più arditi di Darwin e compagni Antropologi a far derivare gli uomini dalle bestie
senza che alcuno li contraddicesse. E questi guerrieri derivati dalle formiche son
quei prodi Mirmìdoni sudditi e soldati di Achille all’ assedio di
Troia. Forse la radicale del loro nome, che in greco significa formica, diede motivo a inventar questa favola della loro origine ; la quale
però parve sì bella che tutti i pœti l’accettarono, e Dante stesso
se ne vale per una bellissima similitudine nel Canto Inferno :
« Non credo che a veder maggior tristizia « Fosse in Eginail popol tutto infermo,« Quando fu l’ær sì pien di malizia, « Che gli animali, infino al picciol vermo, « Cascaron tutti ; e poi le genti antiche « Secondo che i pœti hanno per fermo, « Si ristorâr di seme di formiche;« Ch’era a veder per quella oscura valle « Languir gli spirti per diverse biche. »
Eaco per la sua bontà e giustizia fu
posto dopo la morte fra i giudici dell’Inferno, come dicemmo parlando delle regioni
Infernali. Lasciò due figli, Telamone e Peleo.
Telamone fu esiliato dal padre per avere ucciso, nel far gli esercizi
ginnastici, un piccolo fratello chiamato Foco. Di Telamone abbiamo
già detto che fu uno degli Argonauti ; e di altre sue imprese e vicende, come pure de’
suoi due celebri figli Aiace Telamonio e Teucro,
parleremo più opportunamente in appresso. Ora convien dire di Peleo
che fu il padre di Achille.
Peleo dopo la morte di Eaco abbandonò (non si sa bene per quali
motivi) l’isola di Egina, e seguìto dai Mirmidoni andò nella Grecia
continentale, e dopo varie vicende (variamente narrate dai tragici) potè formare un
piccolo regno in quella parte della Tessaglia che era detta Ftiòtide
dalla città di Ftia sua capitale. Quantunque piccolo principe meritò
di sposare una Dea ; e questa fu Teti ninfa marina, dalla quale
doveva nascere un figlio molto più illustre e potente del padre. Questo decreto del
Destino essendo conosciuto da Giove e dagli altri Dei, trattenne ciascun di loro dallo
sposar Teti, e tutti d’accordo convennero di unirla in matrimonio
con quel mortale che ne fosse più degno per bontà di animo e per parentela coi Numi ;
e il prescelto fu Peleo, ottimo principe e nipote di Giove. Furono
queste le più splendide nozze che fossero mai celebrate sulla Terra : al banchetto
nuziale erano convitati tutti gli Dei e le Dee, esclusa soltanto la Discordia. Ma questa Dea maligna e nemica di pace trovò il modo di spargere
dissensioni tra i convitati gettando dall’alto sulla mensa un aureo pomo colla
iscrizione : Si dia alla più bella. Ed ecco subito eccitata la gara
e l’invidia tra le Dee, e cagionato un grande impæcio agli Dei, nell’esser richiesti
di pronunziare un verdetto così pericoloso. Giove stesso se ne scusò
prudentemente, e propose di farne giudice un semplice pastore che Giunone, Minerva e Venere, e consentirono di starsene al lodo dell’arbitro rusticano. Furono dunque condotte da Mercurio in Frigia sul monte Ida davanti al pastore Alessandro, in appresso chiamato Paride. Mercurio fece la
relazione della causa, e ciascuna delle tre Dee perorò a proprio vantaggio, e promise
al giudice un magnifico premio a causa vinta ; cioè Giunone le maggiori ricchezze del
mondo, Minerva la più gran sapienza e Venere la più bella donna per moglie. Il pastore
consegnò l’aureo pomo a Venere. Fu giusto giudice di certo, poichè Venere, come tutti
sanno, era la Dea della Bellezza : non ostante s’inimicò le altre due Dee. In qual
modo poi Venere mantenesse a Paride la promessa sarà detto nel parlar dell’origine
della guerra di Troia.
Ora è a dirsi che dal matrimonio di Il Bisogna però notare che il Machiavelli parlava del
principato assoluto o dispotico, che in oggi è divenuto un mestiere fallito ;
quindi al principe costituzionale devesi suggerire il precetto opposto, cioè che
tenga intorno a sè per consiglieri meno Peleo con Teti nacque un figlio che fu chiamato Achille. La madre,
come Dea, sapeva già dal libro del Fato che questo suo figlio sarebbe un fulmine di
guerra ; quindi per maggior sicurezza procurò di renderlo invulnerabile tuffandolo
nelle acque del fiume Stige ; ma poichè nel tuffarlo lo teneva sospeso per un piede,
rimase vulnerabile soltanto il calcagno che non potè esser bagnato da quelle acque
infernali. Dipoi, fanciulletto ancora, lo consegnò al Centauro Chirone perchè lo istruisse in tutte le arti necessarie ai Principi ed agli
EroiMachiavelli non ha creduto indegno
dell’alta sua mente il trarre precetti di politica dai miti
dell’Antichità pagana e dei tempi eroici. Cade qui in acconcio il riferire
com’egli interpretò che i principi e gli eroi antichi erano dati ad educare ed
istruire (come noi abbiamo detto di Ercole e di Giasone, ed ora diciamo di
Achille) al Centauro Chirone, che era, come tutti gli altri
Centauri, mezzo uomo e mezzo bestia. Ecco la spiegazione che ne dà il
Machiavelli :« Dovete dunque sapere come sono due generazioni di
combattere :
— (l’una con le leggi, l’altra con la forza : quel primo
modo è proprio dell’uomo, quel secondo delle bestie ; ma perchè il primo
spesse volte non basta, convien ricorrere al secondo. Pertanto ad un principe è
necessario saper bene usare la bestia e l’uomo. Questa parte è stata insegnata a’principi copertamente dagli antichi scrittori, i
quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi
antichi furono dati a nutrire a Chirone Centauro, che sotto la
sua disciplina li custodisse : il che non vuol dire altro l’avere
per precettore un mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna ad un principe
sapere usare l’una e l’altra natura, e l’una senza l’altra non è
durabile. »Il Principe,
cap. Centauri che sia
possibile.Deidamia figlia del re Licomede. Ivi
rimase Achille finchè i Greci non lo scuoprirono. Dante rammenta
questo fatto in una similitudine nel Canto Purgatorio :
« Non altrimenti Achillesi riscosse,« Gli occhi svegliati rivolgendo in giro, « E non sapendo là dove si fosse, « Quando la madre da ChironeaSchiro« Trafugò lui dormendo in le sue braccia, « Là onde poi gli Greci il dipartiro. »
E poichè ora siamo giunti col racconto all’ epoca in cui ebbe luogo la famosa guerra di Troia, è tempo di parlare di questa città e dei suoi re, come pure della vera causa di quella guerra.
Dalla Grecia convien passare all’Asia Minore, in quella parte che chiamavasi Frigia, presso le coste della Propontide, dell’Ellesponto e
dell’Egeo ; nella qual regione fra l’Ellesponto ed il monte Ida esisteva l’antica e
famosa città di Troia. Sino al 1870 non si seppe neppur dire con
sicurezza di non errare : qui fu ; di modo che taluni dubitaron
perfino se la città di Troia fosse mai esistita. Lo stesso Cantù
nelle prime edizioni della sua Storia Universale accennava questo
dubbio senza risolverlo ; e soltanto si affermò da qualcuno che sopra una parte di
quel classico terreno sorge un villaggio turco chiamato Bunar-Basci.
In questi ultimi anni però, un erudito grecista tedesco, il Dott. Schliemann avendo fatte escavazioni in quella regione perfino alla profondità
di 14 metri, è giunto a dissotterrare una gran parte delle rovine di quella celebre
città, ed asserisce pubblicamente per le stampe nel suo libro intitolato Antichità Troiane di essere stato il primo a scuoprire l’identità di posizione
della esistente Hissarlik con l’antica e distrutta città di Troia. E
poichè un inglese di nome Frank Calvert, da molti anni abitante e possidente di
terreni nella regione asiatica presso lo stretto dei Dardanelli, reclamò la priorità
di tale scoperta, questa è pel mondo letterario una conferma che sia ora finalmente
accertata non solo l’esistenza, ma anche la precisa ubicazione della famosa città di
TroiaAtheneum,
del 7 novembre 1874, celebre periodico inglese che si pubblica in Londra, ed è
diffuso per tutto.
Troia, con cui questa città è
passata ai posteri, consacrata all’immortalità dai più sublimi pœti, non era il solo
nè il primo che essa ebbe ; e si trova anche chiamata Dardania, Teucria,
Ilio e Pergamo. Anche Dante in una stessa
terzina la chiama Troia ed Ilio, o Ilion, secondo la terminazione greca e latina ; come nel Canto Inferno, facendo dire a Virgilio :
« Pœta fui e cantai di quel giusto « Figliuol d’Anchise che venne da Troia« Poi che ‘l superbo Ilïònfu combusto. »
Ed inoltre ripete ambedue questi stessi termini anche in una terzina del C.
Purgatorio, dicendo in propria persona :
« Vedeva Troiain cenere e caverne :« O Ilïòn come te basso e vile « Mostrava il segno che lì si discerne ! »
Chiunque sa quanto sia conciso l’Alighieri non potrà creder ch’egli abbia usato oziosamente questi due vocaboli come se fossero perfettamente sinonimi, e dovrà dedurre dalla Mitologia e dai classici antichi la differenza di significato di quei due termini per intendere il preciso concetto espresso da Dante : il che noi faremo ben tosto nel dar la spiegazione degli altri nomi della stessa città.
I vocaboli di Dardania, Teucria, Ilio e Troia
adoprati comunemente come sinonimi della stessa città, derivano dal nome di
altrettanti re Troiani : e, se di questi fosse accertata la cronologia e la Storia,
sarebbe molto facile determinare l’epoca di quelle denominazioni e la diversa
estensione della città in quelle diverse epoche. Ma lo stesso Cantù nella sua Storia Universale non ha potuto dare un giudizio sicuro sulla
genealogia dei re di Troia e sulla verità dei fatti che di loro si raccontano.
Dovendosi quindi ricorrere alle
Ed ecco prima di tutto la genealogia dei re Troiani quale Omero fa
dirla da Enea ad Achille :
« Ma se più brami di mia stirpe udire « Al mondo chiara, primamente Giove « Dàrdanogenerò, che fondamento« Pose qui poscia alle Dardanie mura.« Perocchè non ancora allor nel piano « Sorgean le sacre iliache torri, e il molto« Suo popolo le Idèefalde cuopriva.« Di Dardano fu nato il re d’ogni altro« Più opulente Erittonio…….« ……. D’Erittonio nacque « Trœre de’Troiani, e poi di Trœ« Generosi tre figli IloedAssaraco« E il deiforme Ganimede, al tutto« De’mortali il più bello, e dagli Dei « Rapito in cielo, perchè fosse a Giove « Di coppa mescitor per sua beltade, « Ed abitasse cogli Eterni. Ad Ilo « Nacque l’alto figliuol Laomedonte;« Titonea questo ePriamoeLampoeClizio« E l’alunno di Marte Icetaone;« Assaraco ebbe Capie CapiAnchise« Mio genitore, e Priamo il divo Ettorre. »
In questi versi è considerato Dardano come fondatore e primo re
della città che da lui prese il nome di Dardania. Egli era figlio di
Giove e di Elettra una delle 7 figlie di Dardanus ortus,Virg., Dardanus
auctor,E Dante nel narrare quali degli spiriti magni egli
vide nel Limbo, comincia dalla troiana prosapia dicendo :
« Io vidi Elettracon molti compagni,« Tra’ quai conobbi ed EttoreedEnea,« Cesarearmato con gli occhi grifagni ; »
poichè anche Giulio Cesare dittatore discendeva dai Troiani, e il suo nome di Giulio derivava da quello di Giulo Ascanio figlio di Enea, come
asserisce VirgilioVirg.,
Nella Cronologia Greca, riportata dal Cantù tra i Documenti della
sua Storia Universale, è posto il regno di Dardano dal 1568 al 1537
avanti G. C. ; ma sono ivi registrati due altri re anteriori a Dardano, cioè Scamandro e Teucro ; e da questo re si fa derivare
il nome di Teucria dato alla città ed anche al territorio Troiano :
tutti gli altri re per altro son quegli stessi rammentati da Omero.
Di Erittonio figlio di Dardano i mitologi non raccontano alcun
fatto notabile ; e molti danno questo nome ad Eretteo re di Atene
che fu figlio di Vulcano. Anche Omero, come abbiam veduto, lo dice soltanto il più opulento di ogni altro re.
Da Erittonio nacque Trœ, o Troo, onde vennero i
nomi di Troia e di Troiani, come dal nome del
figlio suo Ilo derivò Ilion (in italiano Ilio) alla città stessa. Omero
preferisce il vocabolo Ilion ; ma gli altri pœti usano per lo più
indiscriminatamente i diversi nomi di Troia : solo alcuni intendono per Ilio l’interno della città e i cittadiniUrbs e Civitas, il primo dei quali significa propriamente il materiale della città,
ed il secondo i cittadini ed anche il diritto di cittadinanza ; come pure dei due
appellattivi Romani e Quirites il primo aveva
una significazione più estesa, riferibile non solo alle relazioni interne, ma anche
alle esterne colle altre nazioni, mentre il secondo si riferiva soltanto all’
interno, ossia ai diritti civili. Per la stessa ragione distinguevasi l’lus Romanum dall’lus Quiritarium o Quiritium.Troia il fabbricato della città
ed anche il territorio. Questa distinzione che riconoscesi più d’una volta nelle
espressioni di Virgilio fu adottata dall’Alighieri nelle due terzine citate di
sopra.
Il nome poi di Pèrgamo era dato soltanto alla parte più alta e più
fortificata della città, ov’era anche il palazzo del rePergama dextraVirg.,
Pergamon significava
appunto luogo od oggetto elevato ; e per questa stessa etimologia
pergamo in italiano è sinonimo di pulpito.
Tra i figli di Trœ o Troo è da notarsi non solo
Ilo che fu re di Troia dopo la morte del padre, ma anche Assàraco e Ganimede.
« Assàraco ebbe Capi e Capi Anchise, »
che fu genitore di Enea, come fa dire Omero da Enea stesso ; quindi
Assàraco è lo stipite della stirpe e della discendenza di Enea, e
perciò i Romani, discendenti dai Troiani, oltre ad esser chiamati Eneidi da Virgilio, son detti ancora Gens Assaraci, ossia
discendenti di Assaraco. Quanto poi a Ganimede dicemmo già nel N° XV che fu rapito dall’aquila di Giove e
trasportato in cielo per far da coppiere invece della Dea Ebe.
Di Ganimede hanno fatto parola quasi tutti i pœti ; ed anche nella prosa del volgo il
nome di Ganimede è usato per indicare un giovane azzimato e lezioso.
Dagli Antichi per altro ebbe anche l’onore di esser posto nella Costellazione detta
dell’ Aquario, che è uno dei dodici segni del Zodiaco e rifulge di
127 stelle.
Dante non si è già dimenticato di rammentar Ganimede. Nel Canto
Purgatorio ne ricorda il ratto :
« In sogno mi parea veder sospesa « Un’aquila nel ciel con penne d’oro, « Con l’ale aperte ed a calare intesa : « Ed esser mi parea là dove foro « Abbandonati i suoi da Ganimede« Quando fu rattoal sommo concistoro. »
Inoltre nel Canto Inferno nomina la
costellazione o segno del Zodiaco in cui fu cangiato Ganimede :
« In quella parte del giovinett’anno « Che ‘lSole i crin sotto l’I]Aquario tempra, « E già le notti al mezzo dì sen vanno. »
Così diceva anche Laomedonte fu l’unico figlio di Ilo e il
penultimo re di Troia ; e di lui parlano più a lungo i Mitologi che di tutti i suoi
predecessori ; ma lo rappresentano con caratteristiche poco favorevoli, cioè come un
gran mancator di fede, non però impunemente. L’ultima cinta delle mura di Troia fu
ordinata da Laomedonte, ed i pœti aggiungono eseguita da Nettuno e da Apollo, esuli
entrambi dal soggiorno degli Dei, privati del diritto della Divinità e ridotti alla
condizione degli uomini. Compiute che furon le mura, il re spergiuro negò la pattuita
mercede. Non Apollo e Nettuno soltanto, Orazio :Esìone figlia dello stesso Laomedonte. Allora soltanto il re si scosse dalla
sua noncuranza, e per salvar la propria figlia promise un gran premio a chi uccidesse
l’orca marina che dovea divorarla. In quell’anno stesso aveva Ercole abbandonato gli
Argonauti sulle coste della Misia, come dicemmo, e percorreva quella regione limitrofa
alla Troade. Avuta notizia dell’editto di Laomedonte, s’impegnò col re di uccidere
l’orca, a patto però che gli desse in premio quelle polledre figlie del vento, le
quali, come dice Omero,
« Correan sul capo delle bionde ariste « Senza pur sgretolarle ; e se co’salti « Prendean sul dorso a lascivir del mare, « Sulle spume volavano de’flutti « Senza toccarli. »
Laomedonte promise ; ma, uccisa che fu l’orca, non volle mantener la promessa ; ed
Ercole non stette a pregar gli Dei che punissero il re spergiuro e mancator di
parola ; ma col proprio braccio e coll’aiuto di Telamone e di pochi altri compagni
s’impadronì di Troia, la saccheggiò, uccise Laomedonte, prese Esione
liberata dal mostro e la diè per isposa a Telamone suo amico, e
portò seco in ostaggio Podarce principe ereditario, che dopo il suo
riscatto fu chiamato Priamo.
riscattato : è dunque un soprannome col quale quest’ultimo
ed infelicissimo re Troiano passò alla posterità.
Degli altri figli di Laomedonte rammentati da Omero nei versi sopracitati è notabile
soltanto Titone che sposò l’Aurora, come dicemmo. Ora è da
aggiungersi che avendo l’Aurora ottenuto per esso dagli Dei l’immortalità, si
dimenticò di chiedere ad un tempo la perpetua giovinezza del suo sposo ; e perciò
Titone invecchiò tanto che venne in uggia a sè stesso, e desiderò di morire. Gli Dei
lo cangiarono in cicala, trasformazione a bella posta inventata dai
poeti per significare quanto egli fosse divenuto querulo nell’estrema sua
vecchiezza.
Riscattato che fu Priamo e proclamato re di Troia, sposò Ècuba figlia di Dimante re di Tracia, e da essa ebbe
molti figli, di ciascuno dei quali dovrà parlarsi nel raccontare le estreme sventure
della loro patria ; e prima converrà dire di quello che ne fu causa, cioè di Paride. I poeti si fanno dalla lontana, e veramente ab
ovo, narrando che Ecuba quand’era incinta di questo figlio sognò di aver
partorito una fiamma che incendiava tutta l’Asia. Gl’interpreti dei sogni dichiararono
che il figlio nascituro sarebbe stato causa della rovina della patria. Perciò appena
nato i genitori lo fecero esporre in un bosco, perchè perisse di disagio, o fosse
divorato da qualche fiera ; ma invece avvenne di lui come di Edipo, che fu trovato
vivo da un pastore ed allevato come suo figlio sul monte Ida. Quivi egli crebbe ignaro
della sua origine, e fu tra i pastori chiamato Alessandro ; ed egli
è quel desso che fu eletto per giudice della bellezza delle tre Dee, come dicemmo. In
qual modo poi egli desse causa alla guerra di Troia si dirà subito nel prossimo
capitolo.
Dopo che Venere ebbe riportato pel giudizio di Paride il più splendido trionfo nel
vanto della bellezza sopra tutte le Dee, convenne pure che pensasse a mantener la
promessafatta al giudice, di procurargli cioè per moglie la più bella donna del mondo.
Ma la più bella donna che allor vivesse era la spartana Elena,
rapita prima da Teseo, e poi divenuta moglie del re Menelao, come dicemmo : e questa
stessa, secondo le promesse di Venere, doveva divenir moglie dell’umile pastore del
monte Ida. Era un tal nodo gordiano da non potersi sciogliere facilmente neppur da una
Dea. In quanto al pastore fu trovato il modo di farlo riconoscere per figlio di Priamo
e di Ecuba in un torneo in cui Paride vinse tutti i figli del re ; e in tale occasione
investigando essi l’origine di lui, scuoprirono che egli era il loro fratello esposto
da bambino nelle selve, e per tale lo riconobbero senza pensar più al sogno di Ecuba e
all’interpretazione di quello.
Così Paride divenne principe reale, e perciò di nascita pari a quella di Elena ; e come fanno tutti i giovani principi andò a viaggiare negli altri Stati e a visitare le altre corti
« ….. per divenir del mondo esperto « E degli vizii umani e del valore. »
Se allora fosse morto Menelao, nessun ostacolo esser vi poteva perchè il real
principe troiano sposasse la regina vedova spartana. Ma poichè Menelao non volle morir
così presto, e
D’accordo col suo fratello Agamennone, di lui più potente e più ardito, rappresentò a
tutti i principi greci l’offesa dei Troiani come un insulto nazionale, come un’ onta
all’intera Grecia ; e la maggior parte di questi principi accorse ad un generale
congresso in Argo, ove mossi dalle parole e dall’autorità di Agamennone consentirono a
portar guerra di esterminio ai Troiani, ed elessero Agamennone stesso Duce supremo di
quell’impresa nazionale e capo di tutti i principi collegati. Ecco perchè egli è
chiamato dagli Antichi re dei re, e da Dante lo Gran
Duca dei Greci. Fu risoluto che il luogo di convegno per far tutti insieme il
passaggio per mare nella Troade sarebbe il porto di Aulide nella
Beozia in faccia all’isola di Eubea. Vi accorsero infatti principi ed armati da quasi
tutte le parti della Grecia, ma non tanto in fretta, perchè molti ebbero bisogno di
prender tempo per prepararsi ; altri pensandovi meglio sembravano pentiti della
promessa e indugiavano a bella posta, e mancavano fra gli altri quei due famosi Eroi
che meritarono in appresso, per le loro grandi gesta in quell’impresa, di esser fatti
da Omero i protagonisti dei suoi due poemi l’Iliade e l’Odissea. E
« D’uom che sì saggio era stimato prima. »
Fortunatamente essendo venuto in Aulide tra i primi Palamede figlio
di Nauplio, re della vicina isola di Eubea, egli, ingegnosissimo
qual era, sospettò accortamente che Ulisse fingesse di esser pazzo per non andare alla
guerra e non lasciare la sua Penelope e il suo Telemaco ; e recatosi in Itaca scuoprì
la finzione di lui e lo indusse a seguirlo. Ulisse poi si diede ad investigare dove
fosse Achille, e il modo che tenne per trovarlo (poichè dubitava che si nascondesse in
abito femminile) fu questo : Si travestì da mercante di gioie, e andò ad offrirle
nelle corti alle principesse ed alle loro ancelle ; ed avendo fra i monili donneschi
portato ancora una finissima armatura da guerrieri, fu questa che fece palese
Achille ; il quale dimenticando il suo travestimento, su di essa fissò il suo sguardo,
e a quella diè di piglio, quando appositamente Ulisse fingendo un improvviso assalto,
fe’ suonare la tromba di guerra. Fu allora deciso dei futuri destini di Achille.
All’eloquente invito di Ulisse s’infiammarono gli spiriti guerreschi del giovane Eroe,
e ad una lunga vita effemminata ed oscura preferì una breve esistenza terrena, ma
piena di gloria immortale ; nè valse a ritardarlo e trattenerlo in Sciro l’affetto di
Deidamia figlia del re, che egli aveva segretamente sposata ; e dalla mollezza e dagli
agi della corte di Licomede partì con Ulisse per i duri travagli della guerra.
Intanto in Aulide si erano raccolti tanti guerrieri, che per quanto fece dire Dante a Virgilio,
« ……. Grecia fu di maschi vota « Sì, che appena rimaser per le cune ; »
Eurìpilo e Calcante dissero che per
ottenere favorevoli i venti conveniva placar gli Dei con una vittima umana ; e tanto
poteva le superstizione a quei tempi, che lo stesso Agamennone re dei re consentì ad
immolare la propria figlia Ifigenía, e la immolò difatti, secondo
che scrivono i più, e tra questi anche Dante, che rammentando nel
Canto v del Paradiso questo barbaro sacrifizio, soggiunge :
« Onde pianse Ifigènia il suo bel volto « E fe’ pianger di sè i folli e i savi « Che udîr parlar di così fatto cólto. »
Secondo altri però la Dea Diana impedì così fatto cólto, cioè questo culto o sacrifizio, e trasportò altrove
Ifigenia, e in quella vece sostituì per vittima una cerva.
Finalmente dopo avere i Greci aspettato per un anno il vento favorevole, e dopo il
sacrifizio o d’Ifigenia o della cerva, gli Dei rimasero placati, i venti spirarono
favorevoli, ed Euripilo
« ……. diede il punto con Calcante« In Aulidea tagliar la prima fune. »
Nel tempo che i Greci si preparavano per la guerra, i Troiani non stavano inoperosi :
fabbricavano armi e addestravano armati ; rafforzavano le antiche alleanze e ne
contraevano delle nuove. Priamo era già vecchio ; ma aveva un
Quando l’armata greca con prospera navigazione fu giunta in vista delle coste della
Troade, scorse in diversi punti di quelle schierato l’esercito troiano, o ad impedire
lo sbarco, o a far costar cara l’invasione. Nessuno dei Greci osava scendere a terra,
perchè credevasi che primo perirebbe chi primo scendesse ; e così avvenne infatti a
Protesilao, il quale, come dice Omero,
« Primo ei balzossi dalle navi, e primo « Trafitto cadde dal dardanio ferro, »
e come altri poeti aggiungono, per mano dello stesso Ettore. È ricordata con somme
lodi Laodamia moglie di lui affettuosissima, la quale desiderando di
veder l’ombra del marito e poi morire, fu trovata estinta nel suo letto e fu detto che
era morta dopo averlo veduto in sogno, come desiderava. Molti altri perirono in quel
primo scontro, che non ebbero ugual fama, e colla loro morte pagarono il primo tributo
di sangue al Dio della guerra. Ma, finalmente, respinti i Troiani, poterono i Greci,
tirate a terra le navi, avanzarsi nella Troade.
Ora convien dire che ai tempi nostri non si capisce facilmente qual genere di guerra
intendessero i Greci di fare ai Troiani, ossia qual fosse la loro tattica e il loro
disegno, o, come suol dirsi francescamente, il piano di guerra,
perchè non cinsero mai la città di Troia in modo che non potesse ricever di fuori e
viveri e truppe ausiliarie, nè mai, per nove anni, assaltarono la città ; e invece
facevano scorrerie sulle terre vicine, saccheggiavano le altre città e ne menavano
schiavi gli abitanti ; e solo nel decimo anno tutti i loro sforzi bloccarla ; nè fino al decimo anno osarono di assaltarla ; nè i
Troiani di abbandonare il sistema difensivo. I fatti perciò e gli avvenimenti di quei
primi nove anni si riducono a pochi : la noia e la stanchezza divenivano sempre più
generali ed intollerabili ; e perciò inventarono giuochi, fatalità e superstizioni per
tenere a bada i soldati, e pascere di speranze la loro credulità. Attribuivasi infatti
a Palamede l’invenzione del giuoco degli scacchi e dei dadi, della
tessera o contrassegno, delle sentinelle e delle evoluzioni militari ; e si aggiunge
inoltre di quattro lettere dell’alfabeto greco. Il suo ingegno straordinario meritava
però miglior sorte, poichè di lui si racconta che fu condannato a morte dai Greci per
falso sospetto di tradimento ; e questo giudizio fu dichiarato iniquo da Platone
stesso nel discorso che ei riferisce come fatto da Socrate ai giudici che lo
condannarono Cicerone, nel libro Tusculane, riporta tradotta da lui stesso in latino questa
parlata di Socrate ; della quale il punto riferibile a Palamede è il seguente :
« Quanta delectatione autem afficerer, quum Palamedem, quum
Ajacem, quum alios judicio iniquo circumventos
convenirem. »Virgilio nel libro Eneide parla di Palamede, e ne fa da Sinone attribuire la
morte all’invidia e al tradimento di Ulisse in questi termini, secondo la traduzione
di Annibal Caro :
« Non so se, ragionandosi, agli orecchi « Ti venne mai di Palamede il nome, « Che nomato e pregiato e glorïoso, « E da Belo altamente era disceso ; « Se ben con falso e scellerato indizio « Di tradigion, per detestar la guerra, « Ei fu da’Greci indegnamente ucciso : « Com’or che ne son privi, i Greci stessi « Lo piangon tutti. A questo Palamede, « A cui per parentela era congiunto, « Il pover padre mio ne’miei prim’anni « Pria per valletto nel mestier dell’armi, « Poi per compagno a questa guerra diemmi. « Infin ch’ei visse, e fu ‘l suo stato in fiore, « Fioriro anco i miei giorni ; e l’opre e’l nome « E’l grado mio ne fur talvolta in pregio. « Estinto lui (chè per invidia avvenne, « Come ognun sa, del traditore Ulisse), « Amaramente il piansi. »
Ma che Ulisse avesse ciò fatto per vendicarsi di Palamede, che aveva scoperto la sua
simulazione d’insania e costrettolo a partir per la guerra, non è facile dimostrarlo,
in quanto che Omero non ne parla, e perciò appunto Cicerone non lo crede, e stima
invece che sia questa una invenzione dei Tragici Cic., De Off.,
Immaginarono poi certe fatalità, come le chiamano i Mitologi, cioè
decreti del fato, che dovevano avverarsi o compiersi affinchè
Troia potesse esser presa dai Greci ; e perciò furono dette le fatalità
di Troia. Se ne contano sei : Fatalità. — Doveva prender parte alla guerra di Troia un
discendente di Eaco ; e questa fatalità si avverò la prima colla venuta di Achille, che era figlio di Peleo e nipote di Eaco, e perciò chiamato dai poeti il Pelìde e l’Eàcide.
2ª Fatalità. — Dovevano aversi nel campo greco le
freccie d’Ercole, che quest’Eroe morendo lasciò a Filottete
coll’obbligo di non manifestarle ad alcuno, come dicemmo. I Greci pregarono tanto
Filottete che ei le portò in Aulide ; ma in pena di aver mancato alla promessa fatta
ad Ercole, nel maneggiar quelle freccie che erano tinte nel sangue dell’Idra di Lerna,
glie ne cadde una in un piede, e gli cagionò una piaga così fetente, che i Greci
nell’andare a Troia lo abbandonarono solo nell’isola di Lenno. In appresso però avendo
bisogno di quelle freccie, lo andarono a riprendere e lo fecero curare dai medici
dell’armata Macaone e Podalirio, figli di
Esculapio, che lo guarirono.
3ª Fatalità. — Doveva divenire amico un nemico ; e questi era Tèlefo re di Misia. Telefo, quantunque di sangue greco per parte di
padre perchè era figlio di Ercole, essendo divenuto re di Misia,
regione limitrofa alla Troade, dovè, per ragion di Stato, fare
alleanza con Priamo contro i Greci ; e l’esercito greco per assicurarsi i fianchi e le
spalle, prima d’investir Troia invase gli Stati limitrofi. Telefo vinto in battaglia
fu costretto a fuggir dal suo regno ; e per maggiore sciagura rimase colpito dall’asta
di Achille, le cui ferite erano insanabili. Consultato l’Oracolo, gli rispose che
l’asta sola che lo aveva ferito poteva sanarlo. Dovè dunque, se volle ricuperar la
salute e conservarsi in vita, raccomandarsi ai nemici e sottostare a qualunque
condizione. Guarito colla limatura del ferro di quell’asta rimase nel campo greco in
adempimento dei patti, e divenne amico dei Greci per sentimento di gratitudine. Dante rammenta questa virtù dell’asta di Achille nei seguenti versi
del Canto Inferno :
« Così od’io che soleva la lancia« D’Achillee del suo padre esser cagione« Prima di trista e poi di buona mancia. »
4ª Fatalità. — Bisognava impedire che i cavalli di
Reso re di Tracia, bevessero le acque del fiume Xanto ; il
che significava di impedire a Reso di recar soccorsi a Troia ; ed era questa non già
una superstizione, ma una necessaria precauzione di guerra. Ulisse e Diomede
provvidero che si avverasse questa fatalità, uccidendo Reso prima
che arrivasse a Troia e portando nelle greche trinciere i cavalli di lui.
5ª Fatalità. — Dovevano i Greci impadronirsi del Palladio che era nel tempio di Pallade dentro alla rocca di Troia. Ulisse e
Diomede essendo penetrati in Troia travestiti da mendici, uccisero alla sprovvista i
custodi della fortezza e rapirono il Palladio e lo portarono nel
campo greco. Questo fatto straordinario è rammentato da Virgilio ne
lib. Eneide
Tydides sed enim scelerumque
inventor Ulysses,Fatale aggressi sacrato avellere
temploPalladium, cæsis summæ custodibus
arcis,Virgineas ausi Divœ contingere vittas. »Virg.,
Dante nel C. Inferno.
Dante pose nel Limbo
« ………. il grande Achille « Che con amore alfine combatteo ; »
ma nell’Inferno il fraudolento Ulisse col suo compagno Diomede
circondati ambedue dalle fiamme :
« ……… e così insieme « Alla vendetta corron come all’ira ; « E dentro dalla lor fiamma si geme « L’aguato del caval che fe’ la porta « Ond’uscì de’Romani il gentil seme. « Piangevisi entro l’arte, perchè morta « Deidamiaancor si duol d’Achille,« E del Palladio pena vi si porta. »
6ª Fatalità. — Dovevasi abbattere il sepolcro di
Laomedonte : e questa fatalità fu compiuta per opera dei Troiani stessi il
giorno avanti l’eccidio della loro città, come vedremo.
Nel decimo anno del lungo e lento assedio di Troia avvennero intorno alle mura di
essa le più memorabili battaglie, che furono narrate maravigliosamente da Omero. L’Iliade ne contiene la lunga serie ; e perciò per traslato suol dirsi
un’iliade di sventure a significare una lunga serie di esse.
Sebbene il titolo d’Iliade che diede Omero al suo poema, derivando
da Ilio, appelli in generale alle vicende di Troia, il poeta sovrano ne ristrinse così i limiti nella proposizione del soggetto :
« Cantami, o Diva, del Pelìde Achille« L’ ira funestache infiniti addusse« Lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco « Generose travolse alme d’eroi, « E di cani e di augelli orrido pasto « Le salme abbandonò (così di Giove « L’alto consiglio s’adempia), da quando « Primamente disgiunse aspra contesa « Il re de’prodi Atridee il divoAchille. »
Omero dunque cantò nell’Iliade l’ira di Achille
e le funeste conseguenze di quella. Il poema comincia dal narrare la causa che
produsse l’inimicizia fra Achille ed Agamennone, e termina con la morte e le esequie
di Ettore. Il tempo in cui avvennero tutti i fatti ivi narrati si estende, secondo i
computi degli eruditi, tutt’al più a 51 giorno.
Anche chi non abbia prima d’ora letto l’Iliade, potrà, dopo
l’introduzione da me fatta di sopra a questa lettura, intender tutto il poema senza
fatica. Supponendo pertanto
La causa che inimicò Achille con Agamennone fu una prepotenza del re dei re. Era uso
comune in quelle antiche guerre da masnadieri devastar prima ed uccidere, e poi rapire
non solamente le cose ma pur anco le persone e dividersi le prede fra i combattenti.
Le persone divenivano schiave ed eran trattate come bestie da soma. Finchè durò il
Paganesimo, tutti i popoli antichi, anche i più civili, e gli stessi Romani,
consideravano gli schiavi non come persone, ma come cose. — Aveva Agamennone una
schiava chiamata Crisèide perchè figlia di Crisa
sacerdote e re ; e venuto il padre a riscattarla con ricchi doni, era stato respinto
da Agamennone stesso con modi aspri e minacciosi. Poco dopo infierendo una pestilenza
nel campo greco, fu creduta una vendetta di Apollo per l’insulto fatto al suo
sacerdote. Ciò disse l’indovino Calcante in pubblico parlamento, e
quindi incoraggiato e rassicurato da Achille dichiarò che bisognava render Criseide al padre con doni ed offerte ad Apollo per placare quel Nume
e far cessare la pestilenza. Agamennone s’impermalì di trovarsi costretto a render Criseide, e imbizzarrito insultò Calcante, e disse di volere un’altra
schiava in compenso, diversamente toglierebbe a forza quella che più gli piacesse a
qualunque degli altri capitani, foss’anche lo stesso tremendissimo
Achille. Seguì allora una tale altercazione con parole e frasi sì poco parlamentari,
che fu per terminare colla uccisione di Agamennone per mano di Achille, se questi non
era trattenuto dalle eloquenti esortazioni del vecchio Nestore, e più ancora dalla Dea
Minerva, che
« Gli venne a tergo e per la bionda chioma « Prese il fiero Pelide, a tutti occulta, « A lui sol manifesta, »
Patroclo suo inseparabile amico e coi suoi Mirmidoni
non si oppose, benchè in cuor suo ne fremesse, a lasciar condur via dagli araldi
mandati da Agamennone, la sua schiava Briseide, rispettando in essi
il diritto delle genti, e confidando che farebber le sue vendette i nemici. Infatti i
Troiani, conosciuta l’ira e la volontaria inazione di Achille, presero coraggio ad
assaltare i Greci, ed in pochi giorni furon date le più straordinarie e famose
battaglie che sieno mai state descritte, con vicende così mirabili che furon copiate o
imitate da tutti i poeti epici. Son però belle e mirabili colla lor veste poetica :
diverrebbero monotone narrandole in prosa, ora tanto più che le armi da fuoco hanno
resa inutile la straordinaria forza del braccio, e che il più debole artigliere col
suo cannone è più potente e più micidiale di Achille e di Diomede colle spade e colle
lance.
Convien qui notare quel che i rètori hanno chiamato la macchina, cioè l’intervento personale delle Divinità nelle contese degli
uomini ; e nella guerra troiana le Divinità che vi prendono parte perdono anzichè
guadagnare della lor dignità. È facile indovinare che Venere favorirà i Troiani in
grazia del giudizio di Paride, e che Marte campione di Venere la seconderà in tutto e
per tutto ; e per le opposte ragioni Giunone e Minerva, per dispetto cioè del giudizio
di Paride e per invidia di Venere, perseguiteranno i Troiani e favoriranno i Greci ; e
così altre Divinità, secondo le loro simpatie o antipatie, come fanno i mortali,
prenderanno parte o per gli uni o per gli altri combattenti Mulciber in Troiam, pro Troia stabat Apollo ;Venus Teucris, Pallas iniqua fuit. »Ovid.,
quasi sangue, cioè un
certo umore che i celesti, per quanto ci assicura Omero, chiamano
icòre,
« Qual corre de’beati entro le vene ; « Ch’essi nè frutto cereal gustando, « Nè rubicondo vino, esangui sono, « E quindi han nome d’Immortali. »
Per quanto i capitani greci facessero prodigi di valore a gara con Diomede, la sorte era contraria al loro esercito, il quale rimaneva quasi sempre perdente e respinto : ad ogni battaglia cresceva il numero dei morti e dei feriti in grandi proporzioni, e per conseguenza lo scoraggiamento dei superstiti ed illesi. Si notò allora con dolore l’assenza di Achille, e sorse vivissimo in tutti i cuori il desiderio di lui : lo stesso Agamennone si pentì di averlo insultato. E Achille intanto nelle sue sicure tende godeva delle sconfitte dei Greci ; e per quanto Agamennone gli offrisse per mezzo dei più illustri personaggi della sua armata, oltre la restituzione di Briseide, i più ricchi doni ed una delle proprie figlie in isposa, Achille stette fermo al niego e respinse sdegnosamente qualunque proposta di conciliazione. Qualche giorno dopo, peggiorando sempre le condizioni del greco esercito,
« ………… chè quanti « Eran dianzi i miglior, tutti alle navi « Giacean feriti, quale di saetta, « Qual di fendente : di saetta il forte « Tidìde Diomede, e di fendente « L’inclito Ulisse e Agamennòn ; »
si presentò Patroclo piangendo ad Achille, e lo pregò di permettergli almeno di
combatter egli con le divine armi Iliade, la quale chiudesi con le seguenti semplicissime parole :
« Questi furo gli estremi onor renduti « Al domatore di cavalli Ettorre. »
Anche Ugo Foscolo termina il suo celebre Carme sui Sepolcri con le lodi di quest’Eroe Troiano morto in difesa della patria :
« E tu onore di pianti, Ettore, avrai « Ove fia santo e lagrimato il sangue « Per la patria versato, e finchè il Sole « Risplenderà sulle sciagure umane . » È famigerato ed assiomatico il bel verso di
Orazio:« Dulce et decorum est pro patria mori. »
Parrebbe che dopo la morte di Ettore, che era il più formidabil guerriero Troiano, e
sopravvivendo tuttora Achille, dovesse Troia esser presa e disfatta dai Greci in pochi
giorni ; ma non fu così. Apparisce invece che per la stanchezza delle precedenti
battaglie e per le gravi ferite che avevano tocche i più dei capitani di ambe le
parti, vi fosse, senza bisogno di pattuirla, una tregua necessaria indispensabile. È
da credersi ancora che Achille dopo essersi intenerito per Priamo
s’intenerisse non meno per Polissena figlia di lui, poichè aderì
alla proposta fattagli di sposarla, e per trattarne andò nel tempio di Apollo, ove
Paride a tradimento lo ferì nel calcagno, sola parte del suo corpo in cui egli era tendine,
che d’allora in poi fu chiamato di Achille, gli cagionò la morte.
Dolenti i Greci di aver perduto il loro principal sostegno, gli resero onori divini,
gli eressero un monumento sul promontorio Sigèo, e chiusero le sue
ceneri nella stessa urna ov’eran quelle di Patroclo, com’egli avea desiderato.
Insorse quindi una grave contesa per decidere chi dovesse possedere quelle armi che
furono opra di Vulcano, impareggiabili per tempra e per lavoro. Rimasero i più
ostinati a contrastarsele Aiace Telamonio ed Ulisse ; quegli più prode di braccio, questi più valente di consiglio. In
pubblico parlamento esposero entrambi i loro titoli ad avere la preferenza, ma vinse
Ulisse col fascino della sua facondia ; e Aiace ne rimase così indignato che perdè il
senno, e divenuto furibondo, mentre errava per la campagna incontrò una mandra di
porci, e credendoli altrettanti greci li uccise tutti : quindi in un lucido intervallo
accortosi del suo errore e della sua sventura intellettuale si tolse da sè stesso la
vita colla propria spada.
Per la morte di Achille veniva a mancare nel campo greco la presenza di un Eacide, e perciò la prima delle fatalità di Troia,
di cui abbiamo parlato. Ma Ulisse sapeva bene che di Achille esisteva un figlio nato
da Deidamia, e vivente anche allora alla corte dell’avo suo Licomede in Sciro : quindi
andò ad invitarlo a recarsi al campo di Troia per vendicar la morte del padre ; e Pirro, degno figlio di Achille, non ebbe mestieri di altre parole per
seguire Ulisse ; e quantunque giunto appena alla pubertà,
« Tra giovane e fanciullo età confine, « L’età precorse e la speranza : e presti « Pareano i fior quando n’usciro i frutti. »
I Greci gli posero il soprannome di Neottòlemo, che significa il
nuovo venuto alla guerra, il nuovo guerriero.
Filottete,
abbandonato, come dicemmo, in quell’isola, ove pel dolor della sua ferita, di cui non
era ancora guarito, condusse una vita piena di affanni e di privazioni. Non fu già in
Ulisse commiserazione per la disgrazia di Filottete, ma calcolo di politica per aver
nuovamente nel campo greco le freccie d’Ercole in adempimento di una
delle fatalità di Troia. Filottete infatti non si fidava di Ulisse, e solo consentì e
si risolse di andar con lui, rassicurato che fu dalle parole del giovinetto Pirro che
tanto somigliava il leale e generoso Achille. Giunto nel campo greco fu guarito da Macaone e Podalirio figli di Esculapio ; e allora
mise in opera subito una di quelle freccie saettando Paride, che di quella ferita
morì. La qual morte del rapitore di Elena diede la maggior soddisfazione all’offeso
Menelao, e tolse di mezzo un altro ostacolo a terminar finalmente in qualche modo la
lunga e disastrosa guerra.
Prima però di raccontare l’eccidio di Troia, convien far parola, almeno
incidentalmente, di quei principi e guerrieri, amici ed alleati dei Troiani che
recaron loro soccorso personalmente e perderon per essi la vita in battaglia. Fra
questi v’eran due Semidei, cioè Sarpèdone figlio
di Giove e di Laodamia, e Mènnone figlio dell’Aurora e di Titone.
Essendo ambedue re, il primo della Licia ed il secondo dell’Etiopia, andarono alla
guerra con una schiera di lor gente, e furono entrambi uccisi in battaglia da Achille,
o secondo altri da Ulisse. Dopo la loro morte accaddero dei miracoli : il corpo di Sarpèdone fu trasportato invisibilmente (si dice da Apollo per ordine
di Giove) nel suo regno di Licia perchè i suoi popoli gli rendessero solennemente i
funebri onori.
Dal rogo di Mènnone, mentre il suo corpo ardeva uscirono degli uccelli di una nuova
specie non prima veduta, che furon chiamati uccelli Mennònidi ; ma
non v’è stato mai Mènnone, quando era percossa dai raggi del Sole,
uscivano suoni musicali come quelli di una cetra : i sacerdoti facevan credere al
volgo che lo spirito di Mènnone animando quella statua tramandasse quei suoni per
salutare il Sole suo avo quando la irradiava ; ed erano essi che penetrando per
occulti accessi nella cavità della statua suonavano a quelle date ore una cetra.
Non convien passar sotto silenzio la regina delle Amazzoni Pentesilèa, che Virgilio e Ovidio asseriscono essere accorsa in aiuto dei
Troiani con una schiera delle sue compagne e che fu uccisa da Achille. Virgilio così la descrive nel lib. Eneide :
« Scorge d’altronde di lunati scudi « Guidar Pentesilèal’armate schiere« Dell’Amazzoni sue : guerriera ardita « Che succinta, e ristretta in fregio d’oro « L’adusta mamma, ardente e furïosa « Tra mille e mille, ancor che donna e vergine, « Di qual sia cavalier, non teme intoppo. »
E Dante asserisce di averla veduta nel Limbo
colle Eroine :
« Vidi Camilla e la Pentesilea« Dall’altra parte. »
L’invenzione del cavallo di legno per prender la città di Troia è non solo di nuovo
genere, ma unica nel suo genere. Omero dice che fu uno stratagemma,
Virgilio un’insidia e Dante un aguato. Dante,
secondo il solito, ne fa soltanto un
Omero nel libro Odissea,
parlando del cavallo di legno, lo chiama
« ……………. l’edifizio « Del gran cavallo che d’inteste travi « Con Palladeal suo fiancoEpeocostrusse,« E Ulissepenetrar feo nella rôcca« Dardania, pregno ( stratagemmainsigne !)« Degli eroi per cui Troia andò in faville. »
E Virgilio nel libro Eneide
facendo narrare da Enea la presa e l’incendio di Troia palesa pur anco il motivo per
cui ricorsero i Greci a questa insidia :
« ……….. Sbattuti e stanchi « Di guerreggiar tant’anni, e risospinti « Ancor da’ fati i greci condottieri « All’ insidiesi diero ; e daMinerva« Divinamente instrutti un gran cavallo « Di ben contesti e ben confitti abeti « In sembianza d’un monte edificaro. « Poscia finto che ciò fosse per vóto « Del lor ritorno, di tornar sembiante « Fecero tal che se ne sparse il grido. « Dentro al suo cieco ventre e nelle grotte, « Che molte erano e grandi in sì gran mole, « Rinchiuser di nascoso arme e guerrieri « A ciò per sorte e. per valore eletti. »
Tènedo, venti e più miglia distante. Nè mancò fra
i Troiani chi proponesse d’incendiar quel cavallo di legno, o gettarlo nel mare, o
farlo a pezzi, sospettandovi dentro un inganno dei Greci ; e per quanto gli Antichi si
sieno affaticati a scusar l’opposta deliberazione, inventando superstizioni, miracoli
e frodi di Sinone, non son mai riusciti a far creder perdonabile la
cecità dei Troiani ; i quali non solo rispettarono come un voto sacro a Minerva quel
cavallo, ma lo trasportarono nella loro fortezza, abbandonandosi spensieratamente alla
gioia per la partenza dei Greci, ai conviti, all’ebbrezza ed al sonno. E nella notte
usciti dal cavallo i guerrieri che vi si erano racchiusi, e tornati indietro da Tenedo
i soldati della greca flotta, invadono la città sepolta nel sonno e nel vino, come
dice Virgilio
L’episodio di Laocoonte fu reso celebre non solo da Virgilio, ma
anche dalla greca scultura. Laocoonte sacerdote di Apollo fu uno di quei Troiani che
volevano incendiare o in qualunque altro modo distruggere il cavallo di legno, e
inoltre gli scagliò un dardo che rimase confitto nel fianco e fece risuonare le
interne cavità. Poco dopo avvenne (vero o
Delle astuzie poi e delle frodi del greco Sinone per farsi credere
nemico dei Greci e indurre i Troiani a portare in Troia il cavallo di legno, oltre al
farne la più eloquente narrazione Virgilio, ne parla anche Dante,
che mette Sinone nell’Inferno tra i fraudolenti, e fa che un altro dannato altercando
con esso gli rimproveri le sue frodi, dicendogli :
« Ma tu non fosti sì ver testimonio « Là ‘ve del ver fosti a Troia richiesto. « Ricorditi, spergiuro, del cavallo, « E sieti reo, chè tutto il mondo sallo. »
Quanto ai principali guerrieri che entrarono nel cavallo sarà bene di conoscerne i
nomi riferiti da Virgilio, per intendere qual grave perdita sarebbe
stata per l’esercito greco se fossero periti tutti questi illustri Eroi,
« Che fur Tessandro e Stenelo ed Ulisse, « Acamante e Toante e Macaone « E Pirro e Menelao con lo scaltrito « Fabbricator di quest’inganno, Epeo. »
Virgilio racconta ancora con qual facilità trasportarono i Troiani in poche ore
quell’immenso e pesantissimo cavallo Virgilio fa dire da Enea :
« Ruiniamo la porta, apriam le mura, « Adattiamo al cavallo ordigni e travi, « E ruote e curri ai piedi e funi al collo. « Così mossa e tirata agevolmente « La macchina fatale, il muro ascende « D’armi pregna e d’armati. Ella per mezzo « Tratta della città, mentre si scuote, « Mentre che nell’andar cigola e freme, « Sembra che la minacci. »
Fu in quel giorno che si avverò l’ultima fatalità di Troia, che
consisteva, come dicemmo, nell’atterrare il sepolcro di Laomedonte ; il qual sepolcro
essendo addossato alle mura della città in quel punto stesso ove fu necessario
rovinarle per farvi passare il cavallo, venne così ad essere atterrato dai Troiani
stessi.
Ma più che all’insidia del cavallo di legno è probabile che dovessero i Greci la
presa di Troia al tradimento. Tal ne corse la fama che fu accolta come nunziatrice del
vero anche da celebri scrittori, e tra questi dall’Alighieri. Fu detto
antichissimamente che Antènore nipote di Priamo ex
sorore tradisse i Troiani, e che perciò potè uscire illeso di mezzo alle argive
schiere e trasportarsi in Italia, ove fondò Padova. Che anche Dante
avesse di lui questa opinione lo dimostrò coll’aver dato il nome di Antenòra a quella divisione dell’Inferno in cui son puniti i traditori della
patria, tra i quali trovò il Conte Ugolino. Ma gli scrittori greci per non menomare il
merito dei loro Eroi nascosero più che
« Debil’aura di fama appena giunge. »
Il sospetto di tradimento cresce ancora dal sapersi che Elena dopo la morte di
Paride, pur restando nella corte troiana, aveva saputo trovare il modo di persuader
Menelao a riprenderla per moglie al suo ritorno in Grecia, come difatti avvenne. Anche
di Enea fu detto da qualche scrittore di minor conto che egli fosse stato in qualche
modo d’accordo coi Greci ; ma oltre che di sì grave accusa non si trova traccia alcuna
in Omero, egli è poi sì altamente encomiato come il pio Enea nel
poema epico di Virgilio, che lo stesso Dante ha detto di lui :
« Ch’ei fu dell’alma Roma e del suo impero « Nell’empireo Ciel per padre eletto. »
Di Enea dunque sarà necessario parlare a lungo in un capitolo a parte.
Fra gli episodii però dell’eccidio di Troia uno dei più lagrimevoli è quello della
morte del vecchio re Priamo, che dopo aver veduti spenti i suoi più prodi e più cari
figli, oltre una gran parte dei suoi sudditi, e presa e incendiata dai Greci la sua
città, fu ucciso per mano di Pirro. Nè qui si arrestò la vendetta
del giovane guerriero, che impadronitosi di Polissèna, causa
innocente della morte di Achille, la uccise sulla tomba del padre, in sacrifizio di
espiazione all’ombra di lui. Nè meno miseranda è la fine di Ecuba. Fu allora che
« Ecuba trista, misera e cattiva, « Poscia che vide Polissenamorta« E del suo Polidoroin su la riva« Del mar si fu la dolorosa accorta, « Forsennata latrò siccome cane ; « Tanto il dolor le fe’ la mente torta. »
« Forsennata latrò siccome cane, »
e con tale espressione mentre alludeva alla mitologica invenzione, la interpretò al tempo stesso secondo le più comuni leggi dell’umana natura, che cioè Ecuba, oppressa in sì breve tempo da tanti atroci dolori d’animo, avesse perduto la ragione e finito i suoi giorni gemendo ed urlando. Tutti gli altri e figli e parenti di ambo i sessi della famiglia di Priamo divennero schiavi dei Greci, e principalmente di Pirro e di Agamennone : e delle loro vicende parleremo in appresso secondo l’ordine cronologico degli avvenimenti.
Le incomparabili sciagure di questa regia famiglia hanno sempre ispirato gli artisti
antichi e i moderni a rappresentarle in tele e in marmi ; ed anche il vivente scultore
Pio Fedi col suo mirabil gruppo di quattro statue, chiamato
volgarmente il ratto di Polissena (ratto ben diverso pel significato
della parola, e negli effetti, da quello delle Sabine), ha dimostrato che non è
inutile neppure ai giorni nostri lo studio dei Classici e della Mitologia. In quel gruppo vedesi Pirro che si è impadronito di Polissena e la sostiene col braccio sinistro sollevata da terra e
stretta al suo fianco, mentre colla destra alzando la spada minaccia Ecuba che
inginocchiata e supplicante tenta invano di trattenerlo e di commuoverlo a rendergli
la figlia ; e sul suolo fra i piedi di Pirro giace moribondo Polite,
uno dei figli di Priamo. PolitesUnus natorum Priami,
per tela, per hastes,ante oculos evasis et ora
parentumConcidit, ac multo vitam cum sanguine
fudit. »Virg.,
Incendiata la città di Troia, e divise fra i vincitori le prede, nessun’altra maggior premura ebbero i Greci che di ritornare in patria dopo tanti anni, tanti pericoli e tante fatiche, ora finalmente lieti della vittoria e paghi della più tremenda e memorabil vendetta. Le prede non eran soltanto di schiavi e di schiave, ma anche di ricchi tesori che i Greci non avevan dimenticato di rapire dai troiani palagi prima che vi giungesser le fiamme. Furon tutti contenti della lor parte di preda ; ma la dissenzione si manifestò tra loro per decidere della partenza. Compiuta l’impresa e cessato il pericolo, ognuno si credè sciolto da qualunque vincolo di subordinazione al comandante supremo ; e lo stesso Menelao che sempre era stato così concorde col fratello Agamennone, in questo discordò da lui, e volle partire con pochi altri il secondo giorno dopo la presa di Troia. Si unirono ad esso il vecchio Nestore, Ulisse e Diomede, e veleggiarono insieme sino all’isola di Tenedo. Costì nuovamente si divisero : Ulisse tornò indietro alle spiaggie di Troia, e gli altri si diressero verso la patria, ognuno con le proprie navi ed i proprii sudditi superstiti senza dipender più dagli altrui consigli o deliberazioni.
Andròmaca, vedova del famoso Ettore. Questa aveva un figlio chiamato Astianatte, bambin
leggiadro come stella, dice Omero, unica speranza della madre, unico rampollo
di quell’eroe. La madre al primo romore della presa di Troia lo mandò a nascondere nel
sepolcro di Ettore fuori della città ; e poi divenuta schiava di Pirro andava
segretamente a portar cibo al piccolo Astianatte rimasto solo in quella tomba, e si
tratteneva con lui più che poteva per fargli compagnia ed avvertirlo del pericolo che
correva, se fosse scoperto. Ma Pirro se ne accorse, e salito nella tomba ov’era
nascosto il bambino, lo afferrò per un piede e lo scagliò lontano nella sottoposta
campagna ove morì sul colpo. Un figlio dell’ucciso Ettore che sopravvivesse al padre
era sempre un imminente pericolo pel figlio dell’uccisore.
Anche questo tragico fatto fu espresso in marmo dal celebre scultore Il Lorenzo Bartolini in un gruppo in cui si rappresenta Pirro che tiene sospeso
in aria il piccolo Astianatte, ed è in atto di scagliarlo lontano da sè, mentre
l’infelice madre inginocchiata ai piè di lui lo supplica indarno per la salvezza del
figlioGiusti, che bene a ragione
ammirava le opere del Bartolini, vivente a tempo suo, scrisse di lui nella Terra dei Morti :Lorenzo, come mai
Nauplio padre dell’infelice Palamede che fu calunniato da
Ulisse ed ucciso ingiustamente dai Greci ; e perciò per vendicar la morte del figlio
aveva Nauplio sempre cercato di nuocere in ogni modo alle famiglie ed agli Stati di
quei Greci che erano andati alla guerra di Troia. Egli dunque all’avvicinarsi della
greca flotta fece accendere dei fuochi sopra gli scogli Cafarei (al sud-ovest dell’
Eubea) perchè i Greci li credessero segnali di un porto amico ove ripararsi dalla
tempesta, ed invece percuotendovi naufragassero ; ma non vi perì che Aiace figlio di Oileo, e tutti gli altri si salvarono, con gran dispiacere di
Nauplio, principalmente perchè ne seppe scampato Ulisse, contro il quale era maggiore
l’ira sua e il desiderio di vendetta. Aiace stesso Oilèo (detto anche il minore Aiace per distinguerlo
dall’altro Aiace Telamonio che si uccise da sè stesso), perì,
anzichè per l’insidia di Nauplio, per l’ira di Minerva e di Nettuno : Minerva sdegnata
che nel tempio di lei avesse egli insultato la profetessa Cassandra
figlia di Priamo ; Nettuno, perchè Aiace sbattuto dalle onde si vantò di scampare dal
naufragio ad onta degli Dei e dello stesso Nettuno. Tutti gli altri guerrieri che
partirono dalla Troade o con Menelao o con Agamennone, giunsero salvi nella Grecia. E
qui finisce il racconto delle vicende che provò l’armata greca nel suo ritorno ; e
resta solo a sapersi se questi reduci divenuti così famosi furon pur anco felici nel
rimanente dei loro giorni. Alla narrazione storica generale subentrano dunque
necessariamente i cenni biografici dei principali guerrieri.
E incominciando dal re dei re, troviamo che a lui più funesto che
agli altri fu il ritorno in patria. Nel tempo della Egisto suo cugino e figlio di Tieste continuando a nutrire l’odio del padre contro gli Atridi, si era insinuato nella corte di Agamennone e nell’animo di
Clitennestra ; ed avendo fatto sparger voce che Agamennone fosse morto, avea persuaso
la regina a sposarlo. Agamennone invece non solo era vivo, ma poco dopo, presa e
distrutta Troia, si disponeva a ritornar nel suo regno. Tra le sue schiave eravi Cassandra figlia di Priamo, profetessa veridica in tutte le sue
predizioni, ma per volere di Apollo con essa adirato, non mai creduta da alcuno. Non
solo ai Troiani essa presagì le loro sventure, ma pur anco ad Agamennone, e neppur
egli vi prestò fede ; e quindi non potè schivare la trista fine che lo attendeva nella
sua propria reggia. L’iniquo Egisto sentendo imminente l’arrivo di lui, raggirò
talmente il debole e corrotto animo di Clitennestra, da renderla convinta che per
evitare di essere uccisi entrambi da Agamennone non v’era altro riparo che uccider
lui. E il re dei re scampato da mille pericoli, il giorno stesso che giunse nel suo
regno e nella sua reggia, in mezzo alle finte accoglienze, quand’era per assidersi a
mensa fu ucciso a tradimento da Egisto, e Cassandra da Clitennestra, non chè tutti i
più fidi compagni di Agamennone ivi presenti, dagli sgherri dell’usurpatore
tiranno.
Egisto, il quale molto prima di Machiavelli sapeva che Ritorna pure sullo stesso argomento in un altro libro
filosofico : « Qui clamores vulgi atque imperitorum excitantur in
theatris, quum illa dicuntur : « Quum autem etiam exitus ab utroque datur conturbato
errantique regi : — ( Questa scena fu imitata egregiamente dall’« è necessario
all’usurpatore di un trono estirpare tutti i « rampolli della famiglia che regnava
prima di lui, »
avea tese insidie alla vita del piccolo Oreste figlio di
Agamennone e di Clitennestra ; ma la sorella Elettra, più assennata e pietosa della
madre, lo aveva segretamente posto in salvo nella corte di Strofio
re della Fòcide. Questa saggia precauzione di Elettra, congiunta
alla voce che in appresso fece spargere della morte del fratello, rese possibile la
ben meritata punizione di Egisto e di Clitennestra, perchè Oreste giunto appena alla
pubertà, essendo impaziente di ricuperare Pilade, figlio di Strofio, ritornò nascostamente nella sua
reggia, e non senza incontrar gravi pericoli, da cui fecero a gara a sottrarlo
l’affetto della sorella e dell’amico, potè uccidere Egisto, e nel furore della
vendetta, incontrata la madre che veniva in soccorso del tiranno, uccise anch’essa
collo stesso pugnale grondante del sangue di Egisto. Ma accortosi di avere ecceduto
nella vendetta fu invaso dalle Furie, e andò errando per lungo tempo in preda ai
rimorsi, sempre accompagnato dal fidissimo Pilade, che più e più volte espose la
propria vita per salvar quella dell’amico. Spinti dalla tempesta nella Taurica Chersoneto (ora Crimea) furon consegnati a Toante re e sacerdote di quella regione, il quale sacrificava
all’idolo di Diana vit time umane, scelte tra i forestieri che vi approdavano nel suo
Stato. Quei Mitologi i quali dicono che invece di Ifigenia fosse sacrificata una
cerva, asseriscono che Diana trasportò Ifigenia a far da ministra in questi
sacrifizii, e che essa, quando vi giunsero Oreste e Pilade, riconobbe il fratello, e
quindi si accordò con esso e coll’amico di lui ad uccider Toante. Ciò fatto, portaron
via la statua di Diana e tornarono insieme in Grecia, ove Oreste liberato finalmente
dalle Furie sposò Ermìone figlia di Menelao e di Elena, e regnò non
solo in Argo e in Micene, ma ancora nella maggior parte del Peloponneso. Egli ebbe un
figlio chiamato Tisamène, che fu re dopo di lui ; e l’amico Pilade
sposando l’eroica Elettra unì ai vincoli dell’amicizia quelli della affinità. Le
vicende di Agamennone e di Oreste diedero ampio
argomento a molte tragedie antiche e moderne, e tra le altre a quelle due di Alfieri
che hanno per titolo il nome del gran re dei re e quello del figlio di lui Cicerone nel De Amicitia e
nel libro De Finibus, narra quanto fosse ammirata ed applaudita dal
pubblico quella scena della tragedia di Pacuvio, in cui Oreste e Pilade gareggiano
a dar la vita per salvare quella dell’amico, quando Egisto voleva sapere chi di
loro due fosso Oreste, ed entrambi si affaticavano a dire : Io sono
Oreste. Riporto le precise parole di Cicerone :« Qui clamores
tota cavea nuper in hospitis et amici mei M. Pacuvii fuerunt nova fabula, quum,
ignorante rege, uter eorum esset Orestes, Pylades Orestem se esse diceret, ut
pro illo necaretur ; Orestes autem, ita ut erat, Orestem se esse
perseveraret ? »
— (De Amic.,
Ego sum Orestes ;
contraque ab altero :Immo enimvero, ego sum, inquam,
Orestes !Ambo ergo una necarier precamur, quoties hoc
agitur, ecquando nisi admirationibus maximis ? »De Finib. v, 22.)Alfieri nell’atto Oreste,
e produce sempre grandissimo effetto. Anche Dante alluse a
questo fatto, concissimamente com’è solito, facendo pronunziare nel Canto
Purgatorio queste parole : Io
sono Oreste, come un esempio sublime di amor del prossimo, conosciuto anche
dai Pagani.
Menelao ed Elena dopo
esser partiti da Tenedo erano stati spinti dalla tempesta sino in Egitto ; e di là
tornati a Sparta vissero insieme in pace più anni. Ma Elena, morto che fu Menelao,
essendo odiata da tutti come causa della disastrosa guerra di Troia, fu costretta a
fuggire dal regno di Sparta che era il regno dei suoi antenati, e ricoveratasi presso
una sua parente a cui era morto il marito in quella guerra, fu, per ordine di essa,
soffocata in un bagno da tre sue ancelle travestite da Furie.
Neottolemo, ossia Pirro figlio di Achille,
tornando in Grecia co’ suoi Mirmidoni, condusse seco tra gli altri
schiavi Eleno figlio di Priamo e Andromaca vedova
di Ettore. Di schiava la fece divenire sua moglie, ed ebbe da essa un figlio a cui
alcuni Mitologi antichi danno il nome di Molosso ; poi la Eleno, e diede
ad entrambi la libertà ed una parte del regno dell’Epiro che era divenuto suo, non si
sa bene se per volontà della nazione, o per conquista. Quindi sposò Lanassa nipote di Ercole, ed ebbe da essa più figli. La fine però di
quest’eroe fu poco gloriosa, e non per disgrazia, ma per colpa sua. Volle rapire Ermione promessa sposa di Oreste, ed Oreste venuto alle mani con esso
lo uccise.
I suoi figli e discendenti si mantennero per molti secoli nel regno di Epiro, e
formarono la dinastia detta dei Perciò nella famosa ambigua risposta dell’
Oracolo : Pirro è chiamato Pirridi o EàcidiEacide, alludendosi allo
stipite di quella dinastia, che fu Eaco, avo di
Achille.
Il vecchio Nestore ritornato in Pilo sua patria e
suo regno (sulle coste della Messenia nel Peloponneso) visse ancora alcuni anni in
seno alla sua famiglia, in cui però mancava il figlio Antìloco,
ucciso sotto le mura di Troia per mano di Ettore, o, secondo altri, di Mennone.
Diomede, il più prode guerriero dopo Achille, arrivò salvo in Argo,
ma non volle ritornare nel suo regno di Etolia, perchè seppe
alienato da lui l’animo di sua moglie Egialèa, ed ebbe forse paura
di far la fine di Agamennone. Venne invece in Italia nella Puglia, ove sposò la figlia
del re Dauno che gli diede per dote una parte del suo regno, ed ivi
fondò la città di Arpi, e, secondo altri, anche Siponto, presso il monte Gargano. Egli era ancor vivo sette anni dopo,
allorquando giunse in Italia Enea, ed essendo allora richiesto da
Turno di unirsi con lui per distruggere quest’ultimo avanzo di Troia, ricusò dicendo
che la guerra con quella nazione era stata dannosa agli stessi vincitori.
Anche Filottete invece di tornare nella sua patria venne Petilia, alla quale credesi corrispondere ora Policastro sul
golfo di questo nome. Alcuni attribuiscono a Idomeneo re di Creta e
nipote di Minosse la fondazione di questa città ; ma Omero che
parla più volte con gran lode del valore di Idomeneo, quanto al suo ritorno dice
soltanto che
« …………. in Creta « Rimenò Idomeneoquanti compagni« Con la vita gli uscîr fuori dell’arme : « Un sol non ne inghiottì l’onda vorace. »
È una invenzione dei successivi Mitologi che Idomeneo avesse fatto un voto imprudente
come quello di Jefte ; e che volendo adempierlo coll’uccidere il
figlio che era stato il primo a venirgli incontro, fu cacciato dai suoi sudditi e si
rifugiò nella Magna Grecia, ove fondò il regno di Salento.
Resta ora soltanto a parlare del ritorno di Ulisse ; ma poichè sulle straordinarie e mirabili vicende di quest’Eroe dopo l’eccidio di Troia, Omero trovò da scrivere un intero poema di ventiquattro Canti, converrà almeno accennarne le principali in un capitolo separato.
« Già tutti i Greci che la nera Parca « Rapiti non avea, ne’loro alberghi « Fuor dell’orme sedeano e fuor dell’onde. « Sol dal suo regno e dalla casta donna « Rimanea lungi Ulisse. »
Isole Ionie, che credendolo
estinto pretendevano che Penelope sua moglie si risolvesse a sposare uno di loro.
Erano questi i Proci (cioè i pretendenti) di cui tanto a lungo
favella Omero nell’OdisseaOdissea deriva da Odisseo, che era il
greco nome di Ulisse ; e perciò quel poema potrebbe in italiano
chiamarsi Ulissea ; ma nella nostra lingua per lo più si seguono i
Latini e non si fa altro che tradurli. Essi conservarono al poema di Omero il greco
titolo di Odissea, e diedero al protagonista di esso il nome di
Ulisse ; e così fecero e fanno gl’Italiani.la tela di Penelope a
significare un lavoro che non ha mai termine. In tal modo l’accorta ed affettuosa
moglie tenne a bada i Proci sino al ritorno di Ulisse.
Intanto Telemaco impaziente di aver qualche notizia di suo padre,
partì segretamente da Itaca accompagnato da Minerva sotto la figura di Mentore e andò
a Pilo da Nestore e a Sparta da Menelao e da Elena
a dimandarne ; ma dopo la tempesta che avea divisa la flotta greca nessuno seppe più
nulla di Ulisse. V’ era però speranza che egli vivesse, perchè nessuno aveva detto o
sentito dire che ei fosse morto. Infatti Omero dice di Ulisse,
« ….. che molto errò, poi ch’ebbe a terra « Gittate d’Ilïon le sacre mura ; « Che città vide molte e delle genti « L’indol conobbe ; che sovr’esso il mare « Molti dentro del cor sofferse affanni, « Mentre a guardar la cara vita intende « E i suoi compagni a ricondur ; ma indarno « Ricondur desiava i suoi compagni, « Che delle colpe lor tutti periro. »
I viaggi di Ulisse dopo la guerra di Troia si trovano chiamati ancora gli errori di Ulisse, perchè egli, come dice Omero, molto
errò, cioè andò molto vagando senza saper dove, sospinto dalla forza del vento
e delle tempeste. Solamente dall’isola dei Feaci (ora di Corfù) andò direttamente ad Itaca sua patria, com’
egli volle e desiderò da lunghi anni ; ma prima era andato sempre errando contro il
suo desiderio e per necessità o forza maggiore.
Chi sente dir per la prima volta che Ulisse errò per dieci anni, crederà che egli in
quel lungo spazio di tempo fosse stato chi sa quante volte agli antipodi e ritornato,
e fatta più e più volte la circumnavigazione del nostro globo. Invece la navigazione
di Ulisse in dieci anni non si estese al di là delle acque del Mediterraneo, qualunque
sia il nome speciale che prende dallo stretto di Gibilterra alle foci del Don nel Mar d’ Azof. Ma non è da farne le maraviglie, quando
sappiamo che Ulisse, come gli fa dire anche Dante, stette con Circe più d’un anno là presso Gaeta
« Prima che sì Enea la nominasse ; »
e poi fu trattenuto dalla Ninfa Calipso per più di sette anni Ogige
Ogige dicevasi e credevasi che
fosse situata nel mar Tirreno presso le coste dell’Italia meridionale ; ma nessuno
ha detto precisamente a quale delle esistenti isole corrisponda : perciò taluni la
credono un’isola favolosa, come la Dea che vi risiedeva.
« Là dal crin crespo e dal canoro labbro « Dea veneranda un gonfiator di vele « Vento in poppa mandò, che fedelmente « Ci accompagnava per l’ondosa via : « Tal che oziosi nella ratta nave « Dalla cerulea prua giacean gli arnesi, « E noi tranquilli sedevam, la cura « Al timonier lasciandone ed al vento. »
E questo viaggio fu compiuto in un sol giorno prima che Ulisse abbandonasse l’isola di Circe, mentre a compierlo con mezzi umani, dove pone Omero l’Inferno, cioè ai gelidi confini dell’Oceano,
« Là ‘ve la gente de’Cimmerii alberga « Cui nebbia e buio sempiterno involve, »
non sarebbe bastato a quei tempi un anno per andare e tornare.
Ristretti dunque gli errori di Ulisse dentro i loro veri limiti di
tempo e di spazio, determiniamo i luoghi che,
Lasciate le spiagge troiane col rimanente della flotta greca capitanata da
Agamennone, e diviso da quella per violenza di una tempesta, Ulisse fu spinto ad Ismaro, città dei Ciconi nella Tracia, e poi nella
terra dei Lotòfagi sulla costa settentrionale dell’Affrica ; quindi
nel paese dei Ciclopi fra l’Affrica e la Sicilia ; di là nell’Eolia, ossia in una delle isole Eolie fra la Sicilia e l’Italia, e
inoltre nel territorio dei Lestrìgoni, che non si trova ben
determinato dove fosse precisamente. Giunto poi ad Ea, isola della
maga Circe, presso il promontorio Circello, là sovra
Gaeta, come dice anche Dante, tornò indietro e passò davanti all’isola delle
Sirene lungo la costa di Napoli, e poi fra Scilla e
Cariddi nello stretto di Messina, e si fermò alquanto nella Trinacria, ossia in Sicilia. Partito da quell’isola e perduti tutti i compagni
che perirono in una tempesta, arrivò Ulisse nuotando all’isola di Ogige, e di là salpando in una nave da lui stesso costruita ebbe a soffrire
un’altra tempesta, dalla quale con gran fatica e pericolo scampato a nuoto, giunse
nell’isola dei Feaci, ultimo termine de’ suoi errori e de’suoi
travagli ; poichè ivi accolto onorevolmente dal re Alcinoo e con larghissimi doni
ricompensato di tutti i danni sofferti, ritornò di là comodamente in Itaca su di una
nave dei Feaci stessi.
Tra i casi più straordinari e mirabili avvenuti ad Ulisse in questi diversi luoghi,
Orazio chiamò speciosa miracula (splendidi
prodigi)
« Antiphatem Scyllamque et cum Cyclope Charybdim, »
cioè quel che
avvenne ad Ulisse nel paese dei Lestrìgoni di cui era re Antifate,
poi fra Scilla e Cariddi e nella caverna del Ciclope Polifemo.
Qual fosse Antifate re dei Lestrìgoni e qual sorte incontrassero i
compagni di Ulisse nella città e nella reggia di quello, sarà bene sentirlo narrare da
Omero stesso :
« Ei s’abbattero a una real fanciulla, « Del Lestrìgone Antifate alla figlia, « Che del fonte d’Artacia, onde costuma « Il cittadino attignere, in quel punto « Alle pure scendea linfe d’argento. « Le si fero d’appresso, e chi del loco « Re fosse, e su qual gente avesse impero « La domandaro ; ed ella pronta l’alto « Loro additò con man tetto del padre. « Tocco ne aveano il limitare appena, « Che femmina trovâr di sì gran mole, « Che rassembrava una montagna ; e un gelo « Si sentiro d’orror correr pel sangue. « Costei di botto Antifate chiamava « Dalla pubblica piazza, il rinomato « Marito suo, che disegnò lor tosto « Morte barbara e orrenda. Uno afferronne, « Che gli fu cena ; gli altri due con fuga « Precipitosa gionsero alle navi. « Di grida la cittade intanto empiea « Antifate. I Lestrigoni l’udiro, « E accorrean chi da un lato e chi dall’altro, « Forti di braccio, in numero infiniti « E giganti alla vista. Immense pietre « Così dai monti a fulminar si diero, « Che d’uomini spiranti e infranti legni « Sorse nel porto un suon tetro e confuso. « Ed alcuni infilzati eran con l’aste, « Quali pesci guizzanti, e alle ferali « Mense future riserbati. Mentre « Tal seguia strage, io, sguainato il brando, « E la fune recisa, a’miei compagni « Dar di forza nel mar co’remi ingiunsi, « Se il fuggir morte premea loro ; e quelli « Di tal modo arrancavano, che i gravi « Massi, che piovean d’alto, il mio naviglio « Lietamente schivò : m’a gli altri tutti « Colà restaro sfracellati e spersi. »
Di Scilla e di Cariddi ho già parlato nel Cap.
XXVIII, trattando dei Mostri marini mitologici e poetici ; e qui
aggiungo soltanto l’omerica narrazione dei pericoli nei quali incorsero, nel passarvi
framezzo, e Ulisse e i suoi compagni :
« Navigavamo addolorati intanto « Per l’angusto sentier : Scillada un lato,« Dall’altro era l’orribile Cariddi,« Che del mare inghiottia l’onde spumose. « Sempre che rigettavale, siccome « Caldaia in molto rilucente foco, « Mormorava bollendo ; e i larghi sprazzi, « Che andavan sino al cielo in vetta d’ambo « Gli scogli ricadevano. Ma quando « I salsi flutti ringhiottiva, tutta « Commoveasi di dentro, ed alla rupe « Terribilmente rimbombava intorno, « E, l’onda il seno aprendo, una azzurigna « Sabbia parea nell’imo fondo : verdi « Le guance di paura a tutti io scôrsi. « Mentre in Caridditenevam le ciglia,« Una morte temendone vicina, « Sei de’compagni, i più di man gagliardi, « Scillarapimmi dal naviglio. Io gli occhi« Torsi, e li vidi che levati in alto « Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse « Chiamavan, lassi ! per l’estrema volta. « Qual pescator che su pendente rupe « Tuffa di bue silvestre in mare il corno « Con lunghissima canna, un’infedele « Esca ai minuti abitatori offrendo, « E fuor li trae dell’onda, e palpitanti « Scagliali sul terren : non altrimenti « Scillai compagni dal naviglio alzava,« E innanzi divoravali allo speco, « Che dolenti mettean grida, e le mani « Nel gran disastro mi stendeano indarno. « Fra i molti acerbi casi, ond’io sostenni « Solcando il mar la vista, oggetto mai « Di cotanta pietà non mi s’offerse. »
Ma se Ulisse nell’andare in Sicilia potè passare fra Scilla e Cariddi con la perdita
soltanto di 6 compagni, nel ritorno li perdè tutti, e si trovò spinto dalla tempesta
nel vortice di Cariddi. In qual modo strano e mirabile ei ne scampasse è prezzo
dell’opera udirlo raccontare a lui stesso secondo che lo fa parlare Omero :
« Io pel naviglio su e giù movea, « Finchè gli sciolse la tempesta i fianchi « Della carena che rimase inerme. « Poi la base dell’albero l’irata « Onda schiantò : ma di taurino cuoio « Rivestialo una striscia, ed io con questa « L’albero e la carena in un legai, « E sopra mi v’assisi ; e tale i venti « Esizïali mi spingean sull’onde. « Zefiro a un tratto rallentò la rabbia : « Se non che sopraggiunse un Austro in fretta, « Che, noiandomi forte, in vêr Cariddi « Ricondur mi volea. L’intera notte « Scorsi sui flutti ; e col novello Sole « Tra la grotta di Scilla e la corrente « Mi ritrovai della fatal vorago, « Che in quel punto inghiottia le salse spume. « Io slanciandomi in alto a quel selvaggio « M’aggruppai fico eccelso ; e mi v’attenni, « Qual vipistrello ; chè nè dove i piedi « Fermar, nè come ascendere, io sapea, « Tanto eran lungi le radici, e tanto « Remoti dalla mano i lunghi, immensi « Rami, che d’ombra ricoprian Cariddi. « Là dunque io m’attenea, bramando sempre « Che rigettati dall’orrendo abisso « Fosser gli avanzi della nave. Al fine « Dopo un lungo desio vennero a galla. « Nella stagion che il giudicante, sciolte « Varie di caldi giovani contese, « Sorge dal foro e per cenar s’avvia, « Dall’onde usciro i sospirati avanzi. « Le braccia apersi allora, e mi lasciai « Giù piombar con gran tonfo all’onde in mezzo, « Non lunge da que’ legni, a cui m’assisi « Di sopra e delle man remi io mi feci. « Ma degli uomini il padre e dei Celesti « Di rivedermi non permise a Scilla ; « Chè toccata sariami orrida morte. « Per nove dì mi trabalzava il fiotto, « E la decima notte i Dei sul lido « Mi gettâr dell’Ogigia isola, dove « Calipso alberga, la divina Ninfa, « Che raccoglieami amica, e in molte guise « Mi confortava. »
Da questa descrizione, che è una delle quattro più maravigliose rammentate da Orazio nella Poetica, apparisce,
Di quel che avvenne ad Ulisse e ai suoi compagni nell’antro del Ciclope
Polifemo la narrazione è troppo lunga in Omero, ed occuperebbe troppo spazio a
riportarla qui tutta ; ma se ne trova il compendio in Virgilio, che
ne pone il racconto sulle labbra di Achèmene, uno dei compagni di
Ulisse :
« ……….. È questo un antro « Opaco, immenso, che macello è sempre « D’umana carne, onde ancor sempre intriso « È di sanie e di sangue. Ed è il Ciclopo « Un mostro spaventoso, un che col capo « Tocca le stelle (o Dio, leva di terra « Una tal peste), chè a mirarlo solo, « Solo a parlarne, orror sento ed angoscia. « Pascesi delle viscere e del sangue « Della misera gente ; ed io l’ho visto « Con gli occhi miei, nel suo speco, rovescio « Stender le branche, e due presi de’ nostri « Rotargli a cerco, e sbattergli e schizzarne « In fra quei tufi le midolle e gli ossi. « Vist’ ho quando le membra de’ meschini « Tiepide, palpitanti e vive ancora, « Di sanguinosa bava il mento asperso, « Frangea co’ denti a guisa di maciulla. « Ma nol soffrì senza vendetta Ulisse, « Nè di sè stesso in sì mortal periglio « Punto obliossi ; chè non prima steso « Lo vide ebbro e satollo, a capo chino « Giacer nell’antro, e sonnacchioso e gonfio « Ruttar pezzi di carne e sangue e vino, « Che ne restrinse. Ed invocati in prima « I santi Numi, divisò le veci « Sì, che parte il tenemmo in terra saldo, « Parte con un gran palo al foco aguzzo « Sopra gli fummo ; e quel ch’unico avea « Di targa e di febea lampade in guisa « Sotto la torva fronte occhio rinchiuso, « Gli trivellammo : vendicando al fine « Col tor la luce a lui l’ombre de’ nostri. »
Non è già che sien questi soli gli splendidi miracoli della poetica facoltà, o vogliam dire del genio inventivo di Omero : nè Orazio intese di far l’enumerazione di tutti, ma soltanto di citarne alcuni dei più straordinarii e mirabili a conferma della sua tesi :
« Non fumum ex fulgore, sed ex fumo dare lucem. »
E dovendo io riferirne qualcuno, ho preferito quelli citati da Orazio. Anzi nel
parlar dei Mostri marini (V. il N° XXIII) ho detto ancora delle Sirene, ed ho riferito che lo stesso Dante trovò il modo d’inserire
nella Divina Commedia il canto di una Sirena, alla quale fa dire,
tra le altre cose, ch’ell’era quella stessa che attirò Ulisse a passarle vicino per
udirla cantare.
Mi affretto dunque a terminar la biografia di Ulisse dicendo che, secondo Omero,
Ulisse fu ricondotto dai Feaci nella sua isola nativa dopo venti anni di assenza ; ed
ivi poste in opera tutte le sue più mirabili astuzie, potè finalmente coll’aiuto del
figlio e di alcuni suoi sudditi che gli erano rimasti fedeli, vendicarsi dei Proci
uccidendoli tutti, e poi viver tranquillo nel suo regno con la fida Penelope, Laerte (chè la madre Anticlèa era già morta prima del suo
ritorno Indigete Dio, e perciò non gli
furono resi onori divini.
Non tutti però gli antichi autori si accordano con Omero a dire che Ulisse tornò in
Itaca ; anzi alcuni asseriscono che egli fu ucciso prima di giungervi, ed altri che
non tornò più in patria e perì insieme co’ suoi compagni in una tempesta. E
quest’ultima opinione è quella che segue Dante nella Divina
Commedia. Anzi è qui da notarsi una gran diversità di opinione fra Omero e Dante
rispetto alla stima da aversi dell’indole e delle imprese di Ulisse non meno che di
Achille. Omero poeta pagano e cantore di Eroi mezzi barbari, ammira la forza e l’astuzia, e sceglie per protagonisti dei suoi due
poemi il più forte e il più astuto dei personaggi della guerra di
Troia, e giudicando soltanto dagli effetti, come soglion fare gli uomini politici, non
attribuisce alcun demerito agli eccessi della forza e dell’astuzia, che le fanno
divenire barbarie e frode. Ma Dante poeta e filosofo cristiano dopo aver dichiarato che
« D’ogni malizia ch’odio in Cielo acquista « Ingiuria è il fine, ed ogni fin cotale « O per forzaoper frodealtrui contrista, »
non poteva esser così indulgente come Omero per gli eccessi di
Achille e di Ulisse. Ma…. (com’egli giustamente osserva),
« Ma poichè frodeè dell’uom proprio male« Più spiace a Dio ; »
dovè esser perciò assai meno indulgente con Ulisse che con Achille. Infatti gli
eccessi di Achille dipendevano dall’impeto Dante, mentre condanna
ambedue questi Omerici Eroi all’Inferno, assegna loro giustamente
una pena molto diversa, secondo le diverse colpe : pone Achille nel cerchio della bufera con Francesca da Rimini, e Ulisse tra i rei del
fuoco furo col Conte Guido da Montefeltro, il più grande ingannatore del Medio
Evo. Di Achille dice soltanto :
« …… e vidi il grande Achille« Che con amore alfine combatteo. »
Ma di Ulisse ragiona a lungo nel Canto Inferno, e fa raccontare a lui stesso la sua fine (molto diversa da quella che
narra Omero), affinchè sembri più vera ; ed è questa : che Ulisse volle passar le colonne d’Ercole, ossia lo stretto di Gibilterra, per andare in cerca
di nuove regioni nell’Oceano atlantico ; e, quel che è più notabile, tenne presso a
poco la stessa direzione di Colombo, 2600 anni prima di lui, ma piegando un poco più
al sud ; e dopo 5 mesi lunari aveva già passata la linea, ossia
l’equatore, quando vide in distanza una montagna bruna più alta di
quante mai ne avesse vedute, e da quella nuova terra nacque un tal
turbine, che fece affondar nel mare la sua nave con esso lui e tutti i suoi compagni.
Queste particolarità, che son tutte d’invenzione di Dante, dimostrano che egli quasi
due secoli prima di Colombo e di Paolo Toscanella supponeva l’esistenza di nuove terre in mezzo all’Oceano, ma credeva che non fossero abitate,
poichè le chiama il mondo senza gente. Tutto il suddetto Canto
Dante sulle labbra di
Ulisse stesso ; e ciò per dimostrazione e conferma di quanto ho accennato di
sopra :
« E volta nostra poppa nel mattino, « De’remi facemmo ala al folle voloAnche nel Canto
xxvii delParadisoconferma l’opinione che Ulisse fosse annegato nell’Oceano Atlantico, e ripete l’epiteto difolleapplicandolo parimente all’ardire di quell’eroe :« Si ch’io vedea di là da Gade il varco« Folled’Ulisse, » ecc.« Sempre acquistando dal lato mancino. « Tutte le stelle già dell’altro polo « Vedea la notte, e il nostro tanto basso, « Che non usciva fuor del marin suolo. « Cinque volte racceso e tanto casso « Lo lume era di sotto della luna, « Poi ch’entrati eravam nell’alto passo, « Quando n’apparve una montagna bruna« Per la distanza, e parvemi alta tanto, « Quanto veduta non n’aveva alcuna. « Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, « Chè dalla nuova terraun turbo nacque,« E percosse del legno il primo canto. « Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque, « Alla quarta levar la poppa in suso, « E la prora ire in giù, come altrui piacque, « In fin che ‘l mar fu sopra noi richiuso. »
Per quanto Omero parli onorevolmente di Enea
nell’Iliade, e ne rammenti gl’illustri natali, dicendolo figlio
della Dea Venere e di Anchise principe troiano, e divenuto in appresso Creusa, e inoltre ne celebri pur anco le pugne e il valore sotto le mura di
Troia, non ostante Enea, secondo Omero, è sempre un Eroe secondario, molto inferiore
ad Ettore, il solo antagonista che potesse stare a fronte di Achille. Tutta la fama
che rese uno dei più illustri il nome di Enea e degno di poema e d’istoria ei
l’acquistò dopo l’eccidio di Troia, perchè venne in Italia e fondò un regno nel Lazio,
dal quale derivò Roma che fu poi dominatrice del Mondo. Quindi Virgilio lo scelse per protagonista nel suo poema epico intitolato perciò
appunto l’Eneide ; e Dante disse lui
« Ch’ei fu dell’alma Roma e del suo Impero « Nell’empireo ciel per padre eletto. »
Ma poichè noi troviamo ad un tempo in Enea l’Eroe mitologico e lo stipite del fondatore di Roma, l’ufficio del Mitologo è compiuto dove di Enea s’impadronisce lo Storico per narrar di lui ciò che crede conforme alla verità, o almeno alla morale certezza. Noi dunque ne diremo principalmente ciò che ne tace T. Livio, e poi accenneremo brevemente quello in che egli concorda coi Mitologi e coi poeti.
Enea ebbe il titolo di Pio per aver salvato
dall’incendio di Troia il vecchio suo padre Anchise portandolo sulle
spalle e conducendo per mano il figlio Ascanio, mentre la moglie Creusa che li seguiva d’appresso disparve, nè mai si seppe che ne
fosse avvenuto : e sebbene Enea si trattenesse alquanti mesi sul monte Ida per
costruir le navi e per raccoglier compagni che lo seguissero nella sua emigrazione,
non potè averne notizia alcuna. Dipoi con una flotta di 20 navi partì dalle spiaggie
della Troade in cerca di nuove terre per fondarvi un regno ; e nel suo corso marittimo
toccò, per quanto affermano i poeti e principalmente Virgilio, diverse terre e diverse
isole, cioè la Tracia, l’isola di Delo, l’isola di Creta, le isole Strofadi, l’isola
di Leucate, l’Epiro, la Sicilia, le coste
Il prodigio di cui Enea fu testimone in Tracia è il primo non solo cronologicamente,
ma pur anco per la sua importanza, poichè fu creduto degno di essere imitato
dall’Alighieri, dall’Ariosto e dal Tasso. Converrà dunque prima di tutto sentirlo
narrare da Virgilio stesso, o almeno dal suo classico
traduttore :
« ………….. Era nel lito « Un picciol monticello, a cui sorgea « Di mirti in sulla cima e di cornioli « Una folta selvetta. In questa entrando « Per di frondi velare i sacri altari, « Mentre de’suoi più teneri e più verdi « Arbusti or questo or quel diramo e svelgo, « Orribilè a veder, stupendo a dire « M’apparve un mostro ; chè divelto il primo « Dalle prime radici, uscîr di sangue « Luride goccie, e ne fu il suolo asperso. « Ghiado mi strinse il core ; orror mi scosse « Le membra tutte, e di paura il sangue « Mi si rapprese. lo le cagioni ascose « Di ciò cercando, un altro ne divelsi ; « Ed altro sangue usciane : onde confuso « Vie più rimasi ; e nel mio cor diversi « Pensier volgendo, or dell’agresti Ninfe, « Or del scitico Marte i santi Numi « Adorando, porgea preghiere umili, « Che di sì fiera e portentosa vista « Mi si togliesse, o si temprasse almeno « Il diro annunzio. Ritentando ancora, « Vengo al terzo virgulto, e con più forza « Mentre lo scerpo, e i piedi al suolo appunto, « E lo scuoto e lo sbarbo (il dico o il taccio ?) « Un sospiroso e lagrimabil suono « Dall’imo poggio odo che grida e dice : « Ah perchè sì mi laceri e mi scempi ? « Perchè di così pio, così spietato « Enea ver me ti mostri ? a che molesti « Un ch’è morto e sepolto ? a che contamini « Col sangue mio le consanguinee mani ? « Chè nè di patria, nè di gente esterno « Son io da te ; nè questo atro liquore « Esce da sterpi, ma da membra umane. « Ah ! fuggi, Enea, da questo empio paese : « Fuggi da questo abbominevol lito ; « Chè Polidoro io sono, e qui confitto « M’ha nembo micidiale e ria semenza « Di ferri e d’aste, che dal corpo mio « Umor preso e radici han fatto selva. »
Che Polidoro fosse figlio di Priamo e di Ecuba lo abbiamo accennato parlando della
trista fine di questa infelice regina ; ma poichè Virgilio ne fa
dare da Enea un’ampia spiegazione, io qui la riporto colle parole del suo
traduttore :
« A cotal suon da dubbia tema oppresso « Stupii, mi raggricciai, muto divenni, « Di Polidoro udendo. Un de’figliuoli « Era questi del re, che al tracio rege « Fu con molto tesoro occultamente « Accomandato, allor che da’Troiani « Incominciossi a diffidar dell’armi, « E temer dell’assedio. Il rio tiranno « Tosto che a Troia la fortuna vide « Volger le spalle, anch’ei si volse, e l’armi « E la sorte seguì dei vincitori ; « Sì che dell’amicizia e dell’ospizio « E dell’umanità rotta ogni legge, « Tolse al regio fanciul la vita e l’oro. « Ahi dell’oro empia ed esecrabil fame ! « E che per te non osa, e che non tenta « Quest’umana ingordigia ? Questi due ultimi versi e mezzo sono la traduzione un po’amplificata del famoso
« ….. Quid non mortalia pectora cogis, « Auri sacra fames ? » che Virgilio proferì
« Crucciato quasi all’umana natura ; » come dice
Dantenel Cantoxxii delPurgatorio, ove ne dà la seguente traduzione :« Perchè non reggi tu, o sacra fame « Dell’oro, l’appetito dei mortali ? » Alle quali parole il can. Bianchi fa la seguente annotazione :
« È inutile che io osservi che il virgilianoÈ vero, io soggiungo, che Dante voleva applicare il detto virgiliano ai prodighi e non agli avari, e potrebbe darsi che lo avesse interpretato come gli faceva comodo ; ma forse è più probabile che nelle copie di Virgilio vedute da Dante fosse scrittoQuid non mortalia pectora cogisecc. non ha propriamente il senso a cui è tirato qui. »Curinvece diQuid, come dicesi che si trovi tuttora in qualche antico manoscritto dell’Eneide.
Dante ha gareggiato mirabilmente con Virgilio estendendo il virgiliano prodigio di un
solo albero ad un’intera selva Son queste le parole che Inferno ; e quanto desta orrore la
descrizione della selva, altrettanto muove a compassione il racconto del famoso Pier
delle Vigne, Segretario dell’Imperator Federigo II, che essendo calunniato
dagl’invidiosi cortigiani e imprigionato si uccise per disdegnoDante fa dire a Pier delle
Vigne :Dante
che quella selva era animata, e venisse poi a scuoprire in un di quegli alberi l’anima
di Pier delle Vigne, è pregio dell’opera riferirlo colle sue stesse parole per farne
il confronto colla virgiliana invenzione, e assicu- rarsi che il nostro sommo poeta
gareggiando cogli antichi maestri bene spesso li vince :
« Io sentia d’ogni parte tragger guai, « E non vedea persona che ‘l facesse ; « Perch’io tutto smarrito m’arrestai. « Io credo ch’ei credette ch’io credesse « Che tante voci uscisser tra que’bronchi « Da gente che per noi si nascondesse. « Però disse ‘l Maestro : se tu tronchi « Qualche fraschetta d’una d’este piante, « Li pensier ch’hai si faran tutti monchi. « Allor porsi la mano un poco avante, « E colsi un ramoscel da un gran pruno ; « E ‘l tronco suo gridò : Perchè mi schiante ? « Da che fatto fu poi di sangue bruno, « Ricominciò a gridar : Perchè mi scerpi ? « Noi hai tu spirto di pietate alcuno ? « Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi ; « Ben dovrebb’esser la tua man più pia, « Se state fossim’ anime di serpi. « Come d’un stizzo verde, ch’arso sia « Dall’un de’capi che dall’altro geme, « E cigola per vento che va via ; « Così di quella scheggia usciva insieme « Parole e sangue : ond’io lasciai la cima « Cadere, e stetti come l’uom che teme. »
Anche l’Ariosto ha fatto cangiare Astolfo in mirto dalla maga Alcina ; e il Tasso molto a lungo ha descritto tutte le diavolerie della selva incantata ; ma conviene aver lette le loro descrizioni prima di quella di Dante, affinchè non perdano nulla del loro prestigio.
Un altro fatto straordinario avvenne ad Enea ed ai suoi compagni nelle isole Strofadi, e fu di trovarvi le Arpie. Noi descrivemmo
questi mostri nei Cap. XLV e XLVIII, ed accennammo che oltre gli antichi poeti ne
avevan parlato anche Dante e l’Ariosto. Virgilio racconta che i Troiani per non morir
di fame furon costretti a cacciare le Arpie colle lancie e coi dardi, perchè sempre,
com’eran solite di far dovunque, rapivano quante vivande potevano afferrare, e
infettavano le rimanenti ; e aggiunge che CelenoOccìpete e Aello. Il numero ternario si trova
spesso nella Mitologia, incominciando dai tre figli di Saturno, sino alle tre Arpie
ora rammentate.Dante
confina questi mostruosi e sozzi volatili nella selva delle anime dei suicidi, ed
accresce colla loro presenza l’orrore di quella, negli alberi della quale
« Non frondi verdi, ma di color fosco « Non rami schietti, ma nodosi e involti, « Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco. »
Inoltre le Arpie sono ivi destinate a far l’ufficio di demòni, a tormentar cioè
quegli zoofiti infernali, come Dante fa raccontare allo stesso Pier
delle Vigne :
« Quando si parte l’anima feroce « Dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta, « Minos la manda alla settima foce. « Cade in la selva, e non l’è parte scelta ; « Ma là dove fortuna la balestra, « Quivi germoglia come gran di spelta ; « Surge in vermena ed in pianta silvestra ; « Le Arpie pascendo poi delle sue foglie« Fanno dolore ed al dolor finestra. »
Dantenon dimentica neppure di far cenno della funesta predizione delle Arpie ai Troiani :« Quivi le brutte Arpie lor nido fanno, « Che cacciar delle Strofade i Troiani « Con tristo annunzio di futuro danno. »
Un ingegnosissimo episodio fu inventato da Virgilio, che cioè Enea sospinto dalla
tempesta sulle coste di Barberia, avesse trovato in quel territorio, ove ora è Tunisi, la regina Didone che facea fabbricare la città di Cartagine.
Secondo i Cronologisti più accreditati, Didone viveva tre secoli dopo la guerra di
Troia, e perciò era impossibile che avesse conosciuto Enea ; ma per quanto vi sia
questo non piccolo anacronismo,
l’invenzione di Virgilio fu ritenuta per una verità istorica ed ebbe gran fama, perchè
faceva risalire gli odii dei Cartaginesi contro i Romani sino allo stipite della
dinastia del fondatore di Roma ed a quei compagni di Enea, dai quali vantavansi
discesi molti dei più nobili ed illustri Romani.
Rammenta ancora col biasimo che si merita
Pigmalione, fratello di lei : E celebre in Didone, chiamata altrimenti Elisa, era figlia di
Belo re di Tiro e Sidone nella Fenicia ; ed ebbe per marito Sichèo che poi fu ucciso da Pigmalione fratello di
lei, per impadronirsi delle ricchezze e del regnoDante fa la perifrasi del nome di Didone rammentando di
chi essa era figlia e la sua malaugurata predilezione per
Enea :Belo,Sicheo ed a Creusa. »Pigmalïone allotta,Cartagine in Affrica.
Gettato su quelle coste dalla tempesta, Enea fu accolto umanamente dalla regina, la
quale offrì ad esso ed ai Troiani di fare un sol popolo coi Tirii, e credendo
accettata stabilmente la sua offerta, stimò rafforzato il suo nuovo regno, e lasciò
correr la fama che Enea fosse divenuto sposo di lei che prima avea rifiutato le nozze
con altri principi per serbar fede al cener di SicheoDante, parlando di Didone, disse di lei che ruppe fede al cener di Sicheo.Virgilio (Eneide, lib. Exoriare aliquis
nostris ex ossibus ultor,Litora litoribus contraria, fluctibus undasImprecor, arma armis : pugnent ipsique nepotes. »
Ad Enea era già morto in Sicilia il vecchio padre Anchise nella città di Drèpano (ora Trapani), ove regnava Alceste di sangue troiano. L’Ariosto ha voluto significare questa città facendo una perifrasi allusiva
alla sepoltura che ivi diede Enea alla salma di suo padre ; e così la rammenta nel
descrivere un viaggio di uno degli eroi del suo poema :
« Passa gli Umbri e gli Etrusci, e a Roma scende ; « Da Roma ad Ostia ; e quindi si tragitta « Per mare alla cittade, a cui commise« Il pietoso figliuol l’ossa d’Anchise. Anche
Dantenel Cantoxix delParadisorammenta Anchise morto in Sicilia, la quale, alludendo all’Etna, egli chiama« ………. l’isola del fuoco, « Dove Anchise fini la lunga etate. »
Prima di andar nel Lazio, Enea si fermò a Cuma,
« Ove in alto sorgea di Febo il tempio, « E là dov’era la spelonca immane « Dell’orrenda Sibilla, a cui fu dato « Dal gran Delio profeta animo e mente « D’aprir l’occulte e le future cose. »
Sibilla Cumana, che era solita dare
agli altri le sue risposte per mezzo di foglie sparse qua e là geroglificamente nella
sua caverna, ad Enea fece singolare accoglienza e si offrì di guidarlo nel regno delle
Ombre per vedere e consultare l’anima di suo padre Anchise. In questo sotterraneo
viaggio son descritte brevemente le Regioni infernali e lo Stato delle anime dopo la morte secondo la religione pagana ; e noi di
questi soggetti importantissimi per la classica Mitologia abbiamo parlato a lungo nei
Cap. XXIX, XXX e XXXI. E qui è bene osservare che di questo viaggio, che nell’Eneide di Virgilio è un episodio, Dante ha fatto il soggetto della Divina Commedia, adattando
e subordinando le idee pagane di Virgilio alla teologia cristiana, e senza
allontanarsi dalle dottrine di questa, descrivendo con mirabil fantasia e sapienza
l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso.
Prima di narrare come finalmente Enea giunse nel Lazio ed in quel territorio ove dopo
tre in quattro secoli sorse Roma, sarà opportuno rammentare alcuni luoghi d’Italia,
che, secondo l’antica tradizione, ebbero il nome, che tuttora conservano, da qualcuno
dei compagni di Enea. I più notabili sono il capo Misèno
Gaeta. E perchè Virgilio stesso ne dà la spiegazione, qui la riporteremo con le parole del suo
celebre traduttore A. Caro :
« Nel secco lito in sull’arena steso « Vider Misenoindegnamente estinto ;« Miseno, il figlio d’Eolo, che araldo« Era supremo, e col suo fiato solo « Possente a suscitar Marte e Bellona. « Era costui del grand’Ettor compagno, « E de’più segnalati intorno a lui « Combattendo, or la tromba ed or la lancia « Adoperava : e poi che ‘l fiero Achille « Ettore ancise, come ardito e fido « Seguì l’orme d’Enea ; chè non fu punto « Inferïore a lui. Stava sul mare « Sonando il folle con Tritone a gara, « Quando da lui ch’aschio sentinne e sdegno, « (Se creder dèssi) insidïosamente « Tratto giù dallo scoglio, ov’era assiso, « Fu nell’onde sommerso. Al corpo intorno « Convocati già tutti, amaro pianto « Ed alte strida insieme ne gittaro ; « E più degli altri Enea. »
Qui il poeta fa una lunga descrizione dei funebri onori che furon resi a Miseno, e termina dicendo :
« Oltre a ciò fece Enea per suo sepolcro « Ergere un’alta e sontuosa mole, « E l’armi e ‘l remo e la sonora tuba « Al monte appese, che d’ Aerioil nome« Fino allor ebbe, ed or da lui nomato « Misenoè detto, e si dirà mai sempre. »
E finora almeno, da quasi tremila anni, continua a dirsi così, e si dirà
mai sempre, come asseriva Virgilio, finchèsarà in onore la lingua latina. Nè
può credersi che sia questa una mera invenzione di Virgilio, poichè oltre i poeti
Properzio, Silio Italico e Stazio, anche i geografi Solino e Mèla confermano la stessa
origine del nome di questo promontorio. Non lungi dal promontorio v’ è il porto
Miseno, celebre anticamente perchè vi stavan sempre due flotte bene equipaggiate ed
armate, postevi dall’Imperatore Augusto a guardia dell’Italia.
Gaeta, ha pur esso un’origine troiana ; e Virgilio così
brevemente l’accenna al principio del libro Eneide :
« Ed ancor tu d’Enea fida nutrice « Caieta, ai nostri liti eterna fama« Desti morendo, ed essi anco a te diero « Sede onorata, se d’onore a’morti « È d’aver l’ossa consecrate e’l nome « Nella famosa Esperia. Ebbe Caieta« Dal suo pietoso alunno esequie e lutto « E sepoltura alteramente eretta. »
Il nome latino Caieta divenne in italiano Gaeta,
e nello stesso modo l’aggettivo Caietanus divenne Gaetano.
Anche Dante ripete che alla città di Gaeta fu
dato questo nome da Enea, poichè nel Canto Inferno, facendo dire ad Ulisse :
« ……………… Quando « Mi dipartii da Circe, che sottrasse « Me più d’un anno là presso a Gaeta. « Prima che sì Enea la nominasse, »
volle fare intendere che Ulisse avea navigato lungo le coste d’Italia prima che vi giungesse Enea, come difatti si deduce dai poemi di Omero e di Virgilio.
Finalmente Enea entrando nella foce del I poeti latini, e principalmente Virgilio, dicono che la regina Dante asserisce ancora di aver veduto nel Tevere, allora chiamato il
fiume Àlbula, si avanzò in quella regione che doveva divenir sì
celebre nella storia con la città di Roma e il popol di Quirino. Gli
storici latini, incominciando da Tito Livio, concordano coi poeti, e principalmente
con Virgilio, ad asserire che Enea strinse alleanza con Latino re di
Laurento nel paese dei Latini, e ne sposò la figlia Lavinia ; che sostenne una pericolosissima guerra contro di Turno re dei Rutuli, pretendente e, secondo alcuni, promesso
sposo di Amata moglie del re Latino, aveva promessa Lavinia in isposa a Turno, e che quando vide la sorte
delle armi favorevole ad Enea si uccise per disperazione. Dante
rammenta questo fatto nel Canto Purgatorio
colle seguenti parole :LimboLatinoLavina sua figlia sedea. »Lavinio, e che in appresso Ascanio figlio suo e di Creusa, fabbricò la città di Alba
Lunga, così chiamata, secondo Tito Livio, perchè si stendeva lungo il dorso del
colle Albanourbem) sub
Albano monte condidit, quæ ab situ porrectœ in dorso urbis Longa
Alba appellata. » — (Tito Liv., Hist.,
Indigete Dio. Ma dalla morte di Enea sino alla nascita di
Romolo son molto scarsi di notizie, o vere o inventate, tanto gli storici quanto i
poeti. Appena appena sono in grado di farci sapere i nomi dei re d’Alba, per ordine di
successione sino a Numitore padre di Rea Silvia, dalla quale nacquero Romolo e Remo. E
sebbene a questo punto intenda la Storia di sostituirsi alla Mitologia, la sana
critica per altro ci fa conoscere che nei primi tre secoli di Roma alla verità
istorica è quasi sempre frammisto il maraviglioso mitologico ; e lo stesso Tito Livio (come abbiamo osservato anche altrove), nel narrare certi fatti
poco o nulla credibili, non li garantisce come veri, ma aggiunge sempre si crede, o si dice. Nella Mitologia dunque non solo Dei falsi e bugiardi. Perciò nella
Mitologia convien parlare pur anco delle principali superstizioni del Paganesimo, che
derivarono dal culto di tali Dei : il che faremo nei seguenti capitoli.
Avevano gli antichi Pagani un irrefrenabile desiderio di conoscere il futuro, e al
tempo stesso una classica illusione a credere che facilmente se ne potesse squarciare
il velo. Ma appena vi furono gli stolti che ciò credetter possibile, si trovaron
subito gl’impostori che asserirono di possederne il privilegio o il segreto. Così
nacquero ed ebbero credito gli Oracoli ed ogni genere di Divinazione. Degli Oracoli ragionammo a lungo nel Cap. XXXII come
complemento alla spiegazione delle Divinità Superiori ; ora convien
parlare della Divinazione, che incominciata nei tempi preistorici fu
il perpetuo corredo della pagana religione e sorgente continua di nuove
superstizioni.
La parola Divinazione è di origine latina : deriva a divis, cioè dagli Dei, e sta perciò a significare l’interpretazione della
volontà di essi. Quindi è fondata sulla credenza che gli Dei manifestino agli uomini
la loro volontà e le loro intenzioni con certi segni sensibili più o meno evidenti. E
siccome la volontà e l’intenzione di chiunque si riferisce sempre alle cose da farsi,
ossia future, perciò la Divinazione fu considerata come l’arte di
conoscere l’avvenire. Infatti Cicerone se però esiste, e che avvicina
l’umana natura all’essenza divina divinationem, quam Græci
mantichen appellant, id est præsensionem et
scientiam rerum futurarum. Magnifica quidem res et salutaris, si modo est
ulla, quaque proxime ad deorum vim natura mortalis possit accedere. » — (Cic., De Divinat., Divinazione non esiste Divinationem nego. » — (Cic., De Divinat., Oracoli, e dopo che gli Dei del Paganesimo furon riconosciuti falsi e bugiardi.
La Divinazione esisteva in Oriente dalla più remota antichità, e
principalmente nell’India e nella Persia, da tempo immemorabile, e si mantiene tuttora
anche fra i Chinesi e i Musulmani. Gli Ebrei ne appresero i riti in Egitto e ne
conservarono segretamente le pratiche ad onta dei divieti della Bibbia. Dall’Asia
passò in Europa. I Greci la chiamarono in loro linguaggio Mantiche,
vocabolo che significa furore, esaltazione mentale ; quindi la
considerarono come spirito profetico, ovvero ispirazione ; e tal significato le fu
attribuito da Platone stessoDivis, Græci, ut
Plato interpretatur, a furore duxerunt. » — (Cic., De Divinat., Divinazione, e principalmente alla Negromanzia, cioè alla pretesa evocazione delle anime degli estinti.
naturale e artificiale. La
Divinazione naturale comprendeva soltanto i vaticinii ed i sogni :
l’artificiale tutte le altre specie di divinazione, che si
facevano derivare dal canto e dal volo degli uccelli, dalle viscere delle vittime, dal
tuono, dal lampo, dal fulmine, ecc.
Quasi tutti i diversi modi creduti efficaci per conoscere il futuro ebbero ancora
diverse denominazioni. Quindi tra le scienze o arti divinatorie troviamo la Magìa, l’Astrologìa, il sortilegio, l’interpretazione dei sogni, gli augùrii, o auspicii, gli aruspicii, la negromanzia, ecc.
A queste e simili pratiche religiose del Paganesimo suol darsi comunemente il titolo
di superstizioni ; perciò è da vedersi ancora qual’è l’etimologia di
questa parola e quale estensione di significato le attribuivano i Politeisti
romani.
La parola superstizione è di origine latina, e Cicerone la fa derivare da superstite, dicendo « che
tutti coloro i quali ogni giorno pregavano gli Dei e ad essi immolavano vittime per
ottenere che i loro figli fossero
ed aggiunge poi che quel vocabolo
di superstiti (cioè sopravvivessero
ai genitori) furon chiamati superstiziosi« Nam qui totos dies precabantur et immolabant, ut sui liberi sibi
— (superstites essent, superstitiosi sunt
appellati. »Cic., De Nat.
Deor., superstizione ebbe in appresso un più esteso significato,
riferibile a tutte le stolte e vane pratiche religiose, proprie delle vecchie
imbecilli che hanno un irrazionale terror degli Dei. Quindi egregiamente Bacone da
Verulamio asserì che la superstizione altro non è veramente che un
terror pànico.
Cicerone inoltre ci fa sapere che non è
stato egli il primo a far questa distinzione, e che non solo i filosofi,
ma anche gli antichi romani separarono la religione dalla
superstizionesu perstitionem a religione
separaverunt. » — (Cic., ibid.)Divinazione in tutte le sue parti, specie e distinzioni, come indicammo di
sopra : il che in altri termini equivale a dire che la Divinazione
di qualunque genere o specie era una vera superstizione. Ma perchè
gli scrupolosi politeisti di quel tempo non credessero che dicendo egli così mirasse
ad abbattere la religione, oltre all’avere accennata la distinzione che facevano non
solo i filosofi ma ancora i più celebri antichi romani fra religione e superstizione,
asserisce formalmente che col toglier la superstizione non si toglie già
la religione, facendo intendere che invece si purifica e si nobilita
eliminandone ciò che vi sia stato intruso di vano e di irrazionale dalla
imbecillità degli uominisuperstitio fusa per gentes oppressit omnium fere animos, atque hominum imbecillitatem occupavit…… Multum enim et nobismet ipsis et
nostris profuturi videbamur, si eam funditus sustulissemus. Nec
vero (id enim diligenter intelligi volo) superstitione tollenda
religio tollitur. Nam et majorum instituta tueri sacris cæremoniisque
retinendis sapientis est, et esse præstantem aliquam æternamque naturam, et eam
suspiciendam admirandamque hominum generi, pulchritudo mundi ordoque rerum cælestium
cogit confiteri. Quam ob rem, ut religio propaganda etiam est, quæ
est juncta cum cognitione naturæ, sic superstitionis stirpes omnes
ejiciendæ. » — (Cic., De Divinat.,
Trattandosi in questo capitolo di quel genere di divinazione soltanto che credevasi
derivare da spirito profetico negl’Indovini, che erano considerati
come i profeti dei Pagani, basterà parlare di qualcuno dei più celebri dell’Epoca
eroica. Tra i quali ha maggior fama Tiresia, che era Tebano e viveva
ai tempi della guerra dei sette Prodi. Di lui si raccontano più mirabili fatti che di
qualunque altro indovino. Basti il rammentare che fu detto e creduto che egli avendo
un giorno percosso colla sua verga due serpenti che si battevano, fu cangiato in
femmina, e che sette anni dopo ritrovando quegli stessi serpenti attortigliati e di
nuovo percuotendoli, ritornò maschio. Questa favola fu riferita anche dall’Alighieri nel Canto Inferno, ove
Virgilio così gli dice :
« Vedi Tiresiache mutò sembiante« Quando di maschio femmina divenne, « Cangiandosi le membra tutte quante ; « E prima poi ribatter le convenne Si noti come Dante avendo detto di sopra che Tiresia diventò femmina, usa qui il pronome le, cioèa lei, invece digli, cioèa lui, perchè Tiresia finchè non ebberibattuto li due serpenti con la vergaera non più maschio, ma femmina. Perciò usa il pronome di genere femminile.« Li duo serpenti avvolti colla verga, « Che riavesse le maschili penne. »
La qual favola significa che egli conosceva più d’ogni altro i pregi e i difetti
delle persone di ambedue i sessi ; e infallibile, tanto che niuno osava dubitare della veracità dei
suoi presagi. Avendo egli detto nel tempo della guerra dei Sette Prodi che Tebe non
sarebbe vinta, se per la patria avesse sacrificato sè stesso un discendente di Cadmo,
Menèceo figlio di Creonte udendo questo, non dubitò di uccidersi,
o gettandosi dalle mura di Tebe, come narrano alcuni, o trafiggendosi colla propria
spada Gladiator moribondo (che vedesi in una delle sale della
Galleria Capitolina in Roma) rappresenti Meneceo. — E questa una
di quelle statue che dai primi repubblicani francesi furono portate a Parigi, e dopo
la caduta di Napoleone I restituite a Roma.
Ebbe Tiresia una figlia chiamata Manto, indovina anche essa, che
esercitò, finchè visse, l’arti paterne, e dopo aver percorse molte regioni andò a
fermarsi in un terreno paludoso in mezzo ai laghi formati dal fiume Mincio, e
« Lì per fuggire ogni consorzio umano « Ristette co’suoi servi a far sue arti, « E visse, e vi lasciò suo corpo vano. « Gli uomini poi che intorno erano sparti « S’accolsero a quel luogo ch’era forte « Per lo pantan che avea da tutte parti. « Fer la città sovra quell’ossa morte ; « E per colei che il luogo prima elesse, « Mantoval’appellar senz’altra sorte. »
Tale è l’origine di Mantova, che Dante fa
raccontare a Virgilio stesso, ed assicurare che questa è la verità, e che qualunque
altra asserzione è una menzogna.
Meno rammentato, sì dai poeti antichi che dai moderni, è Trofonio ; ma poichè ne parlano Cicerone e Plinio, e noi l’abbiamo in altro
luogo incidentalmente nominato, convien darne qualche notizia. Trofonio era un insigne architetto che in Lebadia, nella Beozia, scavò un
antro nel quale si chiuse, e ove rendeva oracoli a chi andasse a consultarlo ; ed ivi
morì di fame. Si aggiunse dipoi che un Genio andò ad abitare e a dar responsi in
quella caverna che si continuò a chiamare l’antro di Trofonio ; ma
che era un luogo così orrido che chiunque vi discendeva diveniva poi tanto serio e
mesto che non rideva mai più finchè vivesse. Perciò di un uomo malinconico e che
sembrasse spaurato dicevasi dai Greci, come in proverbio, che era disceso nell’antro
di Trofonio.
Dell’indovino Anfiarao abbiamo parlato a lungo nella guerra di
Tebe ; di Calcante e di Euripilo abbastanza nella
guerra di Troia, Di altri indovini antichi di minor fama fia laudabile
tacerci, e concluder di tutti in generale quel che abbiamo accennato in
principio, che cioè l’arte loro era un effetto d’impostura da un lato e di stupida
credulità dall’altro ; e decisiva è la sentenza di Dante, che li condanna tutti
quanti, antichi e moderni, all’Inferno.
Venendo ora a parlar delle Sibille, non si può così facilmente dare
una sentenza su queste donne straordinarie e misteriose Sibilla ha qualche cosa di misterioso, poichè, secondo
alcuni Etimologisti, vuolsi che sia una parola composta che in lingua greca
significhi per decreto divino, quasi si fosse voluto riconoscere
nelle Sibille una missione divina.Dante
le ha condannate all’Inferno ; e solo ne parla incidentalmente
rammentando in una similitudine la Sibilla Cumana, che dava i suoi
responsi colle foglie nella sua caverna, come abbiamo detto parlando di Enea :
« Così al vento nelle foglie lievi « Si perdea la sentenzia di Sibilla. »
Anche gli scrittori ecclesiastici che composero polemiche e sillogizzarono contro le
falsità della religione pagana parlano delle Sibille con molto
riserbo ; alle quali attribuirono perfino alcune profezie sulla venuta del Messia e su
diversi fatti della vita di lui Dies iræ, è rammentata l’autorità della Sibilla insieme con quella
di David : Teste David cum Sybilla.niello o graffito dieci
Sibille, sotto ciascuna delle quali è posta una iscrizione latina
che accenna qual fosse la profezia a ciascuna di esse Fonte
Giusta in Siena, quella del Guercino nella Tribuna della Galleria degli
Uffiizi in Firenze e quella del Razzi nel palazzo della Farnesina in Roma.libri sibillini. I quali poi furon tenuti in sì gran conto daì Romani che ne
affidarono la conservazione e la interpretazione a un Magistrato o Collegio
sacerdotale, prima di dieci e poi di quindici persone ; e secondo il senso palese o
supposto di questi libri si regolavano spesso in Roma i più alti affari di Stato ; e
si ricorreva talvolta a consultarli quando veniva meno ogni umano consiglio, come nei
casi di pestilenza o di qualche altra pubblica sventura.
Non potremo ammetter di certo che le Sibille fossero profetesse ispirate dal Dio di
Abramo, nè che gli Dei falsi e bugiardi potessero
accordar loro virtù profetica. Non si deve dunque cercarne la spiegazione nel
soprannaturale, che può essere oggetto di fede nelle idee religiose, non già di
ragionamento nelle scienze umane. Solo potremo rendercene una ragione probabile
riflettendo che Sibille chiamavansi le sacerdotesse del culto di
Apollo nell’ Asia Minore, le quali a guisa e somiglianza della Pitonessa del tempio di
Delfo pretendevano di essere anch’esse ispirate dallo stesso Dio e di dar veridici
responsi, poichè avevano imparato anch’esse quel gergo amfibologico che potea
significar bianco o nero, retto o curvo a piacere degl’interpreti o degl’interessati
ad intendere in un modo piuttosto che in un altro. Molti dei loro responsi eran
conservati per tradizione nella memoria degli uomini, molti altri erano inventati e
attribuiti alle Sibille ; e siccome si credè, e forse era vero, che alcune di libri
sibillini comprati da Tarquinio. Se poi quelle donne girovaghe e misteriose che
si spacciavano per Sibille fossero state o no sacerdotesse di Apollo, nessuno avrebbe
potuto assicurarlo, e si credeva più facilmente l’inesplicabile maraviglioso che il
dimostrabile positivo. E poichè era utile ai reggitori degli Stati per facilità di
governo che il popolo fosse così credulo ed ignorante, non solo lasciavano allignare
queste imposture, ma spesso le favorivano, le sanzionavano ed anche se ne
impadronivano per servirsene a modo loro a dirigere o contenere il mobile volgo. Ecco
perchè anche i poeti, amanti sempre e fautori del maraviglioso, encomiano come
profetesse infallibili le Sibille e come veridici i loro responsi o versi sibillini,
confermando così le volgari opinioni e aiutando la politica del governo e gl’interessi
dei sacerdoti pagani.
Molte erano le Sibille rammentate dagli Antichi più pel luogo della loro nascita che pel nome loro o dei loro parenti ; ma dieci soltanto furon riconosciute e registrate come tali da Varrone il più celebre erudito del Paganesimo ; e sono le seguenti :
1ª La Sibilla Persica, di cui fece menzione Nicànore che scrisse le
gesta di Alessandro Magno.
2ª La Sibilla Libica rammentata da Euripide nel prologo della Lamia.
3ª La Sibilla Dèlfica, di cui parlò il filosofo Crisippo in quel
libro che egli compose sulla Divinazione.
4ª La Sibilla Cumea, ossia di Cuma in Italia, che è rammentata da
Nevio, da Pisone e da Virgilio.
5ª La Sibilla Eritrèa, che nacque in Babilonia come afferma
Apollodoro, asserendo che era sua concittadina.
Sibilla Samia, di cui Eratòstene
lasciò scritto che ne era stata fatta menzione negli antichi annali dei Samii.
7ª La Sibilla Cumana, così detta perchè nata in Cuma, città dell’Asia Minore. La stessa fu chiamata ancora Amatea, Demòfile ed Eròfile.
8ª La Sibilla Ellespontìaca, detta ancora Marpessia, perchè nacque nel territorio della Troade vicino all’Ellesponto ed
in un luogo chiamato anticamente Marpessio.
9ª LaSibilla Frigia, della quale fu detto che vaticinò in
Ancira.
10ª La Sibilla Tiburtina, ossia di Tivoli, aveva nome Albunea, della quale è rammentata la grotta da Orazio in una delle sue
OdiAlbuneæ
resonantis,Hor., Od.
Quei Mitologi che presero l’assunto di spiegare i miti della
Religione Pagana per mezzo di antichi fatti istorici e di incerte tradizioni, si
trovaron costretti di aggiungere nelle loro opere una parte che trattasse dell’Apoteòsi delle Virtù e dei Vizii. Riconobbero dunque che il loro sistema
storico non spiegava tutto in Mitologia, e confessarono implicitamente che la massima
parte delle Divinità del paganesimo erano personificazioni degli affetti dell’animo o
buoni o rei. Quella che per essi è parte suppletoria, per me è stata la parte principale
e fondamentale della Mitologia Greca e Romana ; e l’ho estesa anche alla spiegazione dei
fenomeni fisici, secondo la mente di G. Battista Vico, il quale nel
libro Principii di Scienza Nuova asserisce che i miti son tante Istorie fisiche conservateci dalle
Favole. E poichè i moderni filosofi, e tra questi il Pestalozza, discepolo e
seguace fidissimo del Rosmini, danno alla religione pagana il titolo di Panteismo Mitologico, è questo un altro motivo di credere che il sistema da me
prescelto sia il più opportuno a spiegare i miti dei Greci e dei Romani. Per me dunque
il Apoteosi è
un riassunto della parte fondamentale del mio lavoro, è una conferma di quanto ho
dichiarato dal principio alla fine di questa Mitologia.
La parola Il (Apoteòsi, secondo la greca etimologia, significa deificazione, e consiste nel considerare e adorare come Dei gli esseri
della Natura, le esistenze createTertulliano
infatti la definisce : « Consecratio et relatio hominis demortui in
Deos. »
— (In Apoll., cap. 34.)Giustapoteosi a significare i monumenti sepolcrali posti nelle chiese e nei
chiostri dalle famiglie private alla postuma boria dei loro
parenti :Apoteosi.Il Mementomo.)Filosofia del Gioberti sa bene che quel sistema filosofico è fondato sul principio
che l’Ente crea le esistenze. Nel Panteismo
mitologico invece si consideravano come Enti creatori le leggi e le forze della
materia e dello spirito. È decisivo su tal proposito il seguente passo di Cicerone : « Quid Opis ? quid Salutis ? quid Concordiæ ?
Libertatis ? Victoriæ ? quarum omnium rerum quia vis erat tanta, ut sine Deo regi
non posset,
— (ipsa res Deorum nomen obtinuit. »De Nat. Deor.,
Il culto più antico di cui si trovi memoria negli scrittori fu quello del Sole e della
Luna e quindi degli altri Astri ; e questo culto fu chiamato il Sabeismo, perchè ridotto a regolar sistema religioso dai Sabei, antico popolo
dell’ Arabia meridionale. Fu questa pur anco la religione dei Persiani, ne detur celeri victima tarda Deo).
Dal culto dei corpi celesti si passò presto a quello dei corpi terrestri, ossia dei
prodotti della terra, e principalmente degli animali ; ed eccoci al Feticismo, che per antichità gareggia col Sabeismo, e fu
principalmente professato dagli Egiziani, i quali anche al tempo di Mosè adoravano come
loro Dio il bue Api, la qual goffa idolatria fu imitata dagli Ebrei nel deserto col vitello d’oro, che costò la vita, per ordine di Mosè, a tante
migliaia di quegli stupidi imitatori del culto Egiziano.
Il Sabeismo sarebbe stato anch’esso, com’era in origine, una specie
di Feticismo, benchè meno goffo, non meno però materiale (poichè anche
gli astri son composti di materia cosmica), se ben presto non fosse invalsa l’idea e la
credenza che gli astri fossero regolati e diretti nel vero o nell’apparente lor corso da
Esseri soprannaturali che vi presiedevano. Così al feticismo, ossia
all’ apoteosi degli oggetti materiali, fu sostituita l’apoteosi di
Esseri soprannaturali rappresentanti le forze o leggi della Natura fisica che producono
il movimento della materia, e che poi furono dette scientificamente di attrazione e di repulsione. Fu questo il ponte di passaggio
dal culto materiale del feticismo al Panteismo
mitologico, in cui si fece l’apoteosi di tutte le forze e leggi della creazione
non solo del mondo fisico, ma pur anco del mondo morale. Furono allora immaginati e
splendidamente dipinti con stile impareggiabile dai Greci e dai Romani i più celebri e
graziosi miti di cui non perirà mai la memoria, finchè si leggeranno e s’intenderanno i
loro poetici scritti e quelli dei moderni poeti che li imitarono. Ma quando nella pagana
religione si giunse ad abusare dell’apoteosi col deificare per vile feticismo, si tolse
tutto il prestigio al culto degli altri Dei ; e gli uomini ragionevoli sentirono il
bisogno di una religione più pura e più razionale.
I Greci ed i Romani politeisti, oltre all’aver deificato tutti i
fenomeni fisici e morali, come abbiam detto, attribuirono a queste Divinità pregi e
difetti, virtù e vizii come agli esseri umani ; quindi vi furono divinità benefiche e
divinità malefiche, come vi sono uomini buoni e malvagi ; ed anche le migliori divinità
ebbero qualche difetto, come la stessa Minerva dea della Sapienza,
della quale dissero che ambì il premio della bellezza, e, non avendolo ottenuto, si unì
con Giunone a perseguitare per dispetto Paride ed i Troiani. Qual Nume dunque poteva
esser perfetto, se tale non era neppur la Dea della Sapienza ? E se un Nume non è
perfetto, può egli essere un Dio ? Quegli antichi Romani per altro che tanto fecero
maravigliare delle loro morali virtù gli stessi Padri della Chiesa, non conobbero le
assurdità della greca fantasia ; e gli antichi precetti religiosi riportati da Cicerone con antico stile nel libro Leggi, sono ben lontani dalle aberrazioni dei poeti greci e dei latini
dell’ultimo secolo della repubblica, che studiarono e imitarono la greca mitologia. Da
Tito Livio e da Cicerone sappiamo che esistevano in Roma sino dai primi secoli della
Repubblica più e diversi tempii dedicati alla Pietà, alla Fede, alla Libertà, alla Speranza, alla Concordia, alla Pudicizia, alla Virtù
militare, all’Onore, alla Vittoria ed alla
Salute
pubblica, cioè alla più felice
conservazione dello Stato. Anche alla Dea Mente, ossia al Senno, fu eretto un tempio dopo la infelice battaglia del Trasimeno. Perciò
queste Divinità non erano soltanto astrazioni filosofiche o personificazioni poetiche,
ma facevano parte della religione del popolo, e stavano a dimostrare che quando si
stabilì il loro culto pubblico e fintantochè si mantenne, il popolo credeva
nell’esistenza della Virtù ; e solo dopo le orribili guerre civili, allo spegnersi della
repubblica colla vita di Marco Bruto, si udì la bestemmia che egli per disperato dolore
proferì nell’atto di uccidersi : « O Virtù, tu non sei che un nome
vano ! »
Per lo contrario nei migliori tempi della Repubblica non troviamo facilmente che
fossero eretti tempii e prestato culto pubblico a divinità viziose o credute protettrici
del vizio. Gli stessi Baccanali introdotti in Roma da un Greco di oscura nascita (Grœcus ignobilis, come dice Tito Livio) e vituperosamente celebrati in
adunanze clandestine furono legalmente perseguitati dal Console Postumio, e quindi
proibiti dal Senato l’anno 566 dalla fondazione della città, e 186 anni avanti Gesù
Cristo. Ma poi nel cadere della Repubblica e nei primi tempi dell’Impero sappiamo non
solo dagli Storici, ma dai poeti stessi imperiali, che la corruzione avea dal mondo
romano bandita ogni virtù religiosa e civile. Dicemmo, parlando di Mercurio, che i
mercanti romani, secondo quel che afferma Ovidio nei Fasti, pregavano questo Dio a proteggerli nell’ingannare il prossimo senza
essere scoperti, e a potersi godere tranquillamente il frutto delle loro ruberie. Anche
Orazio mette in versi la preghiera di un ladro a Laverna, Dea dei
ladri, in cui alla furfanteria è congiunta la ipocrisia colle parole da
justum sanctumque videri, perchè cioè quel ladro non si contentava di rimanere
impunito, ma voleva anche apparire agli occhi del mondo uomo santo e pio per ingannare
più facilmente il prossimo suo. Non è noto però che la Dea Laverna avesse un pubblico
tempio in Roma ; Nèmesi, Dea della vendetta, era pubblico il
culto ; e fu generale tra i Pagani il sentimento che lo ispirava. Nè già si contentavano
essi di lasciare le loro vendette a questa Dea, ma davano opera ad ottenerle e compierle
col proprio braccio e co’propri mezzi. Vero è che in Roma nel culto pubblico e nel
tempio che erale stato eretto, questa Dea fu adorata come figlia di Giove e della Giustizia, e perciò come rappresentante la
giusta vendetta, ossia la punizione di quelle colpe che non cadono sotto la sanzione
penale delle comuni leggi umane : riferivasi dunque piuttosto alla pubblica vendetta del
Popolo Romano per mezzo della guerra, che alle vendette particolari dei privati
cittadini. Ma ognuno poi l’interpretava a suo modo e secondo le sue proprie passioni ; e
lo spirito di vendetta tanto potente e feroce nei secoli barbari, ben poco perdè della
sua forza e della sua intensità nei secoli così detti civili, neppure dopo la
promulgazione dell’ Evangelio che santificò il perdono e l’oblio delle offese.
Di tutte le affezioni dell’animo, e perciò di tutte le Virtù e di tutti i Vizii, hanno
gli antichi ed i moderni poeti fatto la descrizione come di tanti esseri soprannaturali,
di tante divinità o benefiche o malefiche ; e a seconda di queste descrizioni si sono
aiutati gli artisti a rappresentarle in scultura e in pittura. Ma non tutte queste
allegoriche divinità ebbero culto pubblico e tempii presso i Pagani : delle Virtù però
molte, come abbiam detto di sopra nominandole ; dei Vizii ben pochi. Per altro pitture e
statue si fecero e si fanno tuttora di qualunque Virtù e di qualunque Vizio, ed anche di
qualsivoglia idea astratta, politica o religiosa. Il riferirne ed analizzarne le
poetiche descrizioni antiche e moderne è ufficio dei professori di rettorica e belle
lettere, e il descriverne le antiche e le moderne sculture o pitture appartiensi Mitologo, poichè miti speciali non vi sono in queste
astrazioni, o personificazioni, o apoteosi, da raccontare.
Questa facoltà poetica di rappresentare con descrizioni o con immagini sculte o dipinte
qualunque virtù, qualunque vizio, qualunque idea astratta non è già spenta negli uomini
dei nostri tempi ; anzi vedesi sempre rinnuovata non solo nelle moderne poesie, ma pur
anco nei monumenti ove le Virtù civili e militari, ed anche le religiose, sono
rappresentate per mezzo di figure umane accompagnate da oggetti simbolici che ne
suggeriscono il significato ed il nome, senza bisogno di scriverlo sulla base delle
medesime o in qualche parte delle loro vesti o dei loro ornamenti. E se nei pubblici
monumenti non vedonsi che personificazioni di Virtù e di novelli pregi derivati
dall’incremento e dal perfezionamento delle Scienze e delle Arti, nei poeti moderni
trovansi ancora descritti e personificati i Vizii del loro secolo ; e basterà per tutti
citare il Giusti, che ci rappresentò quelli predominanti a tempo suo
(cioè nella prima metà del presente secolo) facendone poeticamente l’apoteosi mitologica
nei seguenti versi :
« Il Voltafaccia e la Meschinità « L’Imbroglio, la Viltà, l’Avidità « Ed altre Deità, « Come sarebbe a dir la Gretteria « E la Trappoleria, « Appartenenti a una Mitologia« Che a conto del Governo a stare in briglia « Doma educando i figli di famiglia, « Cantavano alla culla d’un bambino, « Di nome Gingillino, « La ninna nanna in coro, « Degnissime del secolo e di loro. »
Benchè nella Greca Mitologia si trovino alcuni uomini illustri elevati agli onori
divini, tali apoteosi molto differivano da quelle degl’Imperatori
romani. Infatti in Grecia richiedevasi 1° che l’eroe da considerarsi come un Dio fosse
figlio di una Divinità o per padre o per madre ; 2° che vivendo avesse compiute imprese
straordinarie per valore o per ingegno a prò dell’umanità ; e 3° che solo dopo la morte,
e quando in lui si riconoscessero le due precedenti condizioni fosse considerato e
adorato qual Nume. Perciò non deificarono nè Cadmo, nè Giasone, nè Peleo, nè Ulisse,
perchè non eran creduti figli di una Divinità. Nell’Impero Romano all’opposto l’apoteosi degl’Imperatori e delle Imperatrici era divenuto un vile atto
di adulazione al potere assoluto e dispotico del supremo imperante o dei suoi eredi e
successori, non già come in Grecia un atto spontaneo delle popolazioni memori delle
virtù dei suoi uomini illustri, e grate dei benefizii da essi ricevuti. Chi poteva
infatti stimar benefici Dei i proprii tiranni, e sante Dee Livia, Poppea e
Messalina ?
A tempo dei re di Roma fu deificato soltanto Romolo, ma per gherminella politica dopo
che i Senatori lo ebbero segretamente ucciso ; i quali non sapendo poi come acquietare
il popolo che ricercava il suo re guerriero, gli fecero credere per mezzo di Procolo che
fosse assunto in Cielo e divenuto un Nume, e che bisognasse adorarlo sotto il nome di
Quirino. Il popolo che credeva Romolo figlio di Marte, credè facilmente questa nuova
impostura come una teologica conseguenza della prima ; e il Senato fu ben contento di
adorar come Dio colui che non avea potuto tollerar come re. Così
Da Romolo sino a Giulio Cesare non si trova altra apoteosi nella Storia romana. Neppur
Numa, il piissimo Numa, l’inventore di tanti riti religiosi a lui suggeriti, come egli
dava ad intendere, dalla Ninfa Egeria, fu deificato. Quasi 700 anni corsero dalla morte
di Romolo a quella di Cesare, nel qual tempo il popolo romano divenne conquistatore del
mondo, senza che pensasse mai a deificare alcuno dei suoi più celebri generali che a
tanta gloria e potenza lo guidarono. Solamente dopo la proditoria uccisione di Giulio
Cesare, il desiderio di sì cara esistenza, a cui era dovuta la prostrazione del partito
aristocratico e inoltre tanti vantaggi a favore del popolo, fece nascere ed accoglier
con entusiasmo l’idea di venerarlo qual Nume. Ma spenta con Marco Bruto la libertà e
perduta affatto anche l’ombra di essa sotto Tiberio, le apoteosi degli
Imperatori e delle Imperatrici non furono altro che solennità comandate dal Principe e
servilmente festeggiate dal popolo, come abbiam detto di sopra ; e nel frasario stesso
degl’Imperanti l’esser trasformati in Dei significava morire. Infatti
l’imperator Vespasiano sentendosi vicino a morte disse : a quanto mi pare, divengo un
Dio (ut puto, Deus fio) ; e Caracalla dopo avere ucciso il fratello
Geta tra le braccia stesse della madre, ne ordinò l’apoteosi dicendo :
sia Divo, purchè non sia vivo (sit divus, dum non sit vivus). Questa
stessa frase nel poema dell’Ariosto adopra Ruggiero, quando per
significare che avrebbe ucciso il figlio dell’Imperator Costantino egli dice : e sia d’Augusto Divo. Divi infatti chiamavansi e non Dei gl’imperatori romani deificati, come li troviamo detti anche nella raccolta
delle Leggi romane dell’Imperator Giustiniano (Divus Augustus, Divus
Antoninus, Divus Traianus, ecc).
Tutte le cerimonie dell’apoteosi, o consacrazione degl’ Imperatori
romani, ci furono descritte estesamente non solo da
Si conservano tuttora circa 60 medaglie coniate in memoria di altrettante apoteosi
diverse ; in ciascuna delle quali vedesi un’ara ardente ed un’aquila che ergesi a volo,
ed inoltre vi si legge la parola Consecratio, che era il termine
officiale latino significante l’apoteosi.
A render più completa la spiegazione della classica Mitologia, accennerò brevemente alcune feste che celebravansi più specialmente in Roma che altrove.
Nel mese di Gennaio, il cui nome facevasi derivare da quello di Giano, si celebrava nel primo giorno la festa di questo Dio, e prima ad
esso sacrificavasi che agli altri Dei, perchè egli era considerato come il portiere
delle celeste reggia. Da questo giorno, come al presente, incominciava l’anno civile sin
dal tempo di Numa Pompilio, e inauguravasi con molta solennità, in quanto che i nuovi
Consoli con purpurea veste e preceduti dai loro littori prendevano possesso dell’annuo
ufficio, e tutto il popolo vestito a festa li accompagnava al Campidoglio per assistere
ai riti religiosi. E poichè i Consoli furono conservati, almeno di nome, anche sotto
gl’Imperatori e sino agli ultimi tempi del romano impero, le stesse cerimonie descritte
da Ovidio nel libro Fasti si
mantennero in Roma per più di mille anni. Anzi l’uso che vi fu allora di dir l’uno
all’altro parole di buon augurio si mantiene tuttora da quasi tremila anni, e non in
Roma e in Italia soltanto, ma per tutta Europa e presso molti popoli delle altre parti
del mondo. Era giorno solenne e lieto, come lo chiama Ovidio, non però tutto festivo,
ma, come ora direbbesi, di mezza festa, e allora dicevasi intercisus o
endotercisus, perchè dopo i riti solenni religiosi e civili ciascuno
attendeva al proprio ufficio, o professione nelle altre ore del giorno. Credevasi di
cattivo augurio che il primo giorno dell’anno si lasciasse trascorrere inerte senza
adempiere pur anco gli obblighi del proprio stato.
Feste Carmentali, che si ripetevano il dì 15, e vi si univano anche quelle in
onore di Pòrrima e Posverta. Noi abbiamo già detto
nel corso di questa Mitologia che la Ninfa Carmenta era madre di
Evandro, e che esulando insieme col figlio venne nel Lazio e fissò la sua dimora su quel
monte che poi fu detto il Palatino. Quanto poi a Porrima e Posverta, Ovidio e Macrobio asseriscono che esse erano o sorelle o
compagne di Carmenta, e che la prima, cioè Porrima, indovinava le cose
accadute, e la seconda, cioè Posverta, le future. Ma queste sono
deduzioni filologiche arditamente derivate dalla presupposta etimologia di quei
nomi.
I Romani adoravano come Dea anche Giuturna, sorella di Turno re dei
Rutuli, resa celebre da Virgilio nel suo poema dell’Eneide. Le fu dedicato anticamente un tempio nel Campo Marzio il giorno stesso
delle Feste Carmentali.
Nel mese di Febbraio è da notarsi la festa della Dea Sospita, il cui nome significa salvatrice. In origine e
grammaticalmente la voce sospita è un aggettivo che soleva aggiungersi
dai Lanuvini alla Dea Giunone. Poi divenne un nome di una particolare Divinità ; e Cicerone nel lib. De Nat. Deor. ci dice che la rappresentavano con una pelle di capra
sulle spalle, con un’asta e un piccolo scudo e i calzari rovesciati ; ma che questa non
era nè la Giunone Argiva, nè la Giunone Romana.
La Dea Fornace fu un’invenzione del re Numa Pompilio. Era veramente
una Dea da quelle etadi grosse, come direbbe Dante ; ma Ovidio asserisce che i contadini furono molto lieti di questa protettrice dei
loro forni, e che la pregavano devotamente :
« Facta Dea est Fornax ; læti fornace coloni « Orant ut fruges temperet illa suas. »
Della Dea Muta non ci danno notizia che Ovidio e Lattanzio ; e dicono
che era una Naiade, la quale fu privata
Le Feste Caristie erano un solenne convito fra i parenti ed affini
che si riunivano annualmente in questo giorno alla stessa mensa, non solo in
attestazione e conferma del loro reciproco affetto, ma principalmente per avere
occasione di sopire in mezzo alla comune letizia qualche discordia che fosse nata fra
taluni di loro nel corso dell’anno. Alcuni fanno derivare la voce Charistia dal greco charisma (dono) ; Ovidio dall’aggettivo chari :
« Proxima cognati dixere Charistia chari, « Et venit ad socias turba propinqua dapes. »
Nel mese di Marzo celebravasi la festa degli Ancili. È narrato anche nella Storia Romana il miracolo dell’ancile caduto dal Cielo a tempo di Numa. L’ancile era
uno scudo di figura ellittica e perciò privo di angoli, come, secondo
alcuni etimologisti, significa il nome stesso. Il buon popolo di Numa non solo vide
co’suoi propri occhi il miracolo, ma udì anche una voce dal Cielo che prometteva ai
Romani la maggior potenza finchè avessero conservato quello scudo. E Numa ne fece
costruire altri undici, non solo simili, ma tanto uguali che neppur l’artefice seppe in
appresso distinguere qual fosse quello caduto dal Cielo. Si tenevano tutti custoditi con
molta cura, e solo una volta all’anno nel mese di marzo i sacerdoti del Dio Marte li
portavano per le vie della città cantando e saltando secondo il rito. Quei sacerdoti
eran chiamati Salii dal saltar che facevano processionalmente ; e
l’inno che essi cantavano essendo stato composto ai tempi di Numa, era divenuto
inintelligibile a loro stessi : solo dall’esservi più volte ripetuta la parola Mamurio si credè che quel vocabolo fosse il nome dell’artefice degli
undici ancili, poichè dicevasi per tradizione che egli null’altro premio saliare.
Vèiove significa Giove piccolo, ossia bambino,
secondo gli etimologisti latini e lo stesso Ovidio. Perciò questo Dio è rappresentato
giovinetto e senza i fulmini in mano, ma invece accompagnato dalla capra che fu la sua
nutrice nell’isola di Creta. Aveva un tempio fra i due boschi dell’asilo di Romolo. Si
celebrava la festa di Giove Bambino il dì 7 dei mese di marzo.
Anna Perenna era una Dea adorata soltanto dai Romani, perchè
credevano che fosse quella stessa Anna sorella di Didone, rammentata
da Virgilio nel lib. Eneide, e
dopo la morte della sorella e per varie vicende dolorosissime venuta nel Lazio. Le
aggiunsero il titolo di Perenna perchè era considerata come una Ninfa
del fiume Numicio. Ovidio ne dà l’etimologia latina con un giuoco di
parole, facendo dire alla stessa Dea :
« Amne perenne latens Anna Perenna vocor. »
Nel mese di Aprile troviamo notata il dì 6 la Natività
di Diana e il dì 7 la Natività di Apollo. Questa indicazione è
conforme alla ortodossia mitologica, secondo la quale credevasi che di questi due Dei
gemelli Diana fosse nata un giorno prima di Apollo.
Le feste Robigali, cioè in onore del Dio Robìgo,
facevansi per implorare da questo Dio che tenesse lontana la ruggine
dalle biade. Robigo in latino significa ruggine, e i
Romani debbono a Numa Pompilio l’invenzione di questo Dio. Noi abbiamo notato nel
Cap. XXXIII che di molti Dei si conoscono le attribuzioni dal significato stesso del
loro nome ; e tra gli altri abbiamo rammentato il Dio Robigo.
Nel mese di Maggio troviamo indicato che il primo giorno di quel mese
fu eretta un’ara ai Lari Prèstiti. Quest’epiteto Prestiti dato ai Lari è
d’origine tutta latina : deriva da prœstare opem (prestar soccorso).
Sotto questo titolo erano considerati i protettori della città. Degli Dei Lari abbiamo parlato a lungo nel Cap. XXXVIII.
Nello stesso giorno si celebrava la festa della Dea Bona. Questa è la
stessa che la Dea Fauna moglie del Dio Fauno, di cui
abbiamo parlato nel Cap. XXXV. Fu detta la Dea Bona perchè era di una
così scrupolosa modestia e castità, che si chiuse nel suo ginecèo e
non volle vedere altra faccia di uomo che quella di suo marito. Perciò le matrone romane
le prestavano un culto religioso in un tempio chiamato opertum (che in
latino vuol dir chiuso), perchè a quei riti e in quel tempio non erano
ammessi gli uomini. La Storia Romana ci narra che essendovisi
introdotto il licenzioso P. Clodio travestito da donna, egli fu stimato sacrilego ; e
questo scandalo fu causa che Cesare ripudiò la propria moglie, dicendo che sulla moglie
di Cesare non dovevan cadere nemmeno sospetti.
Nel mese di Giugno trovasi rammentata la dedicazione del tempio a
Giunone Monèta. Questo titolo di Monèta dato a
Giunone è di origine latina : deriva a monendo (dall’avvertire) perchè
gli antichi Romani dicevano che questa Dea li aveva avvertiti che facessero un
sacrifizio di espiazione immolando una scrofa pregna. Cicerone stesso
disapprova questa e simili stolte superstizioni nel lib. De Divinatione.
Bellona, il cui nome è di origine tutta romana, derivando da bellum cioè dalla guerra, era creduta sorella del Dio Marte ed auriga
del medesimo nelle battaglie, quando egli combatteva dal suo carro. Essa pure si
dilettava di sangue e di stragi, come afferma Orazio, dicendola gaudentem cruentis. Aveva un tempio fuori di Roma, ove si radunava il
Senato per dare udienza a quegli ambasciatori che non erano ammessi in città. I
sacerdoti di questo culto si chiamavano Bellonarii, derivando il loro
nome da quello della Dea.
Summàno, quantunque avesse un
tempio in Roma, da prima nel Campidoglio, e poi, al tempo delle guerre di Pirro, presso
il Circo Massimo, ove tutti gli anni si celebrava la detta festa il dì 20 di giugno ; e
per quanto questo Nume sia rammentato da molti dei più celebri scrittori Latini, restò
peraltro incerto per lungo tempo quale ufficio egli avesse. Marziano Capella, poeta
latino del quinto secolo dell’ E. V. asserisce nel suo libro intitolato Satyricon che Summanus significa Summus
Manium, il primo degli Dei Mani, e perciò il Dio Plutone.
Cicerone e Plauto rammentano questo Dio Summano, ma non ne spiegano
gli attributi : Plinio nel libro Storia Naturale, dice soltanto che a questo Dio si attribuivano i
fulmini notturni, come a Giove i diurni. Ovidio poi confessa che non sa qual Dio sia
(quisquis is est). Peraltro i moderni Filologi che rivaleggiano coi
Paleontologi a ricostruire con frammenti fossilizzati gli esseri preistorici, si sono
impossessati di questo vocabolo Summanus, e raccogliendo qualche altra
indicazione che si trova di questo Dio e in Varrone e in Festo e negli Acta
fr. Arval. e nel Glossarium Labronicum, concludono col Preller
che Summanus è un Dio del cielo notturno, a cui si attribuivano i
temporali notturni come a Giove quelli diurni. Ma questa conclusione è quella stessa di
Plinio nel luogo da me citato di sopra. Non ha fatto dunque il Preller una nuova
scoperta, ma soltanto ha dimostrato con qualche altro documento esser la più vera
l’asserzione di PlinioB. Zandonella in un suo articolo inserito nell’Ateneo di Firenze del 15 febbraio 1874, esaminando il nome Monsummano
« applicato a borgo e monte nel Veneto e nella Val di Nievole »
mentre
non approva « l’etimologia di
e invece
riconosce giusta la conclusione del Preller, non nasconde per altro che le notizie
date dal dotto autore tedesco Monsummano da Sommo Mane (il
Plutone dei Pagani) che fu adottata dal Proposto Gori e poi dal Tigri nella
descrizione di Pistoia e suo territorio, »non discordano punto da quelle, più erudite
del Giornale Arcadico stampato in Roma nel 1820, cioè mezzo secolo
prima degli scritti del Preller. — Avvertimento agli ammiratori di tutto ciò che è
straniero, e non curanti o dispregiatori di ciò che è nostro.
Se per divinità straniere adorate dai Romani si dovessero intendere tutte quelle che
non furono inventate dai Romani stessi, converrebbe dire che le più di esse fossero
straniere, fatte poche eccezioni di Divinità Italiche e dell’apoteosi di qualche Virtù e
di qualche Vizio, come abbiamo notato nel corso di questa Mitologia. I Romani infatti
che per ordine di tempo comparvero gli ultimi nella scena politica del mondo antico e
costituirono l’ultima e al tempo istesso la più potente monarchia prima che sorgesse il
Cristianesimo, portarono già radicato negli animi loro e impiantarono officialmente
nella loro città, sin dalla sua fondazione, il Politeismo Troiano e Greco. Racconta lo
stesso Tito Livio che i Troiani profughi dalla loro città distrutta dai Greci vennero in
Italia seguendo il loro Duce Enea principe troiano, creduto figlio di Venere e di
Anchise ; che Enea fece alleanza con Latino re dei Latini e ne sposò la figlia Lavinia ;
che Ascanio figlio di Enea e di Creusa fondò Alba Lunga ; che dalla dinastia dei re
Albani discesi in linea retta da Enea, nacque il fondatore di Roma a cui si attribuì per
padre il Dio Marte. Dal che si deduce che le Divinità adorate allora nel Lazio e nel
territorio stesso ove sorse Roma esser dovevano per la massima parte quelle stesse dei
Troiani e dei Greci al tempo della guerra di Troia, poichè Omero in
tutta quanta l’Iliade ne Politeismo dei Romani, aggiungendovisi le tradizioni che l’Arcade
Evandro, creduto figlio della Dea Carmenta, venuto
nel Lazio prima di Enea, avea fondata la città di Fenèo su quel monte
che dal nome di suo figlio Pallante fu detto il Palatino, sarà necessario ammettere che
egli avesse introdotto il politeismo greco nel luogo stesso che in appresso fu il centro
della nuova città di Romolo : tanto è vero che anche a tempo di Cicerone, com’egli
afferma nelle sue lettere, esisteva nel monte Palatino l’antro consacrato da Evandro al
culto del Dio Luperco, vale a dire del Dio Pane. Si
continuarono inoltre in Roma sino agli ultimi tempi dell’impero pagano le Feste Carmentali, cioè in onore della Dea Carmenta madre di
Evandro. Anche il culto di Ercole Tebano fu introdotto nella stessa regione da Evandro
ed accolto dai popoli limitrofi in ringraziamento dell’averli Ercole liberati da quel
mostro dell’assassino Caco,
« Che sotto il sasso di monte Aventino « Di sangue fece spesse volte laco. »
Della qual liberazione e del qual culto non solo ragionano a lungo Virgilio nel lib. Eneide ed Ovidio nel lib. Fasti, ma anche Tito Livio nel lib. Storia e Valerio Massimo in più luoghi, e ci fanno sapere che l’ara consacrata
ad Ercole in Roma chiamavasi Massima, e che suoi sacerdoti erano i Potizii e i Pinarii. Lo stesso Numa Pompilio che
inventò tante cerimonie e pratiche religiose, non aggiunse alcun Dio a quelli adorati al
tempo di Romolo ; e solo fece credere che quanto egli ordinava gli fosse suggerito dalla
Ninfa Egeria. La base adunque della religione dei Romani era il politeismo dei Troiani e dei Greci già professato da Romolo e dai suoi compagni
prima di fabbricare la città di Roma. Quando dunque dai Mitologi si parla di Dei
stranieri adorati dai Romani non si deve intender Osìride, Iside ed Anùbi.
Quantunque i Greci sotto Alessandro Magno, e trecento anni dopo di loro i Romani sotto
Cesare, Marc’ Antonio ed Augusto, avessero conquistato l’Egitto, poche e sconnesse
notizie ci hanno tramandato gli scrittori di ambedue quelle nazioni relativamente al feticismo Egiziano ed alle idee religiose che quel popolo annetteva al
suo stravagantissimo culto. L’antico Egitto rimane tuttora in molte parti, e materiali e
morali, un mistero. Sono tuttora soggetto d’interminabili dispute non solo il feticismo e l’interpretazione dei geroglifici, ma pur anco le piramidi,
gli obelischi, l’istmo, le oasi, il delta, le bocche o foci del Nilo e la stessa
sorgente di questo fiume.
L’Egizia Dea Iside, poichè credevasi che fosse la stessa Ninfa Io trasformata in vacca da Giove, fu ben presto adorata ed ebbe un
tempio in Roma, come asserisce Lucano nel lib. Farsalia :
« Nos in templa tuam Romana accepimus Isim. »
Di questa Dea eran devote principalmente le donne ; tra le quali è rammentata da
Tibullo la sua Delia, che passò ancora qualche notte avanti le porte
del tempio d’Iside a pregar la Dea per la salute di Tibullo stesso che
era infermo in Corfù. I sacerdoti Isiaci portavano il capo raso ed
erano vestiti di tela di lino, e perciò si chiamavano linìgeri ; e linìgera trovasi detta la stessa Dea Iside. Lo stromento sacro per le
cerimonie religiose era il sistro, formato di una larga
I Romani adoravano Iside sotto la forma di donna ; ma gli Egiziani
sotto quella di vacca, perchè credevano che questa Dea insieme col suo fratello e marito
Osiride, dopo avere insegnato a loro l’agricoltura, si fossero
trasformati essa in vacca ed Osiride in bove o toro. Nè gli Egiziani
si contentavano di adorare queste due Divinità sotto la forma dei suddetti animali, ma
tenevano nel loro tempio e prestavano il loro culto ad un bue vivente a cui davasi il
nome di Bue Api. Questo bue aveva il pelo nero, e soltanto nella
fronte era bianco ed in alcuni punti della groppa. I sacerdoti Egiziani dopo tre anni lo
annegavano in un lago, e poi dicevano che era morto o perduto ; di che facevasi un gran
lutto con gemiti e pianti da tutto il popolo ; ma dopo tre giorni, avendo già pronto un
altro bove simile, dicevano che si era ritrovato o era risuscitato ; e il popolo ne
faceva maravigliosa festa. Con queste stravaganti cerimonie volevasi alludere alla
favola o tradizione Egizia che Tifòne avesse ucciso segretamente il
suo fratello Osiride ; e che questi poi fosse trasformato in bove.
Aggiungono inoltre che Iside insieme con suo figlio Oro uccidesse
Tifone in battaglia.
Osìride è chiamato ancora Seràpide ; sotto ambedue
i quali nomi è rammentato dagli scrittori latini. Nel tempio d’Iside e
di Seràpide ponevasi la statua del Dio Arpòcrate che
era considerato come Dio del silenzio, e perciò rappresentavasi in atto di premer le
labbra col dito indice della mano destra, segno usitatissimo ed espressivo d’intimazione
di silenzio. Quest’atto è anche segno di stare attenti, come abbiamo in Dante :
« Perch’io, acciò che ‘l Duca stesse attento, « Mi posi il dito su dal mento al naso. »
reddere aliquem Harpocratem per significare ridurre qualcuno al
silenzio.
Trovasi anche rammentato dagli scrittori latini il Dio Anùbi, che gli
Egiziani dicevano esser figlio di Osiride, e lo rappresentavano sotto la forma di cane e
talvolta di uomo, ma però sempre colla testa di cane, come se ne vedono alcuni idoletti
di metallo nel Museo Egiziano. Virgilio stesso nel libro
Eneide nomina il latrator
Anubis ; ma pare che, in generale, i Romani non avessero gran devozione per
questi mostruosi Dei Egiziani, poichè Giovenale, nella Satira
« Chi, o Vòluso, non sa quai mostruose « Adora deità l’Egitto stolta ? « Qui i coccodrilli, là di velenose « Serpi Ibi sazia a venerar si volta ; « Di sacri omaggi segno eziandio pose « Caudata scimia in fulgid’oro scolta « Là dove a Tebe diroccata accanto « Scioglie i magici suon Mennone infranto. « Quinci il gatto in onor, quindi è a vedere « Fluviatil lato accor devoto incenso ; « Si prostra al cane, di cittadi intere, « E non anzi a Diana, il popol denso : « Violar cipolle e porri, o far parere « Sol d’azzannarli, fora un fallo immenso. « O sante genti, a cui da terra sorti « Questi Numi sì ben nascon negli orti !
Nei tempi eroici della romana Repubblica (eroici non solo per valore, ma ancora per
senno e per moralità), i riti degli Dei stranieri non erano ammessi in Roma, come
avverte T. Livio nel lib. miti della greca
mitologia inventati da quelle fervide e sbrigliate fantasie dei greci poeti e dei greci
sacerdoti. I Romani sino al termine della seconda guerra punica furono i puritani della pagana religione, e considerarono sin dal tempo di Numa il
sentimento religioso e morale come il primo fattore
dell’incivilimento ; e perciò ebbero cura di tenerne lungi qualunque elemento che
tendesse a viziare la moralità delle azioni, senza la quale non può esistere vera
civiltà. Ma quando la romana costanza che trionfò di tutti gli ostacoli e di tutte le
più dure prove non fu abbastanza forte contro le prosperità e le ricchezze, e si lasciò
vincer da queste, le idee morali cominciarono ad esser neglette ed obliate, e la
religione stessa perdè il suo prestigio e la sua dignità, e non servì più allo scopo
altamente sociale per cui fu istituita. In Roma insiem coi vizii penetrarono le più
strane idee religiose contrarie affatto alla buona morale. Aggiungendovisi poi le apoteosi degli Imperatori e delle Imperatrici, parve, com’ era
veramente, prostituita la religione al potere politico e negata l’esistenza stessa degli
Dei, presumendo che essi potessero accogliere nel loro numero e nel loro consesso
qualunque mortale benchè scellerato ed empio, come furono i più degli Imperatori
romani.
apoteosi
sorgeva e ben presto diffondevasi una nuova religione, i cui seguaci destarono
l’ammirazione di tutti per la bontà e santità della vita : e questo parve un gran
miracolo in mezzo a società così corrotta ; questo richiamò l’attenzione di tutti sulla
nuova religione del Cristianesimo, perchè dagli ottimi effetti morali
che quella produceva ne’suoi seguaci inducevasi la convinzione che ottime esser
dovessero le massime che essa insegnava. Perciò Dante fa dire al
poeta Stazio nel C. Purgatorio, relativamente a
questi primi Cristiani :
« Vennermi poi parendo tanto santi,« Che quando Domizian li perseguette, « Senza mio lagrimar non fur lor pianti. « E mentre che di là per me si stette, « Io gli sovvenni, e lor dritti costumi« Fer dispregiare a me tutt’altre sette. »
Un ragionamento simile a quello del poeta Stazio condusse alla stessa conseguenza di
farsi Cristiani tutti quei politeisti che non erano affatto privi del lume della
ragione ; e se alcuni furon trattenuti dalla paura delle persecuzioni, molti altri si
esposero ai tormenti ed anche alla morte, e suggellaron col sangue l’attestazione della
loro novella Fede. Quando poi cessarono le persecuzioni, e i re stessi e gl’imperatori
divenner cristiani, si dileguò ben presto il politeismo dal mondo
romano, e il Cristianesimo si diffuse pur anco fra i popoli barbari, fuor dei confini
del romano impero. Ai primi del secolo IV dell’era cristiana, Costantino Magno fu il
primo imperatore cristiano ; ma soltanto negli ultimi anni dello stesso secolo furono
officialmente aboliti da Teodosio il Grande quasi tutti i sacerdozii del Politeismo,
incluso quello delle Vestali. I più ostinati a conservare il culto dei falsi Dei furono
gli abitanti delle campagne e dei villaggi o borghi, che in latino chiamavansi pagani (aggettivo derivato da pagus
politeismo stesso fu detto il Paganesimo ; il qual termine
divenne poi, tanto in prosa quanto in poesia, più comune e più usato che gli altri due
di politeismo e di gentilesimoPaganesimo, secondo la derivazione latina, significherebbe
religione dei contadini. Negli scrittori della bassa latinità è detto paganitas, come abbiamo nel Codice Teodosiano, lib. Paganitatis stolidœ errore detineri. Negli scrittori
ecclesiastici i politeisti son detti ancora Ethnici e Gentiles, vocaboli che sono sinonimi, il primo
in greco e il secondo in latino ; onde è derivata in italiano la parola gentilesimo che si può usare indifferentemente per paganesimo ; ma non così la parola gentili per pagani, perchè il vocabolo gentili ha due altri
diversi significati : uno più usato e comune invece di cortesi ; e
l’altro legale, che sta ad indicare le persone della stessa famiglia, la quale in latino dicevasi più comunemente gens, mentre familia significava anche i servi o schiavi. Da
questo significato legale è derivato in italiano l’aggettivo gentilizio ; come abbiamo nelle locuzioni : stemmi gentilizii, titoli
gentilizii ecc. Dante estese il significato legale di gentili a tutte le persone dello stesso partito, e precisamente a
tutti i Ghibellini (considerandoli come componenti una sola famiglia per
gl’interessi comuni che avevano) quando egli disse all’ Imperatore Alberto Tedesco
nel Canto Purgatorio :De tuoi gentili, e
cura lor magagne. »tutti
gli uomini sono eguali, e perciò favoriva e comandava l’abolizione della
schiavitù, anche i più rozzi ed ostinati contadini cominciarono ad apprezzare se non la
sublimità, che non potevano intendere, almeno l’utilità di questa nuova religione ; e
tutto l’impero romano, abiurato il paganesimo, divenne cristiano.
FINE
NB. I numeri indicano le pagine. I termini derivati son distinti con caratteri italici, e posti subito dopo quei nomi da cui derivano.
Per mezzo di quest’ Indice alfabetico può la presente Mitologia
far l’ufficio pur anco di Dizionario Mitologico.
A pag. 314 lin. 21 invece di Arianna si
legga Andròmeda
» 448 » 12 » Chersoneto »
Chersonèso
» » » 15 » vi approdavano
» 451 » 27 » orme » arme